IL CAVALLO DI TROIA OVVERO DELL’INGENUITÀ

IL CAVALLO DI TROIA OVVERO DELL’INGENUITÀ

-dall’Eneide di Virgilio, Libro II, vv. 13-310, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989, pp. 45- 59.


-Esausti di guerra, dai fati respinti
i capi dei Dànai (così numerosi perdendosi gli anni)
simile a monte un cavallo – arte divina di Pallade –
fanno, con assi d’abete connettono i fianchi:
voto per il ritorno lo fingono, quella fama si spande.
Ma corpi eletti d’eroi, tratti a sorte, in segreto
chiudono nel cieco fianco, profondamente le grandi
caverne del ventre riempiono d’uomini armati.
C’è Tenedo in faccia, isoletta notissima
e ricca, fin tanto che il regno di Priamo durava:
ora un golfo, un approdo e nient’altro, mal fido alle navi.
Qui giunti, si appiattano in ancoraggi deserti.
E noi li pensiamo fuggiti, diretti col vento a Micene.
Tutta dal lutto lungo la Troade si scioglie:
s’apron le porte, piace andare e il dorico campo
e deserti quei luoghi vedere, e abbandonata la spiaggia.
Qui le schiere dei Dolopi, là s’attendava Achille crudele,
qui delle navi era il sito, qui a guerra schierarsi solevano.
Guardano attoniti alcuni il dono fatale di Pallade vergine,
stupiti di quel cavallo alla mole: e per primo Timete
entro le mura esorta a tirarlo, a fargli posto in città,
tradimento, o forse portava così, ormai, il fato di Troia.
Ma Capi, e quanti avevan pensiero migliore nel cuore,
in mare le insidie dei Dànai e l’infido dono
voglion gettare, o bruciarlo le fiamme applicandovi,
trapassare, a esplorarli, i nascondigli del ventre.
Incerta fra opposti pareri è divisa la gente.
E là, primo fra tutti, seguito da grande codazzo,
ardente giù dalla rocca Lacoonte correva,
e di lontano: “O miseri, ma che pazzia, cittadini?
Credete partiti i nemici? Potete pensare che un dono
dei Dànai sia senza insidia? Così Ulisse v’è noto?
O in questo legno racchiusi si nascondono Achei,
o questa è macchina contro le nostre mura innalzata,
e spierà le case, e sulla città graverà:
un inganno v’è certo. Non vi fidate, Troiani.
Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e più quand’offrono doni”.
E detto così, con tutte le forze la sua grande asta
scagliò nel fianco del mostro, nel ventre ricurvo,
compatto. Si conficcò l’asta vibrando, sonarono,
percosso il ventre, le vaste caverne e gemettero.
E se i fati dei numi, se malaugorosa non era la mente,
già spinti ci aveva a sconciare col ferro le argoliche làtebre,
e Troia ora salda starebbe, e tu dureresti, alta rocca di Priamo!
Ma ecco un giovane, intanto, mani al dorso legate,
con gran clamore al re trascinavan pastori
dardani, uno che ignoto, da sé, mentr’essi passavano,
per macchinar questo, appunto, aprire Troia agli Achivi –
s’era dato, un audace, pronto ugualmente alla sorte,
o riuscir nell’insidia, o incontrar certa morte.
Da ogni parte a vedere i giovani Teucri
accorrendo s’accalcano, il preso a gara scherniscono.
Ascolta, ora, le insidie dei Dànai, e da un solo delitto conoscili tutti. Giacché, come in mezzo agli sguardi, inerme, pauroso,
ristette e girò gli occhi sopra la folla dei Frigi,
“Ah, che terra ora, disse, che mari mai possono
accogliermi? Che cosa resta a me misero?
a me, che non ho più posto fra i Dànai, e qui, ecco,
anche i Dardani chiedon, feroci, vendetta di sangue!”

