IL SESSANTOTTO E LA CONTESTAZIONE GIOVANILE

IL SESSANTOTTO E LA CONTESTAZIONE GIOVANILE


Sul finire del febbraio 1968 gli studenti occuparono l’università di Roma. Ottennero, in alcune facoltà, la sperimentazione di una didattica alternativa, comprendente seminari autogestiti ed esami di gruppo.
In opposizione all’occupazione, il rettore chiamò la polizia. Si giunse così all’inevitabile scontro fra studenti e poliziotti, la celebre “battaglia di Valle Giulia”. La protesta studentesca intanto si estese in Italia anche ad altri atenei e persino a licei ed istituti superiori: Trento, Milano, Torino, Roma, Napoli.

Il Sessantotto, d’altronde, si presenta subito come una ventata libertaria che investe tutto l’Occidente; la variopinta e fantasiosa contestazione giovanile si dispiega da Berkeley a Tokyo, da Parigi a Berlino. Alcune caratteristiche quali l’antimilitarismo, la critica del familismo, dell’arrivismo e del consumismo, la battaglia per una scuola migliore, la difesa dei diritti umani, la richiesta di una maggiore partecipazione dei giovani e delle classi inferiori alla vita politica, l’aspirazione a una maggiore democrazia e a una maggiore giustizia nella società, la solidarietà con gli oppressi, sono comuni ai movimenti giovanili che nel Sessantotto “incendiarono” il mondo. Tuttavia in ciascuna nazione la rivolta studentesca assume anche caratteristiche proprie, locali.

In Italia, per esempio, il Sessantotto si protrarrà almeno per una decina d’anni, influenzando, nel bene e nel male, l’evoluzione della nostra storia.

La gioventù, che in Occidente è impegnata in una accesa rivolta contro padri e maestri, è la prima generazione postmoderna. Diversi radicalmente dai padri, i giovani sessantottini vivono in un’epoca di vorticosi mutamenti, hanno goduto di un benessere economico sconosciuto alle generazioni precedenti, un benessere che influenza la loro visione del mondo e rappresentano la generazione nata immediatamente dopo le violenza inaudite della Seconda Guerra Mondiale, gli obbrobri di Auschwiz, Hiroshima e Nagasaki e da queste violenze restano condizionati.

Sono una minoranza, ma beneficiano di appoggi politici e diventano protagonisti sui mass media. Abbracciano valori umanitari ed espressivi. La loro etica è egalitaria, permissiva, democratica e altamente personalizzata. Manifestano empatia e simpatia per gli oppressi, i bisognosi e i diseredati. Sono stanchi di una scuola di massa impersonale, dove mancano stretti contatti con i professori e che non garantisce sbocchi professionali adeguati. Esaltano il gruppo in contrapposizione all’esaltazione dell’individuo che compie la cultura capitalista. Contrari a “farsi una posizione”, pensano che il significato della vita vada cercato altrove, nell’arte, nella scienza, nella filosofia, nell’amore, nella solidarietà, nell’avventura e nell’intensificazione dell’esperienza, in breve nel vasto regno dell’estetica e dell’espressività. Cercano l’autonomia e l’autorealizzazione. Credono in un diverso rapporto uomo-donna e a una diversa ripartizione dei ruoli in seno alla famiglia. E infatti l’evoluzione e l’affermazione del femminismo subiranno una forte accelerazione dopo il Sessantotto. Credono nella convivenza di razze diverse. Sono contro il materialismo imperante, sono romantici e giocosi. Coniano slogan come “L’immaginazione al potere” e “Chiedi l’impossibile”. Usano le manifestazioni come strumenti di mobilitazione dell’opinione pubblica.

Una parte degli studenti cercherà un modo di vivere alternativo, bohemien, underground, totalmente fuori dal Sistema. Spesso il distacco dalla società e dai suoi valori dominanti assumerà il volto dell’hippy e talvolta quello più inquietante dell’emarginazione e della droga.
Dietro alla protesta, è chiaro, agiscono molti e inestricabili fattori: individuali, istituzionali, culturali e storici.

