I presocratici

I presocratici

I presocratici


Presocratici vengono appunto definiti i filosofi vissuti prima di Socrate, autori di cui abbiamo diversi frammenti che ci possono far cogliere la loro originalità (in passato ad esempio si ritenevano Parmenide discepolo di Senofane ed Eraclito della scuola di Mileto). 
Se la conoscenza è, come abbiamo esaminato, visione, è da dirsi che si vede l’immagine di un oggetto reale, che si ritiene possibile espriumere in un discorso (lògos, termine che significa sia parola che discorso che pensiero). In questo modo risulta esserci una connessione tra realtà, pensiero, parola. La connessione pertanto si perpetua tra ontologia (che studia la realtà), la logica (che studia il pensiero) e il linguaggio (che studia la parola).Così si rivela assai importante l’etimologia, ricerca del nome, che è la verità della cosa.

Eraclito e la sua scuola

Eraclito nacque ad Efeso, in Ionia, e la sua akmè è fissata da Apollodoro tra il 504 ed il 500 a.C., come Parmenide. Non fu interessato alla vita politica, indipendentemente dalla sua nobile origine (regale, dice Diogene Laerzio, secondo il quale Eraclito rinunciò al titolo in favore del fratello). Il suo atteggiamento meditabondo e schivo pare confermato dalla oscurità espressiva del suo Sulla natura (l’opera fu così nominata, in origine il titolo verosimilmente era l’incipit “Eraclito efesio dice questo…”), opera in prosa depositata nel tempio di Artemide, come fosse un’opera oracolare 
Ho indagato solo me stesso, uno solo per me vale diecimila se è il migliore- sono frammenti che dimostrano come non tutti secondo Eraclito abbiano le stesse capacità di cogliere la verità o comunque lo stesso valore, in consonanza colla sua origine aristocratica e colla testimonianza della sua avversione alla democrazia. L’antitesi tra i migliori ed i più è ricorrente. 
L’ opera è divisa dagli studiosi in tre argomenti: fisico, politico, teologico: rimane in dubbio se il tema centrale fosse fisico o etico-religioso. 
La verità delle cose, del pensiero del discorso è il lògos secondo cui tutto è un’unità di opposti, discorde armonia, ingenerata ed eterna. Da ciò è stata attribuito a Eraclito il primo uso della dialettica. 
Eraclito non è il padre della teoria del divenire. Nei suoi numerosi frammenti (più di cento) non esiste il motto pànta rhéi. Piuttosto egli vuole sottolineare il contrasto tra le cose ed il proprio nome. Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume perché il nome è lo stesso ma la realtà che sostanzia (le acque) no, come negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo. Identica è la via all’insù ed all’ingiù (la stessa via è salita e discesa), l’arco (biòs) ha per nome vita e per opera morte. Poiché però il nome esprime la natura della cosa, il contrasto è nella cosa stessa, ribadendo il principio dell’opposizione nell’unità. 
Il conflitto è nelle cose, la giustizia è contrasto e necessità. 
I mortali (anche Omero e Pitagora) ritengono vere le conoscenze particolari, pensano solo a vincere in politica, si interessano solo dei progressi della tecnica, perciò non capiscono il lògos neppure dopo averlo ascoltato. Di qui la superiorità che Eraclito mostra anche nella critica di multiscienza senza intelligenza rivolta a Esiodo, Pitagora, Ecateo. Il filosofo si rivolge ad oggetti molteplici ma li riduce ad unità. 
Eraclito perciò filosofo della ricerca, imposta dalla natura che ama nascondersi. L’uomo deve indagare se stesso e cercare ciò che è comune a tutti: quindi cerecare l’essenza dell’uomo che è ciò che lega gli uomini. Per questo bisogna vegliare e non dormire. La ricerca è phronèsis, saggezza di vita che determina l’indole dell’uomo (èthos) ed il suo destino. 
Simbolo del lògos è il fuoco sempre vivo che trasforma (il fuoco si scambia con tutte le cose come la merce con l’oro) e si trasforma secondo fasi naturali, cambiando nome a seconda di ciò con sui si mischia. Questa non è né un’ingenua determinazione dell’archè né aspetto di una cosmologia complessa come hanno voluto vedere in molti. Eraclito vuole mostrare l’unità e l’opposizione di tutto: il fuoco vive se muore la terra, l’aria se muore il fuoco, l’acqua l’aria, la terra l’acqua. 
La conoscenza è homologhèin, convenire col lògos, essere fuoco. 
La divinità come il fuoco, si altera nella combinazione è unità degli opposti. Questa affermazione si accorda a critiche che Eraclito svolge contro i riti e le preghiere della religione greca, fatte da chi non conosce la vera natura degli dei. 
Cratilo di Atene fu discepolo di Eraclito e maestro di Platone: a lui sarebbe da attribuire l’interpretazione celeberrima del pensiero di Eraclito secondo cui non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume per la rapidità dell’acqua e non si può nominare alcuna cosa perché significherebbe contrastare il loro divenire, per cui l’ideale sarebbe solo indicarle col dito. Le sensazioni variano da un soggetto all’altro e da un momento all’altro per il divenire del mondo, perciò non v’è un criterio di verità per la conoscenza. Un dialogo di Platone sul linguaggio ha il suo nome.

