IL PROGRAMMA TEORICO DI TOMMASO

IL PROGRAMMA TEORICO DI TOMMASO

1.1. Fede e ragione

Il rapporto tra fede e ragione è chiarito da Tommaso anzitutto nella definizione della loro distinzione (in esplicita opposizione alla tradizione agostiniana).

La ragione ha come ambito il mondo naturale, per indagare il quale, secondo Tommaso, bastano le sue forze, senza che debba ricorrere alla rivelazione. In tale ambito egli riconosce come autorità suprema Aristotele, le cui ricerche erano state svolte senza alcun rapporto con le verità della fede, giungendo a conclusioni che gli sembravano, nel loro complesso, ineccepibili.

La fede ha invece come proprio ambito il mondo soprannaturale, la cui conoscenza è possibile (nei limiti concessi all’uomo) solo in base alla rivelazione. In questo ambito la dottrina di Aristotele non possiede infatti alcuna autorità, poiché le verità rivelate non sono raggiungibili con la ragione naturale. La distinzione così fissata non comportava per Tommaso la separazione dei due ambiti (come per gli averroisti), bensì una sostanziale convergenza e un finale accordo tra di loro. La conclusione fondamentale della filosofia, cioè l’esistenza di Dio, è infatti considerata il punto di partenza della teologia rivelata. Esse rimangono tuttavia distinte per il modo in cui affermano la conoscenza di Dio (la filosofia con la ragione, la teologia rivelata con la fede). D’altra parte, la rivelazione da un lato e la ragione dall’altro (e quindi la teologia e la filosofia) vengono all’uomo entrambe da Dio, e ciò costituiva per Tommaso la garanzia del loro accordo. Le teologia (rivelata) va certo oltre le conclusioni della filosofia, in quanto riguarda caratteri di Dio che la ragione non può né dimostrare né concepire; ma le verità cui essa perviene non possono—data la loro comune origine—entrare in conflitto con quelle della filosofia.

Su questa base, Tommaso stabilì con precisione i compiti rispettivi della filosofia e della teologia:

“Possiamo nella sacra dottrina usare la filosofia per tre fini: 1) per dimostrare i preamboli della fede, che sono necessari alla conoscenza per fede; quali sono le cose che si dimostrano intorno a Dio con la ragione naturale: che Dio esiste, che Dio è uno, e altre simili verità di Dio e delle creature che in filosofia vengono dimostrate e dalla fede sono presupposte; 2) per chiarire, mediante similitudini, cose che sono di pertinenza della fede; così Sant’Agostino nel De Trinitate si serve di molte similitudini tratte da dottrine filosofiche per chiarire la Trinità; 3) per confutare le obiezioni che si muovono alla fede mostrando che sono false o non sono necessarie” (In Boetium De Trinitate, q. 2, a. 3).

Con questi compiti, la filosofia sembra ricondotta al ruolo tradizionale di ancilla theologiae, tanto più se si considera la soluzione che Tommaso dava al problema di un eventuale contrasto con la teologia. In linea di principio tale contrasto era per Tommaso impossibile; poteva tuttavia verificarsi in linea di fatto. La rivelazione, secondo Tommaso, venendo all’uomo direttamente da Dio, non può essere erronea, e perciò dev’essere ritenuta superiore alla ragione, la quale, pur essendo un dono di Dio, può invece errare se male usata dall’uomo. In caso di contrasto con la teologia, la filosofia deve dunque rivedere le proprie conclusioni, sino a quando esse si accordino con le verità della fede. Quest’ultima, quindi, costituisce la “regola” della ragione stessa.

Alla filosofia sembra così negata quell’autonomia che Tommaso afferma di riconoscerle, in quanto le sue conclusioni risultano di fatto predeterminate. Così tuttavia non era —almeno dal punto di vista di Tommaso (e della cultura religiosa del tempo)— proprio perché la conclusione necessaria della filosofia era l’esistenza di Dio e la determinazione dei suoi attributi fondamentali. Su di essi le verità della fede si innestavano come un’integrazione ulteriore non necessaria, cioè non obbligata, per la filosofia. Questo era per Tommaso “rationabile obsequium”, cioè l’assenso fondato sulla ragione, che per attuarsi richiede uno specifico atto di volontà; atto che costituisce l’aspetto essenziale della fede.

