IL FASCISMO ITALIANO

IL FASCISMO ITALIANO

 

Il fascismo è un movimento fondato in Italia da Benito Mussolini nel 1919 con la conseguente conquista del potere nel 1922. Benché non abbia costituito un fenomeno esclusivamente italiano, il fascismo ha avuto origine nel nostro Paese come reazione e conseguenza della grave crisi politica ed economica seguita alla Prima Guerra Mondiale.

La classe dirigente, erede dello Stato liberale post-risorgimentale, aveva voluto spingere l’Italia nel conflitto, senza prevedere le gravissime perdite umane e materiali che ne sarebbero derivate. Così, dopo la fine vittoriosa, si era trovata improvvisamente costretta a dover fronteggiare una situazione difficilissima, ricca di tensioni e contrasti interni, dove gli interessi dei gruppi economico-sociali privilegiati si scontravano con le aspirazioni della maggioranza della popolazione, fino allora tenuta ai margini della vita dello Stato. Il ritorno alla “normalità” non aveva offerto a milioni di reduci la meritata ricompensa, dopo i lunghi anni di pericoli e sofferenze in trincea. Anzi, insieme al dissesto delle finanze pubbliche, che i responsabili al governo non riuscivano a sanare, l’aumento dei prezzi e il diffondersi della disoccupazione alimentavano le agitazioni popolari. In questo sconvolgimento sociale, dove l’inefficienza economica stimolò il rafforzamento dei partiti di massa, con una forte crescita dei socialisti, soprattutto fra gli operai, e un’affermazione del Partito Popolare fra i cattolici dell’ambiente contadino, nacque e si andò affermando il movimento fascista.

Già nel 1915 Mussolini, leader del fascismo, aveva fondato i Fasci d’azione rivoluzionaria, con scopi puramente interventisti nella guerra europea, risposta immediata e risoluta al neutralismo socialista, che lo aveva costretto ad abbandonare il partito nel quale aveva fino ad allora militato.

Sulla stessa linea politica, Mussolini fondò a Milano, il 23 marzo 1919, i Fasci italiani di combattimento. Fu questo il primo passo di un movimento che si trasformò in Partito Nazionale Fascista e che conquistò il potere. Alla riunione di piazza San Sepolcro a Milano parteciparono un centinaio di persone (questi primi fascisti furono chiamati sansepolcristi). Il movimento aveva un programma vago ed era alla ricerca di un’ideologia. Tentava di fondere i motivi nazionalistici, cari soprattutto ai combattenti, con la polemica contro l’inefficienza del parlamentarismo, che trovava facili consensi anche negli ambienti piccolo-borghesi. “Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente”, dichiarò Mussolini, il quale, oltre a interpretare gli ideali patriottici della piccola borghesia, capì che la debolezza della classe dirigente, incapace di stabilizzare la situazione economica e sociale, si poteva vincere solo conquistando i favori dei gruppi dominanti del padronato industriale e dei proprietari terrieri, sempre più intolleranti verso le manifestazioni popolari e pronti ad appoggiare chiunque fosse disposto a usare la “mano forte”. Così, nel giro di pochi mesi, la propaganda fascista conquistò terreno e, senza far segreto di una volontà autoritaria, dichiaratamente antidemocratica, cercò di sfruttare il malcontento e di incanalare la spinta reazionaria delle forze borghesi e conservatrici, già deluse per la “vittoria mutilata” a Versailles e atterrite dalla ascesa delle classi popolari, che sembravano voler scuotere e schiacciare il tradizionale assetto gerarchico della società italiana. Inoltre, insieme al crescente squilibrio fra Nord e Sud, esasperato dai contrasti interni fra ceti padronali e proletariato operaio e contadino, il passaggio dalla vecchia economia agricolo-artigianale alla grande industria capitalistica (specie nel “triangolo” Milano-Torino-Genova) tendeva ad accrescere il peso dei più forti gruppi imprenditoriali, ma nello stesso tempo portava alla ribalta il proletariato operaio, sminuendo il ruolo che i ceti medi avevano continuato a svolgere dal periodo post-risorgimentale fino agli anni giolittiani del primo Novecento.