Parmenide e la sua scuola

Di Parmenide di Elea (Lucania) l’akmè è fissata nel 504-500 a.C. da Apollodoro. Piuttosto che discepolo del pitagorico Aminia o di Senofane pare gli vada attribuito il ruolo di maestro di Senofane; fu legislatore o mediatore nella sua città. Nel Parmenide di Platone è raffigurato vecchio (venerando e terribile) ad Atene in compagnia del discepolo Zenone di fronte al giovane Socrate. Parmenide fu autore di Sulla natura, opera in esametri, in cui nel proemio di 32 versi dalle “case della notte” viene condotto dalle dee al cospetto della dea della giustizia che gli offre la conoscenza della rotonda verità e delle opinioni errate dei mortali. 
Quest’opera si leggeva integralmente ancora all’epoca di Simplicio (VI d.C.), oggi ne abbiamo 154 versi in 19 frammenti. 
I mortali bicefali sostengono che essere e non essere sono identici ed in questo frammento si è voluto vedere la polemica con Eraclito, se effettivamente c’è stata. 
Parmenide afferma che dire che ogni cosa nel mondo è se stessa e non è altra cosa, significa far coincidere essere e non essere in maniera contraddittoria. Non esiste molteplicità di cose. 
Tenendo presente quanto detto all’inizio circa l’unicità di parola, pensiero e realtà Parmenide ci induce a dire solo ciò che è, a non parlare neppure di ciò che non è, poiché non esprime né un pensiero né qualcosa di reale. 
E’ perciò possibile dire solo ciò che è, senza alcuna predicazione, che ci reintrodurrebbe nella contraddizione essere-non essere. Così diventa comprensibile la formula l’essere è ed il non essere non è; ciò che è è ingenerato ed incorruttibile, poiché esso non può venire o finire nel non essere (si nega perciò ogni passato o futuro); l’essere non è in movimento, perché ciò che è qui ora non è più in qualche luogo e non è ancora in qualche altro ancora (si nega perciò il movimento). L’essere è perciò integro, uno, continuo, sferico,immobile ecc. 
Parmenide oppone la verità (alétheia) all’opinione (dòxa) di chi crede al divenire, anche se nei frammenti superstiti pare che lo stesso Parmenide nell’esporre la filosofia della natura ritenga che il cosmo sia basato sull’opposizione luce-tenebre, caldo-freddo. Perciò c’è chi crede che questa sezione esponga criticamente le idee ioniche e pitagoriche; c’è chi pensa che Parmenide studi la via dell’opinione per trovare le leggi che l’uomo, bisognoso dell’apparenza, si crea; c’è chi pensa che questa sia l’ipotesi sui fenomeni visibili che Parmenide ritiene più verosimile. 
Il mondo delle cose visibili viene perciò svalutato; Parmenide viene ritenuto il padre della metafisica. 
Zenone di Elea secondo Platone era 25 anni più giovane di Parmenide e nel 455-452 sarebbe avvenuta la sua akmè; secondo Diogene Laerzio che si riferisce ad Apollodoro nacque tra la fine e l’inizio del V secolo. Fu discepolo di Parmenide e, secondo Platone, alla metà del secolo si sarebbe recato ad Atene dove avrebbe incontrato Socrate. Forse incontrò il sofista Protagora e Pericle ascoltò le sue lezioni. Scrisse Sulla Natura, opera in prosa, di cui ci rimangono solo 5 frammenti, i più estesi dei quali derivano dal commento di Simplicio alla Fisica di Aristotele. 
Secondo Platone l’opera di Zenone fu tesa soprattutto a contrastare le tesi degli oppositori di Parmenide, mostrando le conseguenze assurde che derivano dall’accettare i dati provenienti dal senso comune (movimento e molteplicità dell’essere). Proclo nel commento al Parmenide di Platone ci fa sapere che le argomentazioni di Zenone erano 40. 