A quel gemito mutano gli animi, tutta quanta ci cade
la violenza. A parlar lo incitiamo: di che sangue sia nato
riveli, e che cosa ci porta, con che fiducia si è dato.
[E quello, lasciando infine il timore, racconta]
“Tutto, o re, certo, comunque vada, a te voglio dire
il vero, rispose, e non negherò d’esser greco di sangue:
questo intanto, ché se la Fortuna ha fatto Sinone
infelice, falso e bugiardo non potrà farlo, la perfida!
Se mai ti venne agli orecchi, qualche volta, parlando,
di Palamede Belíde il nome e l’inclita gloria,
di quello che, per falsa accusa di tradirli, i Pelasgi,
colpa d’una spia maledetta, perché non voleva la guerra,
misero a morte innocente, e ora, morto, rimpiangono:
ebbene, compagno è costui, perché congiunto di sangue,
il padre mio, povero, mi mandò dai primi anni.
E fino a che regnò incolume, fino a che fu in onore
nei concili dei re, ebbi anch’io qualche nome, il mio poco
di gloria. Ma dacché l’invidia d’Ulisse insidioso
(oscuro non è quel che dico) lasciò il mondo dei vivi,
caduto in disgrazia, in tenebre e in pianto traevo la vita
e mal sopportavo la sorte dell’amico innocente.
Non tacqui, pazzo!, e se l’occasione si desse,
se mai vincitore tornassi in Argo mia patria,
promisi vendetta: e mi procurai duro odio.
Di qui per me il primo male: di qui sempre Ulisse
con nuove accuse a impaurirmi, a spargere voci
ambigue fra il popolo, a cercar, conscio, l’armi.
E non trovò pace, fin che, Calcante aiutandolo…
Ma io, l’odiosa vicenda perché inutilmente rivango?
Perché perdere tempo? Se tutti uguali avete gli Achei,
se tanto sapere vi basta, su, fate vendetta:
questo vuol l’Itaco, molto per questo gli Atridi darebbero”.
E noi ardiam di sapere, di farci dire il perché.
Ignari di tanta malizia e dell’arte pelasga.
Lui, con aria paurosa, riprende a parlar falsamente:
“Tante volte vollero i Dànai fuggire, abbandonar Troia,
andarsene via, spossati da guerra lunghissima:
e l’avessero fatto! Altrettante, aspra procella di mare
li bloccò, li atterrì, sul punto d’andarsene, l’Austro.
E specialmente quando, contesto di tavole d’acero, già si levava
diritto il cavallo, per tutto il cielo i nembi tuonarono.
Turbati, mandiamo Eurípilo a chiedere a Febo
il responso: quello dagli aditi porta fatale parola:
“Col sangue placaste i venti, sacrificando una vergine,
quando al principio, o Dànai, veniste ai lidi troiani;
col sangue dovete cercare il ritorno, sacrificando una vita
argolica”. Come agli orecchi del popolo arrivò questa voce,
inorridirono gli animi, gelido un brivido corse
in fondo alle ossa, a chi minacciano morte, chi Apollo vuole.
L’Itaco allora il vate Calcante, con grande tumulto,
trascina in mezzo, chiede e richiede che cosa vuol dire
il responso dei numi. E già per me profetavano molti
crudele arte del perfido, e muti il futuro vedevano.
S’appiatta quello, per cinque e cinque giorni non parla, non vuole
tradire nessuno con la sua voce mandandolo a morte.
Alla fine, per forza, costretto con grida grandi dall’Itaco,
parla secondo il concerto, me all’ara destina.
Furono tutti d’accordo, e quanto ognuno temeva
per sé, l’accettò, ridotto a supplizio d’un solo infelice.
Venne il giorno nefando: per me preparavan gli arredi
sacri, la mola salsa, le bende intorno alla fronte.
Mi strappai, lo confesso, alla morte, ruppi le corde,
in fangosa palude la notte, ombra fra i giunchi, rimasi,
fin che le vele sciogliessero, se pur l’avessero sciolte.
E ora nessuna speranza per me di vedere la vecchia mia patria,
né i dolci figli, né il padre tanto invocato:
e forse a loro faranno pagar la mia fuga,
il mio sacrilegio espieranno con la morte dei miseri.
Perciò per i Superi, pei numi consci del vero,
e se ancora rimane in qualche parte fra gli uomini
intemerata la fede, te supplico, abbi pietà:
pietà di tanto dolore, d’un cuore che ingiustizia subisce”.
A queste lacrima noi diamo la vita, anzi, diamo conforto:
subito Priamo per primo vuol che si sciolgano
le strette ritorte del giovane, gli parla amiche parole:
“Chiunque tu sia, dimentica i Greci perduti;
nostro sarai. E questo rispondi vero al mio chiedere:
perché quella mole d’enorme cavallo levarono? chi consigliò?
che cercano? È un voto, è qualche ordigno di guerra?”
Diceva, e quello, ricco d’inganni e d’arte pelasga,
alzò, sciolte appena le corde, le mani alle stelle:
“A voi, fuochi eterni, al non violabile vostro
nume m’appello, e a voi, are e coltelli nefandi,
che ho fuggito, a voi, bende divine, che vittima cinsi:
m’è lecito sciogliere i sacri giuramenti dei Greci,
m’è lecito odiarli e portar tutto alla luce
il loro segreto: né legge partria mi vincola.
Ma tu la promessa mantieni, tu, salvata, conservami
fede, o Troia, se il vero ti porto, se pago gran dono.
Ogni speranza dei Dànai e fiducia per la guerra intrapresa
sempre fu nell’aiuto di Pallade. Ma da quando sacrilego
il Titide ed Ulisse, l’ideatore dei crimini,
osaron strappare dal tempio sacro il fatale
Palladio, massacrati i custodi dell’altissima rocca,
e con mani cruenti la santa effigie afferrarono,
contaminando fin della dea le bende virginee;
da allora oscilla, scivola, sempre più indietro
va la speranza dei Dànai, infrante le forze, nemica la dea.
E la Tritonia i segni ne diede, con chiari prodigi.
Appena nel campo il simulacro deposero: arsero fiamme
corusche negli occhi sbarrati, salso pel corpo
colò sudore, dal suolo tre volte – stupore a narrarlo –
balzò, brandendo lo scudo e l’asta vibrante.
Subito spiega Calcante che devon fuggire pel mare,
non possono argoliche armi distruggere Pergamo,
se non riprendono in Argo gli auspici, se non riportano il nume,
che ora pel mare han rapito con sé sulle navi ricurve.
E appunto adesso, che tendon col vento alla patria Micene,
armi preparano e dèi favorevoli: e rivarcate le onde
saran qui all’improvviso. Così spiega i segni Calcante.
Questa per divino comando l’han fatta, pel Palladio, pel nume
contaminato, effigie che il sacrilegio triste espiasse.
E però volle Calcante che gigantesca la mole innalzassero
e con robuste compagini la drizzassero al cielo,
perché non possa passar per le porte, entrar dalle mura
e proteggere il popolo nel sacro vincolo antico.
Giacché, se la vostra mano violasse i doni di Pallade,
allora gran scempio (ma contro di lui il malaugurio
volgano i numi) sarà per i Frigi e l’impero di Priamo;
ma se per mano vostra salisse alla vostra città,
l’Asia allora, a sua volta, con gran guerra alle mura
pelopèe giungerà: tali fati sovrastano i nostri nipoti”.
Così, per queste insidie, per l’arte di Sinone spergiuro,
fu creduta la cosa: da inganni furono presi, da lagrime
false, quelli che né il Tedide, né Achille di Làrissa,
e non dieci anni e non mille navi domarono.
[……]

