HISTORICAL PHOTOS OF NAPLES

HISTORICAL PHOTOS OF NAPLES

HISTORICAL PHOTOS OF NAPLES


Gli Angloamericani per provocare un rivolgimento interno o un crollo sottoponevano l’Italia e la Germania ad incessanti e sempre crescenti bombardamenti aerei. Proprio per questo,la nostra citta’durante tutta la seconda guerra mondiale si trovò ad essere un obiettivo strategico importantissimo. Il porto di Napoli era infatti uno dei capolinea delle rotte marittime verso la Libia italiana, oltre ad essere uno dei principali centri industriali e di vie di comunicazione del meridione d’Italia. Importante anche la presenza della flotta militare, che nel porto di Napoli trovava ulteriori spazi che le mancavano a Taranto e La Spezia.

Il primo bombardamento aereo a Napoli (dopo diverse ricognizioni aeree) si ebbe il 1 novembre 1940 e da allora è stata la città italiana maggiormente danneggiata dai bombardamenti durante il secondo conflitto mondiale. Porto principale verso l’Africa e capolinea delle rotte marittime verso la Libia, Napoli e le sue zone limitrofe ospitavano industrie di interesse strategico, sia civili che militari come il silurificio di Baia, le officine Avio di Pomigliano,i Cantieri Navali, le industrie della zona di Poggioreale, l’ILVA di Bagnoli ed innumerevoli altre. Ben 24.000 bombe furono sganciate in circa 150 incursioni che provocarono 22.000 morti e distrussero 252.000 vani, pari al quaranta per cento del patrimonio abitativo della città.Il bilancio non fu definitivo, perché nel dopoguerra gli edifici continuarono a crollare fino alla fine degli agli anni ’50; dissesti e voragini si verificarono nel sottosuolo che era stato sconvolto dagli scoppi che ne avevano modificato in peggio l’assetto idrogeologico. I primi obiettivi furono essenzialmente il porto e le navi, con le appendici della zona industriale orientale, dei Granili, di San Giovanni a Teduccio e, ad occidente, di Bagnoli e Pozzuoli. È da notare che in questo periodo la città non era assolutamente attrezzata per resistere ad attacchi di tale genere: mancavano i rifugi e le uniche attività di contraerea erano quelle dei cannoni delle navi che occasionalmente si trovavano nel porto.



L’incursione seguente si ebbe l’8 gennaio 1941 e produsse danni anche nella zona di corso Lucci e al Borgo Loreto; tra le seguenti (sempre inglesi), importante fu l’incursione del 10 luglio, che distrusse la raffineria di via delle Brecce e quelle del 9 e 11 novembre che ebbero come bersaglio la stazione centrale, il porto e le fabbriche principali. Un altro raid, il 18 novembre, provocò molte vittime civili per il crollo di un palazzo su un rifugio in Piazza Concordia.

Nel 1942 ci furono sei incursioni, tuttavia proprio la parte conclusiva dell’anno vide un deciso cambio di strategia nella guerra aerea alleata: in pratica si passò dal bombardamento strategico, destinato principalmente agli obiettivi militari, alle infrastrutture e agli impianti industriali, ai bombardamenti a tappeto, fatti con bombardieri pesanti, distribuiti pressoché uniformemente su tutta la città e con molte più vittime civili; lo scopo era anche quello di fiaccare il morale della popolazione e indurla all’esasperazione e possibilmente alla rivolta. Ai bombardieri inglesi cominciarono inoltre ad affiancarsi (fino a diventare la forza preponderante) le forze aeree statunitensi e le incursioni diventarono anche diurne.Furono colpiti tre incrociatori nel porto (il Muzio Attendolo, l’Eugenio di Savoia e il Raimondo Montecuccoli),ma anche e soprattutto furono colpiti case, chiese, ospedali, uffici; tra gli altri fu colpito il palazzo delle poste, via Monteoliveto e la zona di Porta Nolana. Pochi giorni dopo, in un nuovo attacco fu completamente distrutto l’ospedale Loreto. Secondo fonti americane, solo in questo attacco ci furono circa 900 morti.

UNO DEI PERIODI PIU’ CUPI DELLA NOSTRA STORIA

Era cosi’ cominciato quello che può essere definito uno dei periodi più cupi della storia napoletana e che si sarebbe concluso solo dopo la fine delle cosiddette Quattro giornate di Napoli.La città era impreparata ad ogni evento bellico, con pochi ricoveri pubblici efficienti, tenuto conto che molti di essi erano vecchie cantine trasformate e protette da muri paraschegge
Il 7 dicembre vennero chiuse tutte le scuole della città, mentre cominciava un vero e proprio esodo per fuggire da Napoli. Il problema degli sfollati, dopo una prima parvenza di regolamentazione burocratica, divenne rapidamente ingestibile. In breve la città cominciò a riempirsi di rifugi antiaerei che, per la particolare conformazione del suolo della città di Napoli, vennero ricavati in gran parte nelle profonde cavità sotterranee della città: un moderno studio ne ha censiti oltre 300. Divennero inoltre rifugi antiaerei anche i tunnel cittadini, nonché le gallerie e le stazioni delle funicolari e del passante ferroviario.