Alla filosofia rimaneva dunque un margine limitato, ma reale di autonomia (superiore comunque a quello fino allora riconosciutole dalla cultura cristiana). Ad essa corrispondeva una concezione complessa ma equilibrata dell’uomo, le cui diverse facoltà (ragione e volontà) si muovono in reciproca distinzione, talché la conclusione religiosa, pur doverosa in quanto fondata sulla ragione, rimane, comunque, sempre affidata alla libera scelta. Non solo. Gli stessi contenuti della teologia erano sostanzialmente fondati da Tommaso non su affermazioni dogmatiche, ma sulla natura stessa della ragione.

Da questo punto di vista, la concezione tomistica dei rapporti tra fede e ragione può vedersi riassunta nella formula gratia naturam non tollit, sed perficit (“la grazia non annulla la natura, ma la porta al suo compimento”) .

1.2. Le “vie” per dimostrare l’esistenza di Dio

Conformemente all’impostazione sopra chiarita —e alla teoria della conoscenza — per la dimostrazione dell’esistenza di Dio, Tommaso non accettò l’argomento a priori di Anselmo d’Aosta, la cui validità — come Anselmo stesso aveva ammesso nella polemica con Gaunilone — era, in ultima istanza, condizionata dalla fede. Anche sul piano puramente razionale tale argomento non è, secondo Tommaso, valido, poiché per acquisire una nozione chiara di Dio occorreva, prima, averne dimostrato l’esistenza.

Gli argomenti di cui Tommaso si serve per dimostrare l’esistenza di Dio procedono, di conseguenza, a posteriori: partono cioè dall’esistenza del mondo (e, più precisamente, da certe caratteristiche delle cose esistenti) per giungere, in virtù di certi principi (soprattutto quello che non ammette si possa risalire all’infinito nella ricerca delle condizioni), all’esistenza di Dio quale condizione necessaria dell’esistenza del mondo e delle sue caratteristiche. Tali argomenti sono cinque (le cosiddette cinque vie tomistiche) e nel loro insieme costituiscono una sintesi di tutte le prove tradizionali dell’esistenza di Dio e quasi un compendio della filosofia scolastica sull’argomento.

Esse sono:

  • la via ex motu, che dall’esistenza effettiva del moto (inteso come passaggio dalla potenza all’atto) risale a quella di un primo motore immobile.
  • La via ex causa, che dall’esistenza della causalità tra i fenomeni risale a quella di una causa prima incausata.
  • La via ex contingentia, che dalla natura contingente delle cose giunge a quella di un essere assolutamente necessario.
  • La via ex gradibus, che dall’esistenza di esseri forniti di qualità (potenza, bellezza, intelligenza ecc.) in gradi diversi ricava quella di un essere che le possiede in grado sommo.
  • La via ex fine, che, dall’esistenza di un ordine generale nelle cose, perviene all’esistenza di un essere sommamente potente e intelligente loro ordinatore.

Come è evidente, le “vie” di Tommaso si ispiravano essenzialmente alla dottrina metafisica di Aristotele, ma non esclusivamente ad essa. È derivata da Aristotele la prima e, indirettamente, la seconda (Aristotele non considerava Dio causa efficiente del mondo, ma solo sua causa finale). La terza si rifà alla concezione di Avicenna relativa all’essere possibile e all’essere necessario; la quarta riprende un’argomentazione di origine platonica; la quinta, infine, ripropone una considerazione risalente ai primordi della filosofia, addirittura al pensiero prefilosofico.

In un certo senso, la prova più significativa, specie per la concezione di Tommaso sui rapporti tra Dio e il mondo, è la terza (ex contingentia). Essa evidenzia il fatto che la natura del mondo non comporta, secondo Tommaso, la sua esistenza, e che solo Dio può essere considerato l’essere la cui essenza implica l’esistenza. Dio, in altri termini, è l’essere sussistente per sé (ossia, in virtù della sua stessa natura), mentre il mondo è l’essere sussistente per altro (ossia, in virtù della creazione divina), esiste quindi solo per partecipazione all’essere divino.

Tale dottrina porta alla massima chiarezza ciò che Tommaso aveva fissato fin dall’opuscolo De ente et essentia, distinguendo l’essenza o natura di una cosa (ciò che essa è, o quidditas) dal fatto che essa esista.

DIFFERENZE TRA LA METAFISICA DI ARISTOTELE

E QUELLA DI TOMMASO

Nel libro  della Metafisica Aristotele riferisce l’espressione “ente” a cose diverse con significati diversi (si dice ente sia della sostanza che dell’accidente, sia della materia che della forma, sia dell’atto che della potenza).

