IL PESSIMISMO SCHOPENAUERIANO
IL PESSIMISMO SCHOPENAUERIANO
Il pessimismo schopenaueriano produce l’idea di una vita che oscilla in una sorta di moto pendolare fra il dolore che nasce dal bisogno e la noia che è il sentimento rivelatore dell’insignificanza e vacuità dell’esistenza. D’altra parte, essere autenticamente uomo significa per Svevo esercitare ciò che è specificamente umano, cioè la coscienza, sottraendosi così al sistema deterministico della vita vegetale e animale e creando delle rappresentazioni del reale; ciò non vuol dire coltivare finalità trascendenti, conseguire la felicità o uno statuto privilegiato dell’esistenza umana rispetto alla vita nel mondo naturale, ma solo per guadagnare in autenticità. La dicotomia basilare in Svevo è tra salute e malattia.
L’individuo sano è per Svevo colui che, non solo sa soddisfare i propri bisogni elementari come creatura del mondo naturale, facendo ciò che l’impulso vitale gli detta: mantenersi in vita come individuo ed assicurare la permanenza della specie attraverso la riproduzione. L’individuo sano dei romanzi sveviani è il prototipo dell’uomo perfettamente integrato nella società in cui vive, omologato ai suoi principi e valori (quelli borghesi). Esso tuttavia sembra forte e ben attrezzato per la darwiniana lotta per la vita, ma in realtà è solo più “specializzato” e l’evoluzionismo insegna che quanto più l’essere vivente si specializza, tanto più si espone a rischio nel caso di cambiamenti, perché incapace, o maggiormente in difficoltà, ad adeguarsi alle mutate delle circostanze e dell’ambiente. Un sano, dunque, che appare “forte” solo in determinate favorevoli condizioni, ma che nasconde una “fragilità” che può manifestarsi improvvisamente e disastrosamente. Dall’altra parte sta il “malato” (di malattia nervosa però, non fisica), la cui malattia consiste propriamente nell’inettitudine a vivere, ossia ad assecondare positivamente il flusso vitale.
Il malato è infatti colui che si ritrae dalla vita, rinuncia all’invito a godere dei suoi doni, vive in un perenne stato di malcontento e insoddisfazione. Paragonandosi al “sano” si sente scontento e debole, ma di fatto è solamente “non specializzato” e perciò sempre in difficoltà, ma d’altra parte sempre con il cervello in funzione per inventare nuovi modi per sopravvivere. Tali modi, una volta sperimentati, diventano “forme”, schemi di comportamento, modi di fare e di essere che, cumulandosi nel tempo e costituendosi in sistema, diventano le sovrastrutture culturali che danno all’uomo un’apparente padronanza di sé e del suo destino, consegnandolo in realtà all’alienazione dai propri desideri più autentici quelli che in realtà più lo connotano come individuo.
Questo genere di sicurezza è quello che può trasformare un “malato” in un “sano” nella prospettiva sveviana. Una prospettiva non necessariamente allettante allora. Riassumendo, vediamo che, se la “malattia” (cioè l’inettitudine, l’irresolutezza, l’incapacità di godere) presenta caratteri svantaggiosi indubitabili, è pur vero che la “salute” che Svevo le contrappone, anche se magari agognata dal protagonista malato di turno, è la salute di chi si ritiene a posto per il fatto di aver ottemperato agli obblighi e alle consuetudini sociali, facendo propri i valori (etica del denaro e del successo) dominanti nella società e rinunciando a pensare in proprio. I personaggi dei giovani di successo che si contrappongo ai protagonisti sono presentati sempre molto esteriormente, sono piuttosto privi di spessore umano: sono descritti così come li vede l’inetto protagonista. Si finisce quindi con il parteggiare per costui, le cui miserie umane sono peraltro assai grandi, ma che mantiene un privilegio nei confronti del “sano”: la coscienza. Per Svevo, ma non solo per lui, non si offre una terza via tra queste due posizioni. Per quanto concerne i rapporti con la psicoanalisi di Freud è bene precisare che, se Svevo non avesse conosciuto il pensiero di Freud, non avrebbe presumibilmente mai scritto il romanzo La coscienza di Zeno o non sarebbe comunque come lo conosciamo.