E apriam le muraglie, spezziamo la cinta della nostra città.
Tutti dan mano all’opera: e adattano sotto le zampe
ruote scorrevoli, e al collo corde di canapa
gettano. L’ordigno fatale supera i muri,
pregno d’armi. Intorno fanciulli e non promesse fanciulle
cantano gli inni sacri, toccano lieti la fune.
Sale l’ordigno, già corre la città minaccioso.
patria, o dimora dei numi, Ilio, inclite in guerra
mura dei Dardani! Quattro volte, lì sulla soglia,
inciampò, quattro volte nel ventre s’udì suono d’armi:
ma noi, ciechi, insistiamo, incoscienti, impazziti,
e sulla rocca sacra diam sede al mostro funesto.
Allora anche Cassandra apre ai fati imminenti
la bocca, per volere del dio mai dai Teucri creduta:
ma noi, miseri, per cui l’ultimo giorno era quello,
a festa con fronde pariamo gli altari in città.
Intanto gira il cielo, rapida su dall’Oceano la Notte
sale, nell’ombra vasta a chiudere il cielo e la terra
e gli inganni dei Greci: sdraiati lungo le mura, i Troiani
tacciono, il sonno ne culla i corpi spossati.
Ed ecco a piene vele la flotta argiva avanzava
da Tenedo, nell’amico silenzio della tacita luna
al noto lido tornando. Alta la nave del re
levò una fiamma: allora, protetto dal fato maligno,
i Dànai chiusi nel ventre, la lignea prigione
Furtivo Sinone disserra. Spalancato li rende
all’aria il cavallo: lieti escon dal cavo
legno Tessandro e Stènelo, i capi, e Ulisse funesto,
giù per la fune calata, e Acamante e Toante
e il Pelide Neottolemo, e Macàone per primo,
e Menelao e lo stesso ideatore della macchina, Epeo.
E via per la nostra città sepolta nel sonno e nel vino:
massacran le guardie, spalancan le porte, tutti introducono
i loro compagni, le consce schiere riuniscono.
[……]

Intanto la strage sconvolge da tutte le parti le mura,
e sempre, sempre di più, quantunque remota del padre
Anchise fosse la casa, chiusa e protetta dagli alberi,
si fan chiari i suoni, dell’armi incombe l’orrore.
Mi desto di colpo, raggiungo la cima più alta
del tetto, rimango, orecchi tesi, in ascolto.
È come quando tra il grano, nell’infuriare del vento,
cade scintilla, o come violento torrente montano
fiacca i campi, fiacca i seminati fertili, fatica dei bovi,
svelle e trascina le selve: stupisce, ignaro, da un’alta
rupe udendo il frastuono, il pastore.
Allora fu chiara la fede, vidi aperto l’inganno
dei Dànai.

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