Il fascismo rifiutava ogni forma di lotta fra le classi e faceva appello al principio della superiore “unità nazionale“, intesa come un organismo vivente cui dovevano essere subordinati tutti gli interessi particolaristici. Parve quindi, inizialmente, fornire un’efficace alternativa tanto alla debolezza di una classe politica dilaniata da insanabili contrasti interni, che mettevano capo a continue crisi di governo, quanto alle velleità rivoluzionarie dei socialisti, che si scontrava con le opposte cautele delle centrali sindacali, ancora fiduciose di spingere la borghesia sulla via delle riforme. Ma proprio l’esaltazione di un ipotetico primato nazionale, da raggiungere non più nel segno della politica liberale, che aveva caratterizzato tutto il periodo del Risorgimento e la storia postunitaria, ma attraverso un esplicito rifiuto degli ideali democratici e una vigorosa difesa della “diseguaglianza irrimediabile e benefica degli uomini”, accentuò il ricorso ai metodi della violenza fisica, con l’intervento delle squadre d’azione Queste si diffusero alla prima sconfitta politica accusata dal movimento nelle elezioni del 16 novembre 1919: il fascismo riuscì infatti a presentarsi solo a Milano.

L’alta industria aveva trovato nel fascismo la forza da opporre alle rivendicazioni operaie, agli scioperi, alle durezze della lotta sociale che raggiunse il vertice con l’occupazione delle fabbriche nel 1920. Nella Valle Padana e nell’Italia meridionale, dove dominava la grande proprietà fondiaria e il bracciantato soffriva delle peggiori condizioni di sottoccupazione e dove i contadini alla testa di organismi sindacali avevano tentato l’occupazione delle terre, il fascismo divenne lo strumento della reazione e sviluppò massicci attacchi contro gli avversari, con spedizioni punitive, incendi, devastazioni, assassini, soprattutto nei confronti dei socialisti e dei cattolici-popolari. Giolitti, reputando che il fascismo sarebbe stato un fenomeno transitorio, consentì alla sua strumentalizzazione per spegnere la carica rivoluzionaria dei socialisti, nel presupposto che la lotta contro rossi e bianchi avrebbe smorzato la carica dei neri per il conseguito ideale Partito Nazionale Fascista.

Il movimento fascista, divenuto partito (novembre 1921), cercò di darsi una dottrina e, poiché il grande momento per i socialisti era passato, Mussolini, prima di puntare decisamente al potere, tentò la politica delle alleanze. Entrò, per le elezioni del 1921, nei blocchi nazionali giolittiani, ottenne un primo successo mandando alla camera 35 deputati e cercò l’alleanza con i socialisti e i popolari. Era l’equivoco di una grande coalizione che portò al patto di pacificazione con i socialisti ma che non convinse i fascisti intransigenti e rappresentò una parentesi brevissima, perché pochi mesi dopo riprendevano scontri, lotte, violenze e il fascismo nuovamente autonomo, si appoggiava ai liberali, convinti che il movimento di Mussolini avrebbe restituito a molti il senso dello Stato. E infatti Mussolini espose nella sua Dottrina del fascismo una concezione dello Stato che sembrava riallacciarsi al pensiero risorgimentale, nutrito di concetti idealistici hegeliani (accolti del resto dallo stesso Croce che non intuì subito la minaccia del movimento, sperando di vedervi soltanto forze nuove capaci di un loro apporto risoluto); ma in realtà il fascismo pretese di costruire uno Stato che accogliesse in sé ogni individualità per annullarla nella concezione di una propria priorità assoluta volta solo ad affermare il primato del dominio e della forza. Nello Stato vide l’organo supremo per garantire la libertà individuale. L’assolutismo dello Stato diventò facilmente assolutismo di guida, unicità di potere, volontà di uno. Di conseguenza, il drastico annullamento della volontà individuale significava esaltazione mistica del sacrificio, subordinazione assoluta alla volontà del capo per il bene della Patria. Il fallimento dello “sciopero legalitario” dell’agosto 1922, la dimostrazione fascista di saper intervenire contro ogni tentativo di sovversione, aprirono senz’altro al fascismo la via del potere. La marcia su Roma non fu tuttavia la conquista del potere, ma il cammino verso il potere e, mentre socialisti e comunisti si schierarono subito all’opposizione, molti rappresentanti della vecchia classe politica liberale, non diversamente da una parte dei popolari, si illusero di poter controllare l’ascesa del fascismo al potere, incanalandolo nell’ambito della vita democratico-parlamentare. Il primo governo di Mussolini, formato da fascisti, da liberali, da popolari e da indipendenti, poté così ottenere una larga maggioranza alla Camera; ma la speranza di una rapida normalizzazione non si realizzò, mentre lo svuotamento delle istituzioni parlamentari e l’avvio verso un sistema dittatoriale cominciarono subito con l’inquadramento delle camicie nere nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, vero esercito di partito messo direttamente “agli ordini del capo del governo” e con la creazione del Gran Consiglio del fascismo destinato nel 1928 a diventare l’organo supremo che avrebbe coordinato e integrato tutte le attività del regime.