In Italia la contestazione giovanile si salda al marxismo e alle lotte operaie. Nel 1969, le lotte del cosiddetto “autunno caldo” vedono protagonisti, fianco a fianco, studenti e operai. Non appoggiati esplicitamente dai massimi dirigenti del Partito Comunista, i giovani italiani all’opposizione, che vagheggiano una rivoluzione comunista sul tipo della rivoluzione culturale cinese di Mao e Lin Piao, danno vita a formazioni extraparlamentari rissose e anarchicheggianti. In Italia il movimento studentesco diventa palestra politica dove si affinano le abilità retoriche e di comando e si formano le nuove classi dirigenti. Molti leader della contestazione sono diventati poi nel nostro paese classe politica dirigente.
Il Sessantotto italiano assume la violenza come strumento di lotta politica e una parte della contestazione sessantottina degenererà in Italia nel terrorismo. Nelle fabbriche si diffonde il luddismo, inteso come sabotaggio di macchine e produzione. Lo sciopero, spesso indiscriminato, si diffonde come pratica di rivendicazione anche tra impiegati, tecnici e professionisti.

Il Sessantotto italiano assume caratteristiche di rivolta piccolo borghese, un po’ velleitaria. Gli obiettivi della rivolta diventano vaghi, molto ideologici e poco ancorati alla concretezza e alla realtà; non si compie lo sforzo di commisurare i mezzi ai fini. Prevalgono il ribellismo e l’utopismo. L’ideologia dominante tra i contestatori diventa il pensiero di Herbert Marcuse, un canuto filosofo tedesco, tardo esponente della Scuola di Francoforte, che, dalle università californiane, predica il ripudio della società industriale, della scienza e della tecnica, divenute ormai forme di dominio sull’uomo, della repressione e dell’etica della prestazione, intese come alienazione e mortificazione del principio del piacere.

Il Sessantotto contesta soprattutto la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Le idee di Marcuse portano a contestare la divisione del lavoro quando non il lavoro stesso.

Anche la società italiana è una società in vivace e rapida trasformazione. I primi anni Sessanta sono gli anni della rinascita e del boom economico. I consumi si diffondono anche tra gli strati sociali inferiori, in precedenza esclusi. Il Sessantotto accelera il processo di secolarizzazione della società italiana. I valori religiosi, la Chiesa, il “sacro” vanno in crisi. Quando non prevalgono i valori materiali, le energie spirituali investono il qui e ora, l’immanenza non la trascendenza.

Il Sessantotto fu, in Italia, un vero terremoto, un movimento dotato di grande energia innovativa, ma conobbe anche eccessi e produsse storture che durano tuttora e che hanno profondamente condizionato la vita politica, economica, culturale e sociale dei decenni successivi. La diffusione di un’acuta consapevolezza dei propri diritti miope però verso i propri doveri, un pesante ritardo nello sviluppo industriale del paese, una guerra civile sfiorata, una drammatica scia di sangue con morti e feriti, lo sfacelo della scuola, un certo lassismo nella vita pubblica e una certa ineducazione di comportamenti nella vita quotidiana sono probabili eredità di quella stagione. Scrisse lo scrittore e giornalista Giampaolo Pansa nel tracciare un bilancio di quell’epoca: “Straordinaria stagione di grandi slanci, di enormi sciocchezze e di terribili errori”. E numerosissimi sono i saggi su quel periodo che escono ogni anno in libreria a cercare di dirimerne le contraddizioni.

Forse è davvero tempo di uscire dal clima di conformismo e di politically correct che vuole soltanto formidabili quegli anni e tentarne un bilancio sereno e veritiero, che separi finalmente gli aspetti positivi da conservare da quelli negativi da emendare