Contro la molteplicità degli enti egli sostiene che se gli enti sono quelli che sono, sono di numero finito, e dovendo necessariamente essere distinti, se sono due vi deve essere un tezo ente che li distingue e per essere tre vi deve essere un quarto e così via. Si giunge così a sostenere l’infinità degli enti in contraddizione con la tesi iniziale ( il molteplice è finito, il molteplice non è finito). Contro la molteplicità nell’unita chiama in causa il segmento: consta di infiniti punti ma se ogni punto ha una dimensione, il segmento è infinito, se invece il punto non ha dimensione il segmento non esiste. Contro la falsa percezione: se un grano di miglio quando cade non fa rumore, come fa un medimno di grani di miglio? Contro lo spazio: se tutto è nello spazio, lo spazio dovrà essere nello spazio, e via all’infinito: ma questo è impossibile, perciò nulla è nello spazio. 
L’essere si avvia ad essere anche per la riflessione di Zenone l'”uno” assoluto. 
Contro il movimento Zenone offre quattro argomentazioni: un corpo mobile, per andare da A a B deve passare per il punto C intermedio e prima ancora il punto D intermedio tra A e C e così all’infinto, ma non è possibile percorrere infiniti punti in un tempo finito, cosicchè è impossibile andare da A a B; Achille piè veloce non potrà mai superare la tartaruga che parte da un punto più avanzato di lui perché quando Achille avrà raggiunto il punto A la tartaruga sarà al punto B e quando Achille sarà al punto B la tartaruga al C ecosì all’infinito; un oggetto in movimento in ogni istante del tempo è in uno spazio uguale alle sue dimensioni, cioè è immobile; due corpi in punti opposti verso un punto A percorrono uno spazio uguale (rispetto ad A) e doppio (rispetto all’altro corpo). Aristotele nel VI libro della Fisica critica quest’argomentazione, rilevando che partono dal presupposto che il tempo (freccia) e lo spazio (il mobile e Achille) siano infiniti, il che rende impossibile percorrere qualunque distanza. 
Queste contraddizioni rivelate da Zenone sono importanti soprattutto nell’esprimere una dottrina contro l’apparenza. Aristotele lo ritiene padre della dialettica, metodo con cui si giunge a conclusioni opposte rispetto alla tesi iniziale, Platone lo fregia del titolo di Palamede Eleate (Palamede era un eroe omerico celebre per le sue invenzioni). 
Melisso di Samo, del V a.C., discepolo di Parmenide, scrisse Sulla Natura, opera in prosa. Difende il maestro, sostenendo che solo la conoscenza razionale coglie l’essere: la conoscenza sensibile testimonia la realtà delle cose ed il loro mutamento ma se sono reali non mutano e viceversa. Per Melisso l’essere è immutabile. Diversamente dal maestro, l’essere è una totalità infinita nello spazio e nel tempo diversamente da come pensava il suo maestro: esso è inoltre incorporeo (se avesse un corpo avrebbe parti e non sarebbe più uno). 
Per questo e per l’affermazione che l’essere è pieno e il vuoto non c’è Aristotele osserva che Parmenide accenni all’uno secondo il concetto, Melisso secondo la materia. 
Per l’assenza di questi caratteri non esiste la molteplicità diversamente da come pensa la moltitudine degli uomini, non per la contraddittorietà rilevata da Parmenide.