Se l’ente non è univoco diventa un problema definire “scienza” quella disciplina che studia “l’ente in quanto ente” (ossia la metafisica) (Meth. , 1003a 20-31).

Aristotele sostiene che l’ente non ha significato univoco ma neppure equivoco (ovvero non si dice per pura omonimia), perché i significati i diversi significati hanno una loro unità che deriva dal fatto che tutti i significati di “ente” hanno nella sostanza il loro riferimento unitario.

“Ente” si dice in primo luogo della sostanza; degli accidenti per riferimento alla sostanza, perché la sostanza esiste in sé, mentre l’accidente esiste solo nella sostanza; si dice, inoltre, della materia e della forma, perché principi della sostanza; dell’atto e della potenza come “stati della sostanza”. È dunque possibile una scienza dell’ente in quanto ente. (Meth.,  , 1003a 32-10003b 18).

L’ente secondo Tommaso

Già Aristotele aveva distinto l’ente reale dall’ente logico (Meth, V)

1) l’ente si divide nelle 10 categorie (che sono i supremi generi dell’ente reale).

2) l’ente indica soltanto la verità di una proposizione (l’accordo o il disaccordo dei termini che costituiscono una proposizione) (Ente logico).

Sub 1.) Può dirsi ente solo qualcosa di reale.

Sub 2.) Può dirsi ente tutto ciò su cui può essere formata una proposizione affermativa, anche se questa non pone alcunché nella realtà. Diciamo ente anche le privazioni e le negazioni (di essere).

L’essenza, l’ente e l’esistenza

L’essenza è qualcosa che è comune a tutte le nature, secondo le quali i diversi enti vengono classificati nei diversi generi e specie (es. l’umanità (humanitas) è l’essenza dell’uomo così come l’animalitas è l’essenza dell’animale).

Ciò che costituisce una realtà nel proprio genere viene indicato con il termine quidditas (quiddità, dal pronome interrogativo Quid nella frase Quid est hoc?; Quod quid erat esse).

Avicenna usa il termine forma (=ciò che de-termina una realtà).

BOEZIO usa il termine natura (si dice natura tutto ciò che può essere conosciuto dal pensiero). Una realtà è intellegibile solo mediante la sua definizione ed essenza.

ARISTOTELE nel V libro della Metafisica dice che ogni sostanza è natura.

Per TOMMASO l’essenza è ciò in cui e con cui un ente ha l’essere.

Aristotele aveva sostenuto che ciò da cui dipende l’esistenza di un ente è l’essenza.

Per Tommaso, ciò che fa di una sostanza qualcosa di esistente non è l’essenza ma l’actus essendi (l’atto di essere, di esistere). L’essenza è la potenza dell’atto di essere.

Essenza= materia + forma (essenza possibile, mentale).

Atto di essere o esistenza (essere reale)

Dio=essenza + esistenza (Dio è increato, causa sui).

L’atto di essere è di per sé illimitato, ma è limitato solo dall’essenza.

Mentre l’essenza esiste mediante l’atto di essere, l’atto di essere non ha bisogno dell’essenza avendo in se stesso la ragione del proprio esistere. È l’atto puro di esistere, è Dio che si distingue dagli altri enti perché Atto puro.

Da ciò Tommaso fa derivare la suddivisione dell’ente che non riguarderà più la sostanza e le affezioni della sostanza, ma il rapporto tra atto e potenza, tra atto (d’essere) ed essenza.

L’unità dei significati dell’essere, contrariamente a quanto sosteneva Aristotele, è determinata dal fatto che tutti gli enti sono atto d’essere. Tuttavia, mentre in Dio questo atto d’essere sussiste in sé, illimitato, negli enti è limitato dall’essenza.

Gli enti, dunque, hanno in comune l’actus essendi, ciascuno secondo la misura della propria essenza. Essi sono disposti in modo ordinato dal meno al più.

Quest’ordine rinvia a Dio in quanto atto puro d’essere (le cinque vie seguono lo stesso schema). Quest’ultimo è causa dell’atto d’essere di tutti gli enti in quanto ciascun ente riceve il proprio limitato atto d’essere in proporzione alla propria essenza. Tale dottrina viene detta da Tommaso analogia entis (analogia=proporzione) che coincide con la dottrina della partecipazione proporzionale di tutti gli enti all’atto puro d’essere.