Inoltre, la riforma elettorale del 1924, con la legge Acerbo che riduceva la rappresentanza delle forze di opposizione, non solo non mise a tacere le intimidazioni fasciste ma accentuò le violenze e i brogli elettorali, che il deputato socialista Matteotti denunciò alla Camera, anche se l’atto coraggioso gli costò la vita a opera di alcuni sicari fascisti. Nonostante lo sdegno dell’opinione pubblica e la reazione degli altri partiti che abbandonarono il Parlamento su iniziativa di Amendola, Mussolini, col discorso del 3 gennaio 1925, diede una svolta decisiva alregime dittatoriale. Tra il 1925 e il 1928 furono varate le leggi (cosiddette “fascistissime“) che consacrarono la nuova struttura e lo strapotere dello Stato. Croce e con lui Giolitti, Salandra, Orlando e altri dovettero arrendersi all’evidenza. Ogni speranza legalitaria o di riporto alla legalità del fascismo cadeva. Essa moriva con la soppressione della libertà di stampa, le persecuzioni contro gli antifascisti, col ripristino della pena di morte, l’istituzione di un tribunale speciale per reati politici, l’istituzione dell’O.V.R.A. polizia politica segreta, e con l’attribuzione al potere esecutivo di emanare norme di legge. I normali meccanismi dello Stato di diritto e i fondamenti della libertà politica e della sovranità popolare vennero sovvertiti, mentre a cominciare dal 1926 nelle amministrazioni comunali alla procedura elettiva del sindaco e del consiglio venne sostituita la nomina governativa del podestà e della consulta, così da sconvolgere l’intero ordinamento centrale e periferico nel processo di fascistizzazione dello Stato. il Parlamento risultò svuotato di ogni prerogativa e le elezioni (1929) vennero ridotte a semplici plebisciti di approvazione di una “lista unica” di deputati designati dal Gran Consiglio. Il capo del governo, che era contemporaneamente duce del fascismo, prese a occupare il vertice della piramide politica, che simboleggiava l’ordinamento gerarchico del regime, e venne sottratto a qualunque controllo o sanzione, con l’obbligo di rispondere solo al sovrano. Con le elezioni plebiscitarie del 1929 Mussolini poté contare su una Camera tutta composta da fascisti, e il carattere totalitario del fascismo finì rapidamente per coinvolgere ogni settore della vita italiana. La politica economica e sociale cercò di avviare una politica corporativista, per differenziarsi dal sistema liberale, che assicurava ampi margini all’iniziativa privata, e nello stesso tempo per respingere il modello collettivista, di tipo sovietico.

Mussolini dovette subire, pur di mantenere il comando, forti pressioni, non solo dai vecchi centri di potere ma anche dai maggiori centri economici. La pianificazione economica varata dal conte Volpi, industriale e finanziere, chiamato al Ministero delle Finanze fu causa di gravi difficoltà. I salari italiani, nel 1930, erano al penultimo posto in Europa, seguiti solo da quelli spagnoli. I salari dei contadini venivano sempre più compressi per consentire ai produttori di sopportare la concorrenza straniera favorita dall’alto corso della lira. Il fascismo aveva autorizzato i proprietari agrari, come gli industriali, a rifarsi sui lavoratori e pubblicamente elogiava il sacrificio accettato.

L’organizzazione paramilitare della scuola, l’istituto dell’Opera Nazionale Balilla (O.N.B.) valse a monopolizzare, fin dalle prime classi elementari, il processo di formazione educativa dei giovani secondo il principio del “credere, obbedire, combattere”, che tendeva a fare di ogni cittadino essenzialmente un “soldato”, pronto a rispondere agli ordini e fedele esecutore delle direttive imposte dall’alto. Imbevuto di retorica, il fascismo creò una divisa per ogni italiano, dalla più tenera età fino alla maturità. Marciarono, sfilarono in ogni paese d’Italia, al grido di Viva il Duce!, figli della lupa, piccole italiane, balilla, avanguardisti, giovani fascisti e fasciste, fascisti, donne fasciste e massaie rurali, salutando romanamente, battendo il passo romano. Nella scuola fascistizzata, l’insegnamento travisò la storia. Nacque la scuola di mistica fascista. L’obbedienza al fascismo divenne un obbligo per gli stessi professori universitari, ai quali venne imposto il giuramento come condizione per poter mantenere la cattedra.