Empedocle

Empedocle di Agrigento ebbe la sua akmè nel 444 a.C. Il padre fu uno degli artefici della caduta della tirannide di Trasideo ed egli rifiutò il potere assoluto e offrì tutte le sue ricchezze al bene pubblico. Fu oratore, scienziato, mago, medico. L’amore della comunità nei suoi confronti è testimoniato dalla sua morte che si narra sia avvenuta una notte in cui, chiamato da una voce misteriosa, si accese una luce nel cielo; l’Etna poi restituì i suoi calzari, mostrando così la sua assunzione tra le divinità. 
Scrisse due poemi, Sulla natura e Purificazioni o Carme lustrale. Della prima opera abbiamo un centinaio di frammenti, per un totale di 400 versi. Nella seconda ( di cui abbiamo 120 versi) Empedocle sostiene tesi pitagorico-orfiche (l’immortalità dell’anima, la colpa originaria da purificare attraverso la metempsicosi) prettamente religiose. Si è cercato un filo rosso tra le sue opere ritenendo la prima una escatologia segreta preparatoria della fase miserico religiosa della seconda. Gli studi degli ultimi anni mettono in relazione il pensiero di Empedocle con quello eleatico, temperato dall’esperienza si senso comune del divenire. 
Secondo Empedocle ci sono quattro elementi, fuoco, terra, aria, acqua, raffigurate come le quattro divinità Zeus, Era, Edoneo, Nesti che costituiscono tutta la realtà e che sono scisse da Nèikos, la contesa che separa il simile, e unite da Philìa, l’amicizia che unisce il dissimile. La seconda tende a costituire la perfezione, sferica, immutabile, immobile, divina, omogenea; la prima invece costituisce le cose particolari ed imperfette e tende al caos; ciò avviene in modo ciclico, nelle fasi intermedie si manifesta il cosmo. Gli elementi si compongono e ricompongono ma mai passano dall’ essere al non-essere, perciò sono eterni e non nascono e non muoiono; nascono e muoiono i composti. Matrice evoluzionistica è stata riscontrata nella descrizione della creazione delle cose, giacchè gli elementi si sono composti in maniera singolare fino a giungere allo stato odierno (egli cita l’esempio di uomini con volti di bovini e viceversa). 
L’uomo può conoscere le cose perché esse emanano effluvi che ne riproducono le forme e che vengono percepiti dai pori degli organi sensoriali umani: d’altro canto uomo e cose sono costituiti dagli stessi elementi.

