IGNAZIO SILONE FONTAMARA

IGNAZIO SILONE FONTAMARA


    Silone  nacque  a Pescina,  in provincia dell’Aquila,  il primo maggio

    Figlio d’una tessitrice e d’un piccolo proprietario  di  terra,

    rimase  orfano  a  quattordici  anni  in  seguito  al  terremoto della

    Marsica.  Fu un precoce ribelle e la sua  rivolta  contro  la  vecchia

    società  e “i poteri costituiti” assunse presto le forme (come oggi si

    dice) di “una contestazione  globale”.  Terminati  gli  studi  liceali

    grazie  a  fondi  pubblici,  prese  parte  attiva alle lotte contro la

    guerra e al movimento operaio rivoluzionario.  Si oppose  al  fascismo

    fin  dalle  origini,  fu  redattore  dell’«Avanguardia»  (organo della

    gioventù socialista) e del «Lavoratore» di Trieste,  la cui tipografia

    venne  ripetutamente  incendiata  dagli  squadristi.   Dopo  le  leggi

    eccezionali,   divenne  attivista  clandestino  accanto   a   Gramsci;

    denunziato  e  ricercato,  fu  infine costretto a riparare all’estero,

    stabilendosi nel 1930 in Svizzera.  Al 1931 risale la sua rottura  col

    movimento comunista, caduto sotto la tirannia staliniana. A Davos, nei

    Grigioni,  scrisse “Fontamara” che, pubblicato in tedesco a Zurigo nel

    1933, vide ben presto venticinque traduzioni. Anche i libri successivi

    (“Pane e vino”, 1937; “La scuola dei dittatori”, 1938;  “Il seme sotto

    la neve”, 1945) ebbero una calda accoglienza.

    I suoi libri d’esilio testimoniano, assieme a una coerente opposizione

    contro  ogni  forma  di  totalitarismo,   un  lavorìo  di  sistematica

    revisione  dell’ideologia  di  partito   precedentemente   professata,

    revisione  culminata  in  quello  che  egli  ha chiamato la riscoperta

    dell’eredità cristiana e dell’ispirazione libertaria. Ignazio Silone è

    morto a Ginevra il 22 agosto 1978.


FONTAMARA. Romanzo di Ignazio Silone

(pseud. di Secondo Tranquilli, 1900-1978),

scritto in Svizzera, durante l’esilio, nel 1930.

Dopo un’edizione in lingua tedesca (Oprecht,

Zurigo, 1933), l’edizione italiana definitiva si

avrà solo nel 1953 presso Mondadori. Testimo-

nianza aspra e altamente poetica sulla vita di

desolazione e sfruttamento di una comunità

contadina che vive ai margini del mondo civile,

Fontamara è il nome dì un’antica località abi-

tata da contadini poveri. La scala sociale non

conosce che due gradini: la condizione dei “ca-

foni” che sono “i braccianti, i manovali, gli arti-

giani poveri” e quella dei piccoli proprietari. I

primi “si piegano a sforzi, a privazioni, a sacri-

fici inauditi per salire quel gradino infimo della

scala sociale; ma raramente vi riescono”. Nella

prefazione all’opera l’A. precisa: “II nome di ca-

fone, nel linguaggio corrente del mio paese,

sia nella campagna che nella città, è ora termi-

ne di offesa e di dileggio; ma io l’adopero in

questo libro nella certezza che quando nel mio

paese il dolore non sarà più vergogna, esso di-

venterà nome di rispetto, e forse anche di ono-

re”. Tutti gli avvenimenti che ritmano la vita

degli esseri umani si svolgono a Fontamara:

nascite, morti, amori, odi, invidie, lotte, dispe-

razioni. Così la vita degli uomini, delle bestie e

della terra sembra racchiusa in un cerchio im-

mobile, saldata ermeticamente dalla morsa

delle montagne, dal ciclico ritorno delle sta-

gioni, dall’immutabile ripetizione dei gesti.