Dopo aver costretto la maggioranza degli oppositori a patire carcere e violenze o a trovare asilo politico all’estero, per meglio rafforzare la propria posizione interna il regime fascista aveva trovato un accordo con la Chiesa cattolica, chiudendo il lungo capitolo della cosiddetta questione romana e realizzando attraverso i Patti Lateranensi del 1929 la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede, così da garantire a Mussolini l’appoggio delle più alte gerarchie ecclesiastiche. L’accordo non fu giudicato favorevolmente dai fascisti. Molti furono i malumori per il pesante riscatto imposto dalla Chiesa, ma quest’ultima, che pur vedeva il cattolicesimo riconosciuto come religione di Stato, accettava il divieto per i cattolici di organizzarsi in partiti politici. Ciò non impedì all’Azione Cattolica di svolgere la propria azione presso i giovani al di fuori dello spirito fascista, tant’è vero che nel 1931 il regime fascista accusò esplicitamente l’Azione Cattolica di sottrarre uomini e giovani alla disciplina fascista. Sembrò la rottura, ma si giunse al compromesso e il fascismo mantenne l’appoggio della Chiesa.

L’ascesa del fascismo culminò nel 1936 con la conquista dell’Etiopia, la proclamazione dell’impero e la vittoria sulle sanzioni economiche proclamate da cinquantadue Stati della Società delle Nazioni che aveva condannato l’aggressione italiana in Africa. Furono sanzioni “blande”, cui non aderì la Germania, quasi le vecchie democrazie credessero al fascismo e al nazismo come ai necessari baluardi contro il comunismo e volessero compiacerli solo per controllarli. Il fascismo, tuttavia, non mirava solo al colonialismo, ma a fascistizzare l’Europa. L’asse Roma-Berlino e il contemporaneo intervento in Spagna rivelarono al mondo che gli Stati democratici nulla più potevano e dovevano concedere a un fascismo ormai pronto ad assimilare e a partecipare alla politica di espansione nazista. Il nazi-fascismo mirava ora ad annettere ogni terra dove vivessero in preponderanza tedeschi e italiani. Tutte le concessioni che l’Europa democratica aveva fatto a Hitler e a Mussolini furono dettate dalla speranza di salvare la pace, ma il nazi-fascismo rivelava intanto un altro aspetto della sua aberrante dottrina: il razzismo. Seguendo l’esempio di Hitler, Mussolini promulgò le leggi razziali (1938-39), creando la prima vera grande scissione tra il Paese e il regime. L’Italia, fatalmente trascinata dalla politica nazista, si trovò coinvolta (1940), assolutamente impreparata, nella Seconda Guerra Mondiale.

Le disastrose campagne di guerra in Grecia, in Russia e in Africa e lo sbarco delle truppe americane in Sicilia affrettarono la crisi del fascismo; il 25 luglio 1943, dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio, Mussolini fu costretto da Vittorio Emanuele III a lasciare il governo. Lo smarrimento e il caos nati dall’armistizio dell’8 settembre 1943 consentirono, con l’appoggio dei Tedeschi, un rigurgito di potere fascista. Mussolini, liberato dalla prigionia sul Gran Sasso, ma ormai strumento di Hitler, fondò il 23 settembre 1943 la Repubblica Sociale Italiana, che estendeva la propria giurisdizione sulla parte dell’Italia centro-settentrionale occupata dai Tedeschi e aveva come programma il “manifesto di Verona”, elaborato dal congresso del Partito Fascista Repubblicano nel novembre 1943. Ma gli sforzi di “rilanciare” il fascismo, applicando alcune misure di socializzazione in campo economico, per richiamarsi alle antiche origini “popolari” del movimento, fallirono di fronte al dilagare della guerra, che dimostrava imminente la disfatta nazi-fascista, mentre i movimenti di resistenza partigiana si diffondevano soprattutto nel Nord.

Nell’autunno-inverno 1944-45, con lo stabilizzarsi del fronte sulla “linea gotica”, alcuni provvedimenti, come la requisizione delle aziende e la distribuzione di viveri alla popolazione, furono l’ultimo, inutile sforzo per riguadagnare la solidarietà dell’opinione pubblica al fascismo. Il 25 aprile 1945, mentre anche la Germania hitleriana era ormai incapace di sostenere la massiccia offensiva degli eserciti alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e U.R.S.S.), con la liberazione di Genova e di Milano il fascismo vedeva irrimediabilmente segnata la sua condanna a morte. Finiva così, con una disastrosa sconfitta, dopo un ventennio di errori e di orrori, quel movimento politico che fin dal suo primo manifestarsi venne avversato dai partiti democratici, ma che si affermò anche grazie alla spinta della borghesia, all’astensione della maggioranza ed all’incomprensione di troppi intellettuali.

/ 5
Grazie per aver votato!

Privacy Policy

Cookie Policy