I TRASCENDENTALI

Tra le definizioni della Metafisica, che sostanzialmente ricalcano quelle aristoteliche, in Tommaso troviamo quella secondo cui essa è la scienza dei predicati che competono a ogni ente in quanto ente (Uno, Vero, Buono).

Questi predicati si dicono trascendentali perché le divisioni per genere, differenza, specie ed hanno la stessa estensione della nozione di ente, cioè si dicono di tutti gli enti.

UNO: Ogni ente è uno, cioè è indiviso in se stesso e diviso da ogni altro ente. Un ente è tale se e perché è ciò che è e non può essere simultaneamente altro da ciò che è (identità e non contraddizione).

VERO: Ogni ente è vero, non nel senso della verità logica, ma ontologicamente. Principio di essere e principio di intellegibilità coincidono. Ogni ente è conoscibile intellettivamente e ogni conoscibile intellettivamente è “ente” (reale).

BUONO: Ogni ente tende a realizzare il proprio fine, che è il bene e la perfezione. Ogni ente tende a conservare il proprio essere.

CONSEGUENZE DELLA METAFISICA TOMISTICA

Aristotele, in effetti, non aveva considerato la distinzione tra l’essenza o natura delle cose e la loro esistenza, anzi aveva ritenuto il mondo, nel suo complesso, eterno, attribuendo a Dio non la sua esistenza (e quindi la sua creazione), ma solo l’origine del suo movimento. A rigore, quindi, il modo di essere delle cose e di Dio non era per lui qualitativamente diverso. In altri termini: il mondo aveva per Aristotele, in rapporto a Dio, una dipendenza parziale; per Tommaso, al contrario, ha una dipendenza totale.

Da ciò, peraltro, risultava modificata anche la nozione di materia, la quale acquistò in Tommaso una positività maggiore di quanto non avesse in Aristotele: egli infatti la concepì non come pura potenza, ma come effettiva realtà, creata da Dio.

Riguardo al mondo naturale, tuttavia, Tommaso non introdusse particolari innovazioni rispetto alle dottrine aristoteliche: diversamente da Alberto Magno, infatti, egli non mostrò alcun interesse speciale per le ricerche naturalistiche. Da Aristotele egli riprese le dottrine astronomiche, integrandole con quelle derivate da Dionigi Areopagita, e cioè riconducendo il movimento dei cieli a Dio attraverso la mediazione delle intelligenze angeliche (concezione che si ritroverà poi anche in Dante).

Il punto più rilevante sul quale Tommaso si discosta da Aristotele riguarda il fatto che il mondo è considerato creato e non è eterno. Quest’ultima dottrina non era però fondata da Tommaso su argomenti razionali, ma sui dati della fede.

1.3. La teologia

La dottrina dell’essere del mondo come partecipazione all’essere divino costituiva il fondamento della scienza teologica, di cui Tommaso sosteneva la possibilità, in polemica con gli averroisti da un lato, e con i francescani dall’altro.

Le cinque “vie” dimostravano, in effetti, non solo che Dio esiste, ma anche quale è la sua natura: esse indicavano infatti, rispettivamente, che Dio è atto puro, causa prima, essere necessario, perfettissimo, sommamente intelligente e potente. A questi attributi Tommaso riteneva possibile aggiungerne altri, su base puramente razionale: e cioè che Dio è uno, semplice, buono e quindi provvidente, ecc.

II fondamento su cui Tommaso riteneva si potessero stabilire tali attributi è quello testé accennato della partecipazione, per cui le cose ricevono il loro essere da Dio. Ciò appunto implica che si possono estendere al creatore gli attributi positivi che si riscontrano in esse; con questa differenza, tuttavia: che nelle cose create tali attributi sono finiti (limitati), mentre in Dio essi sono infiniti. Ciò non significa che essi sono in Lui solo accresciuti di grado, poiché il grado, all’infinito, muta la loro natura stessa. Così, non si dovrà dire che Dio è buono, ma che è la Bontà, non che è uno, ma che è l’Unità, non che è vero, ma che è la Verità (ovvero i tre principali attributi di ogni essere, detti perciò trascendentali), e così via. Inoltre tali attributi in Dio non si assommano (perché in tal caso la sua natura non sarebbe più semplice), ma si identificano.