Va riconosciuto peraltro che c’erano già stati L’assassinio di via Belpoggio, Una vita e Senilità prima del suo capolavoro, e anch’essi presentano un tratteggio psicologico dei personaggi approfondito e sono stati scritti prima che si sentisse parlare di psicoanalisi ( L’interpretazione dei sogni, opera che rappresenta il vero e proprio esordio pubblico della psicoanalisi di Freud porta la data del 1900, mentre l’ultima delle opere sveviane citate è del 1898): possiamo dire allora che l’insegnamento freudiano intervenne a chiarire e precisare una tendenza già esistente in Svevo. Resta da spiegare il suo atteggiamento ambivalente nei confronti della psicoanalisi stessa: egli, per un verso ammetteva candidamente di aver preso di peso da essa due o tre idee per la sua Coscienza, ma d’altra parte rifiuta recisamente la qualifica di scrittore freudiano e nello stesso romanzo ironizza non poco a proposito della psicoanalisi e della sua validità terapeutica. Del resto Freud è uno scienziato e le sue ricerche sull’inconscio sono finalizzate alla terapia delle nevrosi; Svevo invece è un artista e, se pure parte della problematica coincide, il suo scopo ultimo è la conoscenza finalizzata alla produzione letteraria. A Svevo interessava il versante filosofico del pensiero freudiano, non quello terapeutico, tanto più che, come abbiamo visto, nella sua ottica il “malato” è di fatto un individuo autentico, quanto meno più del “sano”, che esercita la coscienza.
In questo modo Svevo non poteva che allontanarsi da Freud, perché di fatto, sostenendo che l’inetto è uomo autentico, afferma che la nevrosi è la condizione umana più vera e che fuori di questa non vi è che ottusità e comportamenti falsamente sani perché cristallizzati in cliché. Tutto ciò corrisponde al vero, ma solo in una prospettiva in cui a confrontarsi siano soltanto le autentiche “debolezze” del “malato” con le false “sicurezze” del “sano”. E comprensibile il rigetto della psicoanalisi, se il suo scopo viene concepito come quello di trasformare quel “malato” in questo “sano”. Va aggiunto poi che , molto probabilmente, Svevo non gradiva molto l’interpretazione di Freud dell’arte (e della scienza del resto) come di forme di sublimazione di pulsioni più basse, connessa al processo di civilizzazione come evoluzione intellettuale ottenuta attraverso progressiva inibizione e dominio sulle pulsioni da parte dell’essere umano. A Svevo non è mai interessato rientrare in quelle esperienze culturali italiane volte a superare la crisi post-risorgimentale nella valorizzazione della realtà e dei problemi regionali (ad es. il Verismo). Né gli premeva di ricercare nuovi miti e modelli di comportamento per una borghesia velleitaria o delusa (ad es. Decadentismo, Futurismo, ecc.). Il suo orientamento va piuttosto in direzione di una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e dell’aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di aderire alla vita. La sua poetica, in un certo senso, rientra nel vasto movimento decadentistico. Della vita dell’uomo gli interessano non i rapporti sociali, ma gli impulsi più segreti e oscuri, che paralizzano, ovvero gli aspetti dissociati e contraddittori del pensiero e dell’agire. Nei suoi romanzi appare evidente che la solitudine e l’alienazione dei protagonisti sono manifestazioni di una “malattia mortale” che corrode non solo i singoli individui, ma l’intera società borghese, per cui non c’è alcuna speranza che la situazione possa migliorare. C’è insomma un abisso incolmabile fra la consapevolezza con cui si avverte questa tragedia e la possibilità di un’azione costruttiva: anzi, quanto più è forte la consapevolezza, tanto più è forte l’incapacità di reagire. Svevo e Pirandello, in questo senso, si somigliano molto. Svevo si inserisce perfettamente in questa scoperta dell’inconscio (fatta da Freud), che è la strada anche di Proust e di Joyce, ed è questa la vera novità del suo romanzo.
Svevo s’interessò molto di psicanalisi freudiana, che era stata divulgata negli anni successivi alla I guerra mondiale, ma il suo interesse è caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti di questa nuova disciplina. La psicanalisi viene vista come una terapia cui il protagonista dell’ultimo romanzo si sottopone scetticamente, per giungere, quasi contro questa stessa terapia, a ricostruire da solo le motivazioni profonde del suo comportamento.