I presocratici di Atene

Atene dopo la sconfitta dei persiani e il periodo di Pericle si rivela un grande centro della Grecia sotto tutti i punti di vista. 
Ippone di Samo, contemporaneo di Pericle e Ideo di Imera sono i primi filosofi ateniesi che incontriamo: fisiologi, identificano l’ arkè con l’umido il primo, l’aria il secondo. 
Anassagora di Clazomene, vissuto tra il 500 ed il 428, scrisse Sulla natura, opera di cui abbiamo 22 frammenti. Si allontanò dal lungo soggiorno ad Atene per un’accusa di empietà: egli non credeva che luna e sole fossero divinità ma che fossero una massa terrosa ed una pietra incandescente. Euripide, Archelao e forse Socrate furono suoi discepoli. Visse poi in Ionia. Pare sostenesse che la sua patria fosse il cielo e di vivere per il sole, la luna ed il cielo. 
Come Melisso, ritiene che la nascita e la morte delle cose siano solo apparenti, giacchè la realtà è eterna ed identica; varia solo l’aggregazione degli elementi. Noi infatti mangiamo pane ma poi crescono le nostre unghie, capelli, arti, provando ciò la disaggregazione ed aggregazione delle realtà elementari. Il pane infatti contiene semi, omeomerie per Aristotele, visibili solo alla mente, non allo sguardo. Le particelle sono infinite e sono in tutto: variano per qualità ed è la qualità che fa distinguere le cose. Non importa di per sé la grandezza o piccolezza, essendo qualità infinite, presenti più in una cosa che altrove. 
Va tenuto presente come in questo modo si salvi sia il principio di molteplicità delle cose che la critica al passaggio dal non essere all’essere, che viene negato dalle realtà elementari. 
Anassagora fu chiamato Intelletto e Fisicissimo per la sua visione cosmologica: la Mente infinita (noùs), distinta, più pura e sottile tra le cose, che conosce tutto e ha massima forza, ha in origine separato con un vortice tutti i semi che erano una mescolanza caotica (mìgma) che perciò non consentiva distinzione e particolarità tra le cose, portando all’esterno l’etere con ciò che è caldo, rado, luminoso, secco e all’interno l’aria con nuvole, acqua, terra, in modo che in ogni punto dell’universo le qualità siano tutte presenti (tutto in tutto). Gli astri sono masse incandescenti, sostiene Anassagora, pare in seguito alla visione di una pioggia di meteoriti. Questa visione cosmologica è importante perché voluta, espressione cioè di un’ottica finalistica. Ciò è valutato positivamente da Platone ed Aristotele anche se la Mente é utilizzata solo come tappabuchi, quando mancano altre spiegazioni per i fenomeni naturali, cosmologici. 
Per Anassagora le sensazioni nascono dall’azione, tanto più violenta quanto intensa, degli elementi contrari (diversamente da Empedocle per cui sono frutto dell’incontro di elementi simili): il freddo sul caldo, l’amaro sul dolce. 
L’esperienza, l’arte servono invece a vedere l’invisibile. Plutarco racconta a tal proposito che Pericle di fronte ad un montone con un corno solo lo avesse interpretato come un presagio favorevole ed Anassagora allora abbia spaccato il cranio del montone per mostrarne la deformazione cerebrale all’origine di quella singolarità. Questo aneddoto mostra come Anassagora in opposizione ai costumi ed alle idee della sua epoca si mostrasse come un uomo razionalista e laico. Egli riteneva l’uomo l’animale più intelligente per la sua capacità di usare le mani per raggiungere il progresso tecnico e la conoscenza. D’altronde la vita era meritevole d’essere vissuta per l’osservazione del cielo e dell’ordine universale. 
Archelao, che la tradizione vuole maestro di Socrate, abbiamo scritto che fu suo discepolo; sostenne che anche la Mente fosse un miscuglio di esseri viventi e che caldo e freddo fossero cause efficienti e non effetti del vortice. 
Diogene di Apollonia (Creta), scrisse Sulla natura e Contro i Sofisti. Per lui l’aria, divina, onnipresente, onnipotente, avente un’intelligenza creativa ed ordinatrice è all’origine di tutte le forme delle cose (non delle cose, altrimenti ci sarebbe il passaggio dal non essere all’essere) che si formano per condensazione, rarefazione, cambiamento di stato.

La scuola pitagorica

La seconda generazione della scuola, diversamente dalla prima, si diffonde in tutta la Grecia e i filosofi più importanti sono Filolao ed Archita
I principi pitagorici portano a ritenere, almeno per quanto ne sappiamo, che i numeri siano i principi di tutte le cose, l’arkè: dai frammenti risulta che essi sono la sostanza delle cose (le cose sono numeri), elementi delle cose (le cose hanno un numero), i primi possono esistere senza i secondi e non viceversa. 
Probabilmente questa importanza del numero traeva la sua origine dall’interesse dato nella comunità alla musica, interesse che poi si è concentrato sull’aritmetica e la geometria allorchè si è scoperto un rapporto numerico tra i suoni (prova ne è la scoperta dell’ottava). 
Mentre i filosofi antecedenti cercavano la sostanza corporea dell’ ordine del mondo, per Pitagora il numero è l’ordine, la misura del mondo. 
Sebbene non sappiamo se tutti i frammenti sui numeri attribuiti a Filolao siano autentici, da essi risulta che il limite e l’illimitato, il determinato e l’indeterminato corrispondono ai numeri dispari e pari; il numero è legge del cosmo e fondamento dei rapporti (dei toni musicali, dei corpi celesti, ecc.). I numeri hanno un significato preciso: l’1 è l’intelligenza, 2 l’opinione, il quadrato di 2 e 3 (4 e 9) la giustizia (il prodotto di eguali), il 5 matrimonio (somma del primo dispari e del primo pari), il 7 l’opportunità, il 10 è il numero perfetto, per cui si giura: somma dell’ unità, del primo pari, del primo dispari e del primo quadrato. L’unità è detta parimpari perché genera pari con un numero dispari e dispari con un pari. 
Raffigurazione geometrica del tetràktis:

   X   
  X X  
 X X X 
X X X X

Il numero tra l’altro viene costantemente identificato con figure geometriche, perciò vi è una concezione dello spazio diviso in unità. Figure e numeri infatti venivano rappresentati da sassolini, da cui calculus che significa pietruzza, cioè da unità discrete (distinte), punti. Secondo questa identificazione aritmetica-geometria l’uno è il punto, due la linea, tre la superficie, quattro il solido. 
Il caltaclisma viene proprio creato dalla diagonale del quadrato. Il teorema attribuito a Pitagora dice che la radice della somma dei quadrati costruiti sui cateti (lati corti) di un triangolo rettangolo equivale al quadrato costruito sull’ipotenusa (lato lungo): facendo la radice, noi sappiamo la lunghezza dell’ipotenusa ma quando il triangolo è isoscele (due lati uguali), la lunghezza dell’ipotenusa è sempre un numero non intero. Poiché un quadrato lo possiamo immaginare come due triangoli rettangoli isosceli attaccati, possiamo concludere che la diagonale di un quadrato è un numero irrazionale (non intero), cioè inesprimibile. Deriva da ciò una separazione tra la matematica che analizza il discreto numerico e la geometria che analizza il continuo spaziale. 
Archita sotto il profilo musicale, negli accordi musicali trovò una media matematica (quando il secondo supera il primo di un rapporto identico a quello con cui il terzo supera il secondo 2-4-6), geometrica (il primo sta al secondo nel rapporto del secondo col terzo 3-9-81), subcontraria od armonica (il primo supera il secondo di una parte uguale a quella per cui il secondo supera il terzo 12-8-6). Ritenne che il numero creasse una concordia e parità che eliminasse discordia e sopraffazione e che fosse la prova del destino che avrebbe avuto anche il piano sociale. 
Sul piano cosmologico v’era una trasposizione di questi principi: ogni astro sarebbe il luogo di un determinato numero e i dieci (!) corpi celesti ruoterebbero intorno ad un fuoco, detto madre di tutti gli dei, Hestìa. Verso l’esterno troveremmo l’antiterra, la terra (al rango di un pianeta qualunque), la luna, il sole, i cinque pianeti, il cielo delle stelle fisse. Le stelle fisse sono appunto fissate alla sfera avvolgente di fuoco esterna. L’ antiterra tra fuoco centrale e terra è specchiata da sole e luna ed origina l’eclissi. La cosmologia pitagorica non a caso fu uno dei punti di riferimento per Copernico. 
Tutt’uno cosmologia e misticismo: i moti dei corpi celesti, perfetti ed armoniosi, produrrebbero un suono (armonia delle sfere) non percepibile dall’uomo ma l’anima dell’uomo consisterebbe comunque di quell’armonia musicale e sarebbe immortale nella sua somiglianza agli astri. 
La distinzione tra acusmatici e matematici potrebbe spiegare la divergenza sul piano religioso tra due dottrine religiose pitagoriche: quella della metempsicosi e quindi della purificazione dell’anima dallo stato di carcere corporeo e quella dell’anima come armonia degli elementi corporei che si dissolve colla morte. 
Perciò la musica e retorica hanno nel pitagorismo una funzione psicagogica (guida delle anime). I pitagorici sono considerati i primi ad affermare la superiorità della vita contemplativa su quella pratica.

Democrito e la scuola atomistica

Leucippo di Mileto è ritenuto il fondatore della scuola atomista. E’ dubbia persino la sua esistenza che sarebbe avvenuta nel V secolo a.C. (Epicuro si mostra scettico),. Egli si spostò ad Elea e ad Abdera, dove suo discepolo fu Democrito. Le due opere attribuitegli sono La grande cosmologia e Dell’intelletto. Opere con lo stesso nome sono attribuite anche a Democrito; è probabile che si tratti di due opere di Leucippo in cui è confluito l’insegnamento di Democrito e che per questo si consideri tutta la dottrina di Democrito. Sappiamo da Diogene Laerzio che Leucippo riteneva la luna il corpo più vicino e il sole il più lontano rispetto alla terra. 
Democrito di Abdera pare visse dal 460 al 370 a.C. e viaggiò in Persia, India, Egitto ed Etiopia. Ricordato negli aneddoti come scienziato distratto ma esperto in molte discipline, il suo stile è ricordato da Cicerone per la bellezza poetica simile a Platone e per la limpidezza. Abbiamo parecchi titoli di opere, più di duecento frammenti e parecchie testimonianze ma è ovviamente difficile accertarne sempre l’autenticità. La fisica sarebbe esposta nel Mikròs diàkosmosPiccola cosmologia, distinta dalla Grande cosmologia del maestro. 
Secondo Democrito la realtà è costituita da enti indivisibili, eterni, immutabili, infiniti ed inalterabili, definiti atomi. In realtà il termine àtomos idéa non compare nei frammenti che abbiamo di Democrito ma solo nelle fonti indirette: invece risultano i temini tò dèn (qualcosa), tò òn (l’ente), tò nastòn (il denso). Il motivo della loro indivisibilità (secondo la critica di Zenone infinita) è secondo Democrito fisica. Gli atomi rappresentano secondo la chiave di lettura eleatica l’essere, differenziandosi da esso per l’assenza di qualità, per la pluralità infinita e per il movimento. Difatti essi si muovono nel vuoto (tò kenòn) che, è definito non essere ma che ovviamente non è irreale. Esso è prodotto dal movimento spontaneo di queste particelle. 
Gli atomi, dicevamo, non presentano alcuna differenza qualitativa tra di essi. Sono diversi solo nella misura o forma, contatto reciproco o ordine, nella direzione o posizione. 
Questi atomi, in parte lisci, in parte rugosi, in parte curvi, si uniscono e separano costituendo tutto ciò che esiste in maniera non casuale: nel vuoto si crea un vortice che raggruppa atomi di figura e grandezza simile, i grandi al centro, i piccoli in periferia. Viene creato così il nostro e altri infiniti mondi e alla disgregazione di uno di questi ne sorge un altro. 
La visione della realtà di Democrito prevede una ferrea legge meccanicistica senza finalità e sostiene la distinzione tra cio che è reale e ciò che è pensabile. 
Le qualità che noi vediamo nelle cose sono effetto dell’incontro delle particolarità degli atomi coi nostri sensi, diversi da individuo a individuo e per convenzione ed opinione noi nominiamo il dolce, il caldo, il colorato, poiché come abbiamo visto gli atomi non differiscono per qualità. 
L’anima dell’ uomo è formata da atomi sottilissimi, mobilissimi, rotondi e lisci diffusi in tutto il corpo. La conoscenza razionale è diversa solo quantitativamente da quella sensibile ed è sita nel cervello. 
Dai corpi ha origine un effluvio che tra fonte e destinatario crea un immagine (èidolon), che giunge all’organo di senso. Questa intermediazione induce a differenziare la conoscenza sensibile da quella razionale, che arriva dove non giunge la prima, mostrando una posizione scettica nel pensiero di Democrito. 
Tra gli altri spunti interessanti degli studi democritei per la filosofia, la sua tesi sull’origine convenzionale del linguaggio (e non naturale) e sulla origine della società: gli uomini senza legge ed allo stato ferino spinti dal bisogno e dalla paura si riunirono in società imparando a comunicare e ponendosi delle regole. In seguito scoprirono il fuoco e progredirono sempre più apprendendo ed inventando nelle tecniche ed arti. Non esistono doni divini. Questa storia dell’uomo ha anche fini etici ( trovare una sola spiegazione causale è più importante che diventare padrone dell’impero persiano). 
La sua etica individualistica ritiene centrale la felicità che è una disposizione favorevole dell’animo (eythymìe) intesa come misura e vittoria sulle passioni (subire ingiustizia rende meno infelici del commetterla, bisogna non fare il male perché doveroso e non per paura, bisogna curare più l’anima del corpo perché la prima può migliorare la seconda e non viceversa). Nulla è preferibile ad un buon governo, ed intende la democrazia. Lo sforzo per la ricerca scientifica lo induce a condannare il matrimonio e la genitorialità che distolgono l’uomo dalla ricerca. 
Da Democrito nasce secondo alcuni studiosi la ricerca scientifica come distinta da quella filosofica, perché si reputa assente qualsiasi finalità e qualsiasi origine (divina o mitologica o antropologica) e si ricercano spiegazioni meccanicistiche della realtà. Prova è data dall’ assenza di relazione tra l’etica e la fisica democritea.