IL FANCIULLINO DI PASCOLI

IL FANCIULLINO DI PASCOLI

IL FANCIULLINO DI PASCOLI


Giovanni Pascoli – Il fanciullino (1897)

«È DENTRO DI NOI UN FANCIULLINO»

È dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Te­bano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età e tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire so­lo.

Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderio, ed egli vi tien fissa la sua antica serena meraviglia; noi in­grossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella, occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde esso risuona.

E anche egli invisibile fanciullo, si pèri­ta vicino al giovane più che accanto all’uomo fatto e al vecchio, che più dissi­mile a sé vede quello che questi […].

I segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura, al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra di sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle, che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dèi. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri umani esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. […]

Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora.

Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e che sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dica per una parola. […]

Il poeta, se e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. La poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale. […] Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamento ammobiliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza. […]

Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggero freno all’instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. […] O rimatori di frasi tribunizie, o verseggiatori di teoriche sociali, che escludete dall’ora presente ogni poesia che non sia la vostra, vale a dire, escludete la poesia, ditemi: Era o non era al suo posto, nel secolo d’Augusto, il cantore delle Georgiche? Sì, non è vero? Egli insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo né doloroso della miseria né invidiosa della ricchezza: egli voleva abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli. Che volete voi, o poeti socialisti, che dite cose tanto diverse e le dite tanto diversamente da lui?

Poesia è trovare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l’oscuro tumulto della nostra anima. […]

A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visone, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello.