Il Biennio Rosso Nero

Il Biennio Rosso Nero

da G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, Laterza, Bari, 1976


Con il nome di «biennio rosso» sono ricordati, come sappiamo, gli anni 1919-1920 che videro l’inte­ra Europa percorsa dalle rivendicazioni e dalle lotte operaie. In Germania, in Austria, in Ungheria sor­sero repubbliche ispirate dal modello sovietico (par. 3). In Italia, invece, «il biennio si colorò fortemente di nero». L’espressione «biennio rosso-nero» apparve, per la prima volta, nell’Intervista sull’antifa­scismo che Giorgio Amendola (militante nel PCI e protagonista della Resistenza) concesse nel 1976. Quel biennio in Italia fu, infatti – chiarisce Amendola -, un periodo di grande confusione, contrasse­gnato da violenze fasciste e «molto sporadiche» violenze da parte dei «massimalisti».

L’immagine di un Italia sconvolta dalle violenze sovversive, un ‘Italia sulla quale pendeva la «mi­naccia bolscevica», è, tuttavia, a giudizio di Amendola, una visione di comodo, accreditata dal fasci­smo e accettata da gran parte della storiografia, che deve essere corretta. La verità è che il movimento operaio non era ben consapevole dei suoi obiettivi; mentre questi erano invece assolutamente chiari all’opi­nione borghese.

L’atteggiamento dei ceti medi e la loro «scelta» furono decisivi per la vittoria della Destra; ma non può dirsi che questi ceti, specie quelli intellettuali, siano stati spinti ad aderire al fascismo dalle «violenze sov­versive» dei rossi che ancora non hanno avuto tempo [nel 1919-’20] di dispiegarsi. «Attribuire soltan­to agli errori massimalistici il passaggio dei ceti medi al fascismo, non è esatto». È vero, invece, che c ‘era­no in questi ceti delle forze uscite dalla guerra con una precisa volontà antidemocratica. Nel testo che segue D. sta per domanda, e R per risposta.

 

Tutto ciò si accorda molto bene con i giudizi limitativi da te spesso espressi a proposito del «bien­nio rosso» 1919-1920, un biennio che preferisci chiamare addirittura «rosso-nero».

Il cosiddetto «biennio rosso» in realtà è un biennio di grande confusione, nel qua­le due processi avanzano intrecciati: il pro­cesso di radicalizzazione a sinistra e il pro­cesso di reazione a destra. Direi che l’inizia­tiva è presa dalle forze di destra: la chiassata alla Scala contro Bissolati è del gennaio ’19 [1], l’incendio dell’«Avanti!» ha luogo in aprile [2]. Ossia, già in un primo momento ha luogo lo scatenamento di una violenza contro la qua­le il movimento operaio che cosa oppone, a parte tutte le farneticazioni e le illusioni? Oppone, di fatto, soltanto una tattica eletto­rale nella quale la fedeltà delle adesioni po­polari si fa sentire. Nelle elezioni del ‘ 19 si fa sentire, ma con limiti geografici molto netti, con un Mezzogiorno che raggiunge a mala­pena il 10% dei voti socialisti. Tuttavia ci fu­rono i 153 deputati al Parlamento, che sono un fatto importante, e ci fu la conquista di una serie di comuni e via di seguito. E poi che cosa oppone? Oppone una tattica sin­dacale, più prudente di quella che si dava a vedere, perché poi i sindacati erano in ma­no ai riformisti: con certe forzature, come il patto agricolo della Valle Padana del ’20[3] con certe conquiste del tutto legittime nelle fabbriche, sopportabili dal capitalismo (le punte più avanzate del capitalismo, come

Agnelli [4], le sopportavano), e con un disordi­ne – ecco – un disordine generale che ali­mentava le paure della Destra, ma le ali­mentava senza costrutto. Poi, questi disordi­ni in che cosa si manifestavano? Si manife­stavano nei moti per il carovita del luglio ’19, in cui i fascisti giocarono la loro parte come la giocarono, e in violenze sporadiche, molto sporadiche, dei massimalisti.

Quindi l’immagine di un dopoguerra in cui l’Italia è sconvolta dalle violenze sovversi­ve è una immagine che il fascismo ha creato e che la storiografia ha molto spesso accetta­to come una visione di comodo, e che invece bisogna correggere. Bisogna dire che gli in­terventisti democratici concorsero ad ingi­gantire la leggenda di una «minaccia bolsce­vica» in realtà inesistente.

Direi che la tua interpretazione si stacca an­che dall’interpretazione che la stessa ala di sinistra del Partito socialista dava allora.

Si stacca nettamente. Io nego l’esistenza di condizioni obiettive rivoluzionarie nell’Ita­lia di allora. Perché ci sia una condizione ri­voluzionaria, Lenin ce lo aveva insegnato, ci vuole una classe dirigente che non riesca più a governare alla vecchia maniera e una classe oppressa che non riesca più ad andare avanti. Ora, in realtà, malgrado tutto, le forze della borghesia sapevano quello che volevano. Era il movimento operaio che non sapeva quello che voleva, anche perché non era ridotto in condizioni di disperazione. In Italia si era ini­ziata la smobilitazione dell’industria bellica, ma questa smobilitazione era compiuta con una certa lentezza, non bruscamente.

Poi dovremmo ricordare che i salari reali era­no cresciuti.

I salari reali erano aumentati fortemen­te, raggiungendo il livello più alto che si sia avuto in Italia fra il ’13 e il ’50. Quindi il bien­nio ’19-’20 ebbe la sua espressione più avan­zata nella lotta sindacale.

Agli inizi, tra il ’19 e il ’21, nel movimento operaio chi capi il fascismo ? Chi mise in guardia i socialisti dai pericoli di una reazione borghese, dei celi medi ?

 

Io ricordo sempre l’intuizione solitaria di Gramsci. Anche Turati aveva messo in guardia contro il pericolo di una reazione nel discorso dell’ottobre ’19 a Bologna. Ma in tutti mancò la percezione della realtà. In tutti, poi, la reazione veniva indicata come una reazione di tipo statale, umbertino. Se vai a vedere, anche in Turati c’è anzitutto il ricordo di quello che era stato il ’98[5].

Turati, nel discorso del ’19 a Bologna, parlò di una futura eventuale «compressione militarìsti­ca», e in questo c’è un ricordo delle repressioni del ’98. Ma egli previde nello stesso tempo una reazio­ne feroce dei ceti medi: «di tutte quelle classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettuali, quegli uomini liberi — egli disse — che si avvicinavano a noi, che vedevano nella nostra ascensione la loro propria ascensione e la liberazione dell’uomo, e che noi con la minaccia della dittatura e del sangue gettiamo dalla parte opposta, regaliamo ai nostri avversari».

Non credo che il fascismo nasca da que­ste anime libere respinte dalle «violenze sov­versive». Si può fare tutta una casistica; si può andare a vedere nei dettagli, ma la piccola borghesia che si muove già nel «biennio ros­so» non è gente respinta dalla violenza so­cialista, una violenza che ancora non ha avu­to tempo di dispiegarsi. Quelli che assaltano 1’«Avanti!» il 15 aprile ’19 appartengono a forze che già in partenza hanno una carica antidemocratica; carica che poi, bisogna ave­re il coraggio di dire, ritroviamo nell’evolu­zione culturale italiana nel primo decennio del secolo. Tutto il movimento di reazione antipositivistica aveva alimentato germi antidemocratici. La «Voce»[6] è un crogiuolo di questi germi; solo alcuni collaboratori si sal­vano. Il disprezzo per il Parlamento è co­stante in quella linea: unisce assieme in un blocco antigiolittiano indifferenziato tutti quanti. La radice è li, nel blocco antigiolit­tiano indifferenziato, di cui lo stesso Salve­mini ha pesanti responsabilità[7]. E allora ec­co: attribuire soltanto agli errori massimali­stici il passaggio dei ceti medi al fascismo, a mio avviso, non è esatto. Quegli errori han­no certamente contribuito, ma non sono sta­ti elemento determinante. C’erano già delle forze intrinsecamente antidemocratiche, che erano in parte espresse dai ceti medi. Ce­ti medi che erano già usciti dalla guerra con questa volontà, questa «vis» antidemocratica. Gli antichi «arditi»[8] continuavano in qualche modo a praticare contro i sovversivi la vio­lenza appresa durante la guerra. La violenza era teorizzata più da questi movimenti fasci­sti che dalla stessa Estrema Sinistra. Questa parlava di dittatura del proletariato, ma sulla base di una concezione secondo la quale ogni Stato capitalista era una dittatura della borghesia. Lo stesso esempio della Russia so­vietica a quell’epoca non era ancora l’esem­pio di uno Stato dittatoriale consolidato. Era un paese in piena guerra civile in cui la vio­lenza veniva utilizzata per difendersi dall’as­sedio bianco condotto con ferocia e cru­deltà. Non era una violenza la quale non avesse una sua giustificazione intrinseca. Di­rei che la polemica sulla libertà in Unione Sovietica è più forte oggi che allora. Nessuno poteva negare allora che uno Stato, uscito da quel po’ di crisi, avesse quelle che veni­vano da tutti riconosciute le esigenze giaco­bine di una lotta condotta in un certo modo.

[1] Leonida Bissolati (1857-1920), socialista riformista, si batté nel 1914-’15 per l’intervento dell’Italia in guerra. Nel 1919, a guerra finita, pro­pose la rinuncia italiana alla Dalmazia, all’Alto Adige e al Dodecaneso, in quanto terre non ita­liane. Per questa sua posizione di «rinunciatario» intransigente, futuristi e fascisti, guidati da Marinetti e Mussolini, gli impedirono l’I 1 gennaio 1919 di parlare alla Scala di Milano

[2] Il 15 aprile 1919 a Milano, durante uno scio­pero generale, una colonna di fascisti incendiò la sede dell’«Avanti!» (par. 10). Mussolini assunse «tutta la responsabilità» dell’impresa.

[3] «Nel marzo 1920 le Leghe socialiste di Fer­rara riuscirono ad imporre patti molto onerosi ai proprietari terrieri» (nota dell’Autore).

[4] Giovanni Agnelli (1866-1945) fondò la FIAT nel 1899 e ne divenne amministratore delegato dal 1905 e presidente dal 1920, rendendola il più grande gruppo industriale italiano.

[5] Nel 1898, come si ricorderà, il generale Ba-va-Beccaris, a seguito delle dimostrazioni popola­ri determinate dalla crisi economica, proclamò a Milano lo stato d’assedio e affrontò i dimostranti a cannonate (voi. II, cap. XIX, par. 8).

[6] È la celebre rivista di cultura pubblicata a Fi­renze dal 1908 al 1916.

[7] Per la polemica di Salvemini nei confronti di Giolitti, alla quale si è più volte fatto riferimento, vedi il capitolo I, lettura 6, e il capitolo II, lettura 7.

[8] Gli «arditi» erano corpi speciali d’assalto del­l’esercito italiano, nella prima guerra mondiale.