Prima la semina, poi l’insolfatura, poi la mieti-

tura, poi la vendemmia, i giovani diventano

vecchi e i vecchi muoiono. E se, nella pianura,

tante cose cambiano, i fontamaresi assistono

alle trasformazioni come a uno spettacolo che

non li riguarda. Ed è contro questo muro di

rassegnazione, di ignoranza, di apatia, che si

scontrano i tentativi di ribellione (una ribellio-

ne ancora imprecisa e velleitaria, immatura e

anarchica) del protagonista, Berardo Viola, nel

quale gradualmente si fa strada la consapevo-

lezza dell’intollerabilità della condizione di

“cafone”. S. racconta anche i primi vent’anni

della sua vita: “Per vent’anni il solito cielo cir-

coscritto dall’anfiteatro delle montagne che

serrano il “Feudo” come una barriera senza

uscita; per vent’anni la solita terra, le solite

piogge, il solito vento, la solita neve, le solite

feste, le solite angustie, le solite pene, la solita

miseria: miseria ricevuta dai padri che l’aveva-

no ereditata dai nonni… e contro la quale il la-

voro onesto non è mai servito proprio a nien-

te”. L’ingiustizia è così antica da diventare na-

turale come la neve o il vento. Di un realismo

violento e altamente espressivo, denuncia di

un’oppressione, contributo alla formazione di

una coscienza sociale, questo libro, saturo di

indignazione e di collera contro i soprusi del

regime fascista, ha avuto un travolgente suc-

cesso. S. vi fa prova di un vigoroso talento di

narratore, e i suoi personaggi si stagliano ni-

tidi e pieni di vita su uno scenario di miseria.

Il romanzo è importante anche perché anticipa

 molti degli elementi essenziali del futuro neo_

realismo: la problematica meridionalistica, il

populismo (ovvero la convinzione che il popolo

possieda potenzialità straordinarie di trasfor_

mazione del mondo una volta che sappia u_

scire dallo stato di natura e acquisire coscien_

za storica e politica), l’impegno ideologico pro_

gressista, la costruzione narrativa corale ma

incentrata sulla figura dell’eroe positivo, una

volontà di chiarezza espressiva.

Fontamara fu portato a termine del 1930: anno di forzata inattività per Silone, gravemente ammalato e in fase di ripensamento politico. E’ ambientato in un borgo dell’ Abruzzo che rappresenta la società contadina dell’Italia povera con i suoi tratti caratteristici (cafoni e piccoli proprietari in una condizione comune di penuria, in una rabbiosa e quotidiana litigiosità) e la fisionomia particolare che vi ebbe il fascismo intervenendo a vantaggio dei ricchi e dei proprietari.

Il senso di immobilità che si respira a Fontamara viene tradotto in immagini che danno il senso della chiusura, della costrizione: “per vent’anni il solito cielo, per vent’anni la solita terra, le solite piogge, il solito vento, la solita neve, le solite feste, i soliti cibi, le solite angustie, le solite penne, la solita miseria. La vita sembrava racchiusa in un cerchio immobile”. A rompere questo circolo e a peggiorare ulteriormente le cose intervengono gli ” strani fatti” che Silone racconta nel romanzo e che sono i cambiamenti introdotti dal nuovo regime che si instaura in Italia in quegli anni, il fascismo. Tali cambiamenti rendono ancora più dura anzi impossibile la vita dei cafoni, fino alla tragica conclusione. La loro sconfitta però lascia intravedere una speranza di vittoria futura per l’avvenuta maturazione politica di uno di loro, Berardo Viola, che lotta e muore, lasciando ai compaesani un segno e un modello da imitare.

Silone costruisce un racconto a più voci. C’è una breve prefazione in cui parla uno scrittore, dichiarando i suoi propositi (dire “la verità sui fatti di Fontamara”) e introducendo dei narratori intermediari: un vecchio con la moglie e il figlio, scampati all’omicidio degli Fontamaresi, fuggiti in esilio e venuti a trovarlo; poi parlano alternandosi il vecchio e la donna e infine brevemente il figlio che è stato compagno di carcere di Berardo. La narrazione viene perciò condotta attraverso l’ottica, il punto di vista di tre cafoni, ottica strana perché, mostrando le cose secondo la mentalità contadina, conferisce loro un aspetto inedito, creando effetti paradossali e anche comici: i Fontamaresi non comprenno mai esattamente i segnali che arrivano loro dalle autorità (perché essi sono da sempre estranei alla storia ufficiale ma anche perché con la dittatura fascista si hanno nuovi segnali e nuovi significati). Si pensi a quando i cafoni sono portati in camion a una manifestazione del governo: al posto del gagliardetto essi portano lo stendardo del santo e quando i presenti ridono i Fontamaresi non capiscono perché anzi sostengono che lo stendardo è molto più bello del gagliardetto fascista, decorato con un teschio.

Per far assumere alla narrazione un tono di verità, inoltre, Silone presta sì ai narratori della lingua (“a nessuno venne in mente che i fontamaresi parlino l’italiano” chiusa ), ma mantiene intatta la “la maniera di raccontare”, che “è quella stessa appresa da ragazzo, seduto sulla soglia di casa, o vicino al camino, nelle lunghe notti di veglia”. Di qui lo stile piano, scarno, parlato, e il narrare “pulitamente, ordinatamente, insistentemente, chiaramente”.