II principio secondo cui in Dio sussistono i medesimi attributi delle cose, portati però all’infinito, è detto, come abbiamo visto, analogia entis, e costituì la base della dottrina teologica di Tommaso.

In base a tale principio egli sostenne la possibilità della teologia come scienza, in opposizione sia agli averroisti (per cui predicare l’essere delle cose, conformemente alla concezione aristotelica, aveva lo stesso significato che predicarlo di Dio) sia ai francescani (per i quali la trascendenza di Dio rispetto alle cose ne rendeva impossibile altra conoscenza che quella mistica). Come questi ultimi, in effetti, Tommaso ammetteva che la teologia fosse anche sapere pratico (cioè essenziale alla pratica della fede), ma precisando che poteva essere tale solo in quanto era anzitutto conoscenza.

È chiaro in ogni caso che il Dio raggiunto attraverso gli argomenti razionali non era l’essere personale di cui parla la religione, caratterizzato dalla trinità, dall’incarnazione ecc. Il pericolo maggiore della teologia di Tommaso, in ragione della sua ispirazione aristotelica, era anzi proprio quello di presentare un Dio che avesse prevalentemente la funzione di spiegare la realtà naturale.

Per evitare ciò Tommaso fa intervenire la fede, la quale, completando la ragione con la rivelazione, riesce a fornirle tutti gli attributi caratteristici del Dio cristiano. Non propone, tuttavia, tale completamento come qualcosa di atitrario, ma come qualcosa che la ragione, pur non potendo dimostrarlo (poiché riguarda misteri soprannaturali), può tuttavia chiarire e illustrare come non incompatibile con le conclusioni della filosofia. Su queste basi poggiò la teologia rivelata, coronamento della teologia naturale.

Nell’ambito della teologia rivelata, Tommaso chiarì ed illustrò i dogmi fondamentali del cristianesimo, ed in particolare la trinità e l’incarnazione, riprendendo e perfezionando le formulazioni dei Padri della Chiesa, in base essenzialmente alle due nozioni di sostanza e di persona. Dio è uno quanto a sostanza, trino quanto a persone; queste poi sono spiegate da Tommaso (sviluppando il principio già affermato da Agostino) in base alle loro reciproche relazioni, che in Dio sono, come tutti i suoi attributi, identiche con la sua sostanza: il Padre è tale per la relazione col Figlio, il Figlio per la relazione col Padre (generazione), lo Spirito per la relazione d’amore presente tra Padre e Figlio. Analogamente, Cristo è uno come persona, ma costituito da due nature; la sua volontà è una (quella divina), ma egli ha sofferto come uomo e come Dio.

In questa parte della sua speculazione Tommaso indubbiamente raggiunse il culmine del rigore e della chiarezza, portando la teologia cristiana ad una perfezione che lo ha condotto, dopo le battaglie e le incertezze dei contemporanei, ad essere alla fine riconosciuto come il Dottore della Chiesa per eccellenza.

1.4. La conoscenza umana

L’intero edificio della teologia era fondato sul modo di operare delle facoltà conoscitive, che Tommaso presentava in sostanziale conformità alla dottrina aristotelica, interpretata in una prospettiva diversa da quella degli averroisti, specialmente riguardo all’intelletto attivo.

Ogni conoscenza, secondo Tommaso, ha inizio dai sensi: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (perciò appunto le cinque “vie” sono tutte a posteriori). Da questo punto di vista, Tommaso rifiuta la distinzione agostiniana tra una ratio inferior, limitata alle cose sensibili, e una ratio superior, capace di cogliere le realtà soprasensibili, Dio, e le concezioni platoniche in genere. Scrive infatti nel De veritate (q. x, a. 6):

“Questa tesi (che le anime abbiano in sé nozione di tutte le cose) non pare ragionevole. Perché, se l’unione dell’anima col corpo è naturale, non può darsi che per essa venga totalmente impedita la scienza naturale; e d’altronde, se fosse vera, non saremmo del tutto ignoranti su ciò per cui non abbiamo il senso rispettivo…”.

Operando sulla conoscenza sensibile, d’altronde, la mente umana, a differenza di quella degli animali, può giungere ad una conoscenza superiore, che oltrepassa i dati dei sensi. Tale operazione si compie in virtù dell’intelletto, che Tommaso distingue, come tutti gli aristotelici, in intelletto agente (attivo) e in intelletto possibile (passivo). II primo ha la funzione di astrarre l’universale dai dati sensibili particolari, il secondo di affermare il frutto di tale astrazione.

