IL NEOREALISMO

IL NEOREALISMO


Con la fine della seconda guerra mondiale, la caduta del fascismo e la nascita della Repubblica italiana, quindi negli anni tra il 1945 il 1955, si sviluppa una nuova corrente artistica detta neorealismo. Esso fu innanzi tutto un nuovo modo di guardare il mondo, con una nuova morale e una nuova ideologia che erano proprie della rivoluzione antifascista. Vi era l’esigenza della scoperta dell’Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria e insieme una fiducia schietta e rivoluzionaria nelle possibilità di rinnovamento e nel progresso dell’intera umanità. Il neorealismo tentò di rappresentare in modo veritiero la realtà storico sociale, ispirandosi a una volontà di denuncia delle situazioni degradate. A volte però le sue opere sono delle vere e proprie celebrazioni epiche, soprattutto quando raccontano i fatti della resistenza, a cui la maggior parte degli scrittori aveva partecipato (ad esempio Fenoglio). Vi è infatti tutto un filone della letteratura neorealistica che prende il nome appunto di letteratura della resistenza che rievoca appunto gli episodi della resistenza partigiana contro i nazifascisti (come “i 23 giorni della città di alba”).

Vi è infine la tendenza a utilizzare un linguaggio semplice, non letterario, spesso ispirato alle parlate reali e in particolare al dialetto.

Ma i risultati migliori del neorealismo si trovano nel cinema di registi come De Sica, Rossellini e altri.

L’esigenza di molti artisti, per lo più schierati con i partiti della sinistra, di dar vita a una nuova “cultura dell’impegno” trova uno sbocco operativo nel neorealismo, le cui opere più significative si collocano proprio tra il 1943 e il 1950: da film come Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Rossellini o Sciuscià (1946) di De Sica a romanzi come Cronache di poveri amanti (1947) di Pratolini, Uomini e no (1945) di Vittorini, Le terre del Sacramento (1950) di Jovine.

Sul clima intellettuale di quegli anni scrive, in una testimonianza retrospettiva (del 1964), Italo Calvino: «L’esplosione letteraria di quegli anni fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi della sua eredità. […] L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle “mense del popolo”, ogni donna nelle code dei negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie».

Proprio in questo clima profondamente mutato, aperto a nuove esperienze culturali, nasce il neorealismo, un’esperienza artistica nata sulla scia di una forte carica di entusiasmo (e i cui frutti migliori sono forse nella produzione cinematografica, di registi come Rossellini o De Sica). Sul neorealismo scrive parole illuminanti Salinari, uno dei critici che guardarono con più simpatia al movimento: «Il neo-realismo in Italia è sorto […] come espressione di una profonda frattura storica, quella crisi che fra il ’40 e il ’45 con la guerra e la lotta antifascista investì, sconvolse fino alle radici e cambiò il volto all’intera società italiana. Il neorealismo si nutrì, quindi, innanzi tutto di un nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e di una ideologia nuove che erano proprie della rivoluzione antifascista. In esse vi era la consapevolezza del fallimento della vecchia classe dirigente e del posto che, per la prima volta nella nostra storia, si erano conquistate sulla scena della società civile le masse popolari. Vi era l’esigenza della scoperta dell’Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria, nelle sue assurde contraddizioni e insieme una fiducia schietta e rivoluzionaria nelle nostre possibilità di rinnovamento e nel progresso dell’intera umanità. [… Il neorealismo] si presentò così come arte impegnata contro l’arte che tendeva a eludere i problemi reali del nostro Paese; contrappose polemicamente nuovi contenuti (partigiani, operai, scioperi, bombardamenti, fucilazioni, occupazioni di terre, baraccati, sciuscià, “segnorine”) all’arte della pura forma e della morbida memoria […]; cercò un mutamento radicale delle forme espressive che sottolineasse la rottura con l’arte precedente e potesse esprimere più adeguatamente i nuovi sentimenti; si pose il problema di una tradizione d’arte autenticamente realistica e rivoluzionaria a cui riferirsi, scavalcando le esperienze decadenti dell’arte moderna».

I nuovi scrittori formulano giudizi assai severi nei confronti del decadentismo (cfr. 5.1.3) e de11’ermetismo (cfr. I generi: la lirica del primo Novecento). Del pr-mo ripudiano la tendenza a evadere in altre dimensioni (astratte, fantastiche, metafisiche ecc.) e i più intransigenti considerano la letteratura decadente addirittura una forma d’arte degenerata, espressione della decadenza morale e politica della borghesia. All’ermetismo i neorealisti rinfacciano l’astensione dal confronto politico-culturale con il fascismo, che ora viene considerata come una colpa (tanto più che la gran parte degli ermetici si era astenuta anche dal partecipare alla Resistenza, mantenendo anche in questo caso un atteggiamento di distacco e isolamento).

Per contro i nuovi scrittori scoprono i legami con il realismo ottocentesco (da qui il termine ‘neorealismo’), con la narrativa realistica degli anni Venti e Trenta (soprattutto Pavese, considerato – forse a torto – dai neorealisti un precursore del movimento) e più ancora con la letteratura americana, di cui Vittorini, Pavese e altri avevano diffuso la conoscenza.

Il programma del “realismo” si tradusse, in molte opere neorealistiche, nella rappresentazione documentaria della realtà storico-sociale, ispirata da intenti di denuncia di situazioni degradate (ma senza il proposito di oggettività scientifica che era stato proprio del naturalismo e del verismo). Spesso però, e in contraddizione con le esigenze di realismo, la rappresentazione indulge al lirismo (magari favorito dal recupero memoriale) o alla celebrazione epica. Quest’ultima riguarda soprattutto la Resistenza, a cui la maggior parte degli scrittori ha partecipato e del resto il moto resistenziale è uno dei soggetti più frequentati dai narratori. Le forme espressive e i generi privilegiati sono il documento, la cronaca, la testimonianza personale, la memorialistica. Si fa anche strada, sulla scorta dell’esigenza di una letteratura realisticamente documentaria e di una letteratura nazional-popolare, la tendenza a utilizzare un linguaggio semplice, disadorno, antiletterario (rifiuto ulteriore della retorica di regime, e di tutti i modelli letterariamente sofisticati d’anteguerra, dalla ridondante e raffinata prosa dannunziana alle rare-fazioni simboliste ed ermetiche), spesso ispirato alle parlate reali e in particolare al dialetto, che per la prima volta fa una comparsa non episodica nella prosa narrativa.

I risultati artistici del neorealismo furono sostanzialmente modesti e si devono considerare almeno in parte il frutto di un eccessivo ideologismo, cioè di una troppo stretta dipendenza della letteratura dalla politica (persino in uno spirito acuto e critico, come Vittorini, difensore a oltranza dell’autonomia della letteratura dalla politica, la pregiudiziale ideologica nel considerare i fatti culturali e letterari è molto forte).

Di conseguenza anche la poetica e la pratica del neorealismo risentono di un condizionamento ideologico e politico, che nella produzione deteriore del movimento finisce con lo sfociare nel populismo (ovvero in una rappresentazione idealizzata e spesso acritica del mondo popolare, visto come mondo depositario di tutti i valori positivi, il che contravveniva proprio a quella esigenza di analisi della realtà che muoveva il movimento).