“In altra maniera, il pensiero sta alle cose come la potenza all’atto, in quanto le forme determinate delle cose, che fuori dell’anima sono in atto, esistono soltanto in potenza nella nostra mente. Per questo si ammette nell’anima l’intelletto possibile, il cui compito è di ricevere le forme astratte dai sensibili, rese intelligibili in atto dal lume dell’intelletto agente” (ivi).

L’astrazione dell’universale dai dati sensibili è possibile, secondo Tommaso, in quanto gli oggetti percepiti dai sensi contengono effettivamente qualcosa di universale: ossia, secondo la dottrina di Aristotele, l’essenza o le qualità comuni a tutti gli oggetti dello stesso tipo. A questo proposito, Tommaso riprese la teoria di Avicenna, ammettendo che l’universale esiste anzitutto in Dio come modello della creazione (ante rem), poi entro le stesse cose particolari (in re), e infine nella mente umana, che da esse le astrae (post rem). Su questa base l’astrazione risultava dunque non un’alterazione del particolare, una sua falsificazione, bensì un’operazione volta ad individuare nel particolare l’impronta che gli derivava dall’universale ante rem esistente in Dio.

In altri termini: l’universale che l’uomo ricava mediante l’astrazione è veramente qualcosa di suo, è un concetto, ma un concetto non arbitrario, bensì fondato sul corrispondente universale in re e, in ultimo, su quello ante rem, che sta in Dio. Ciò garantisce la verità della conoscenza, verità che consiste, per Tommaso, nell’adeguazione dell’intelletto alla cosa (all’essere: adaequatio intellectus et rei). L’essere infatti era per Tommaso la base del conoscere e non viceversa. La stessa conoscenza matematica trova un fondamento nell’essere: essa è sì, frutto di un’astrazione, ma un frutto cui corrisponde qualcosa di reale; ai concetti di circolo o triangolo corrisponde cioè un’effettiva forma circolare o triangolare dei corpi.

Ma la dottrina dell’adaequatio significava soprattutto che il conoscere non è una produzione (invenzione) della mente, bensì un suo adeguamento a ciò che è, un prenderne atto.

Tommaso presenta la capacità astrattiva dell’intelletto come lume naturale della ragione, contrapponendola esplicitamente alla teoria agostiniana dell’illuminazione la quale implicava l’intervento di Dio per ogni verità conosciuta dall’uomo. Tale intervento, secondo Tommaso, può essere necessario per la conoscenza delle verità soprannaturali; non lo è invece per le verità naturali, per la conoscenza delle quali l’uomo è stato dotato da Dio stesso dello strumento naturale della ragione. Tra l’altro, egli rilevava che gli agostiniani, arrivando subito alle cause prime attraverso illuminazione, si esoneravano dalla fatica della ricerca delle cause seconde.

Tommaso ribadì la sua opposizione alla teoria agostiniana in particolare a proposito dell’educazione nella Quaestio disputata de veritate che porta il titolo De magistro e in un articolo della Summa theologiae. II problema posto è: come può un uomo educarne un altro? La soluzione è indicata nella dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, non nell’intervento di Dio come mediatore tra educatore ed educando.

II processo attraverso il quale un uomo ne ammaestra un altro consiste nel mutare in atto il sapere che in colui che impara si trova in potenza. Ora, secondo il principio aristotelico, ciò che è in potenza passa all’atto in virtù di qualcosa che è già in atto. Questa capacità di tradurre in atto gli universali potenzialmente presenti nell’intelletto passivo e nelle cose sensibili è una prerogativa dell’intelletto attivo. Quale sarà dunque la funzione del maestro umano?

Indubbiamente, l’azione dell’intelletto attivo è diversa da quella del maestro umano. Quest’ultimo non può produrre né l’intelligibilità nelle cose né la capacità intellettiva nel discente; l’una e l’altra derivano da Dio e trovano la loro unità nell’atto del conoscere. II maestro umano nemmeno può trasfondere il proprio sapere nella mente dell’alunno. La sua funzione è guidare il discente nel delicato lavoro attraverso il quale, applicando ad esperienze particolari quei principi universali che costituiscono il lume della ragione, giunge ad acquisire scientiam eorum quae nesciebat: ex notis ad ignota procedens. Mentre per Agostino il maestro si limitava ad ammonire, per Tommaso assume la dignità di vera e propria causa nel processo conoscitivo del discepolo.

In conclusione, Tommaso considera il processo del conoscere come un processo squisitamente umano, inscindibile dalla realtà individuale dell’uomo: realtà di corpo e di anima, di esperienza e di pensiero. Ne risulta che non era possibile, per la concezione tomistica, separare l’intelletto dall’uomo. In tal modo egli si opponeva, oltre e più che all’agostinismo, alla dottrina averroistica, che, come abbiamo visto, riteneva l’intelletto attivo e quello passivo “separati” e unici per tutti gli uomini.

Tale separazione era il punto dell’aristotelismo averroista più contrastante con il dogma cristiano; da essa derivava infatti la teoria che solo l’intelletto universale è immortale e non l’individuo umano. Tommaso seguì Aristotele nel sostenere che l’intelletto attivo è immortale in quanto il suo oggetto (l’universale) è distinto dalla corporeità in generale, e perciò opera indipendentemente dai sensi (può quindi sussistere separato dal corpo); ma attribuisce tale sussistenza ad ogni intelletto umano, in quanto protagonista della conoscenza.

Ogni pretesa di separare non solo l’intelletto attivo, ma anche quello passivo, dall’uomo costituiva per Tommaso una vera e propria assurdità; avrebbe significato cioè che l’intelligenza e la conoscenza, sperimentate dall’uomo direttamente e concretamente in sé, invece sarebbero prodotte fuori di lui, al punto che egli non potrebbe esserne non solo protagonista, ma nemmeno spettatore. Per Tommaso, al contrario, né l’intelletto attivo né, a maggior ragione, quello passivo posseggono un’esistenza loro propria, al di fuori dell’individuo reale. Entro la complessa operazione conoscitiva, l’intelletto agente rappresenta, secondo Tommaso, il momento attivo dell’astrarre, cioè dell’elevarsi al di sopra dei dati particolari della percezione. Si tratta però di un’attività inserita nella vita concreta dell’individuo, non dell’intervento di una potenza superiore alla sua natura.

L’importanza conferita da Tommaso all’individualità delle operazioni umane risulta anche dalla soluzione data al problema dell’individuazione, cioè della distinzione tra gli individui appartenenti alla medesima specie. Abbiamo già segnalato la positività che egli attribuì alla materia in quanto realtà creata da Dio; ebbene, proprio nella materia egli individua la condizione che concretamente differenzia un individuo da un altro.

Già Aristotele aveva fatto dipendere l’individualità delle cose della stessa specie dalla materia; Tommaso, tuttavia, precisa ulteriormente che quest’ultima non può essere la materia comune, bensì la materia quantitate signata, cioè “la materia considerata sotto determinate dimensioni”, e quindi nella particolare complessione (fisica) che caratterizza ogni essere umano. Così, l’individuo Socrate si distingue dall’individuo Platone, pur appartenendo alla medesima specie, poiché la materia che si è unita alla forma (cioè all’umanità) in Socrate ha dato luogo a un corpo spazialmente e temporalmente distinto da quello di Platone (in questo senso anche due gemelli sono diversi per la materia, ad esempio per il fatto che i loro corpi occupano spazi diversi).

Anche per Tommaso come per Aristotele l’anima è la forma del corpo, una forma unica che nell’uomo svolge le diverse funzioni (vegetativa, sensitiva, razionale), distinte negli altri esseri viventi (non è cioè una sintesi di diverse forme, come sostenevano i francescani). Ma appunto per questo l’essere concreto dell’uomo non è—per Tommaso—né il solo corpo né la sola anima, bensì l’unione sostanziale tra i due. La stessa interpretazione del dogma della resurrezione dei corpi, in Tommaso conferma questa concezione: “Dopo la separazione dal corpo—egli afferma—l’anima si troverà in uno stato quasi innaturale, finché non si riunirà nuovamente al corpo con la resurrezione di esso”.

Il contributo di Tommaso alla comprensione dell’essere umano non si esauriva, quindi, nei limiti storicamente determinati del suo programma di conciliazione tra cristianesimo e filosofia aristotelica. Era qualcosa di più, ovvero un apporto essenziale alla grande battaglia che in ogni tempo —nei termini apparentemente più diversi— il vero filosofo si trova a combattere contro l’astrattezza, a difesa della viva e concreta esperienza umana.

CENNI BIBLIOGRAFICI

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