I RICOVERI

La realizzazione dei ricoveri a Napoli, in virtù delle sue caratteristiche geologiche (ad eccezione della zona più prossima al mare ove il substrato incontrava la falda idrica a pochi metri) si è attuata in cavità preesistenti a notevoli profondità, diversamente dalle altre città ove i ricoveri generalmente furono realizzati in scantinati o comunque sotterranei relativamente vicini alla superficie. Le cavità del sottosuolo partenopeo erano artificiali, cioè prodotte dall’estrazione delle pietre da costruzione, coltivando il sostrato tufaceo che costituisce la base della città, ricoperto da uno strato di materiali vulcanici sciolti e di detriti.
Gli ingegnosi napoletani escogitarono immediatamente di renderle accessibili mediante scale, ove non c’erano, spianandone i pavimenti, riempiendo di materiale le cisterne svuotate dall’acqua, realizzando servizi igienici, impianti di illuminazione ed idrici, talvolta, nei complessi più grandi, anche il pronto soccorso, oltre a quanto rendeva i luoghi temporaneamente vivibili.
Queste opere furono di estrema utilità perché impedirono che le massicce incursioni aeree provocassero un’autentica catastrofe. Studi recenti hanno individuato quante ne furono utilizzate come ricoveri antiaerei durante l’ultimo conflitto. I dati sono stati estrapolati dalle due relazioni pubblicate dal Comune di Napoli a seguito di due commissioni istituite per lo studio del sottosuolo della città. Le cavità interessate dalla ricerca sono state censite nei due resoconti: nel primo ne contiamo 366 mentre nel secondo arriviamo a 561 .
A queste vanno aggiunte tutte quelle forme sotterranee con accessi diretti che furono, per la loro ubicazione, ampiezza ed accessibilità, luoghi privilegiati ove ricoverarsi con una buona sicurezza (gallerie stradali, ferroviarie, acquedotti, ex cave di tufo, ecc.). Il loro numero, 136, raggiunge quasi quello dei ricoveri attrezzati (149). A conti fatti, ben il 50% delle cavità sotterranee partenopee servì come ricovero antiaereo nell’ultimo conflitto.
Molti usavano però tunnel cittadini, come la galleria del IX Maggio (intitolata alla festa dell’Impero e, oggi, alle Quattro Giornate), nonché quella del Chiatamone dove si trasferì l’Arsenale Marittimo, oppure le gallerie della funicolare e della metropolitana: infatti, alcune stazioni della linea 2 divennero un sicuro rifugio durante i bombardamenti e molti napoletani devono la vita al loro “vecchio” metrò: ecco la testimonianza di una napoletana che si trovava nella stazione “Cavour” nel momento in cui la sua casa veniva distrutta dalle bombe.
Il suno delle sirene annunciava un imminente attacco e cosi’ scappando nei rifugi cominciavano i disagi, le paure e le sofferenze.

LA VITA NEI RICOVERI

Non poteva dirsi rosea: nonostante il tentativo dei capifabbricato e dei capiricovero di instaurare in ogni caso una condizione di normalità e di disciplina (così come dettato dalle circolari fasciste e dalle norme UNPA) il terrore, la sporcizia, il senso di impotenza, la progressiva fragilità delle misure di sicurezza, la coabitazione forzata per ore interminabili nella più assoluta promiscuità dettero ai coraggiosi napoletani un’acuta coscienza della grave situazione.Le norme ricordavano di tenere un contegno il più possibile calmo e all’altezza degli avvenimenti:“non correre, non gridare, non agitarsi”, ma il ritmo incalzante dei bombardamenti impediva le riparazioni e le manutenzioni: le sirene molto spesso non funzionavano per cui, a volte, si doveva ricorrere al suono delle campane o al suono delle sirene delle navi ancorate nel porto. Si arrivava sovente al ricovero quando già i velivoli nemici erano sul cielo della città, vanamente intercettati dalla DICAT (Difesa Contraerea Territoriale), in una condizione di assoluta precarietà, portando con sé ciò che era stato raccolto alla rinfusa, a volte il superfluo e l’ingombrante.
I ricoveri erano affollati e spesso maltenuti. Le norme UNPA imponevano per i ricoveri provviste d’acqua, di cloruro di calce, sabbia, pale, picconi, torce elettriche, pronto soccorso, viveri eccetera ma le attrezzature e le provviste diventarono sempre più insufficienti col precipitare delle sorti belliche. E’ facile comprendere come potesse diventare ancora più pesante la situazione in casi di emergenza per feriti, persone colpite da
malori improvvisi, partorienti. Se si consultano i registri dell’Ufficio Anagrafe del Comune di quegli anni si vedrà che fu molto elevato il numero dei napoletani che nacquero nei ricoveri, in un angolo il più possibile lontano dalla calca, dietro una tenda o un tramezzo.


LA PAURA DEI GAS

La popolazione dei ricoveri temeva, a ragione, soprattutto i gas: questi potevano essere lanciati a mezzo bombe o per irrorazione, ma le autorità assicuravano che per ogni gas (clorofosgene, ossido di carbonio, acido cianidrico, iprite e via correndo) “esiste un neutralizzante che ne annulla gli effetti” ma con l’andare del tempo mancarono le maschere antigas (che, invece, nel giugno del 1940 reperibili in molti negozi al prezzo di 35 lire) e poi anche una corretta conservazione delle stesse, mancarono poi anche l’iposolfito di sodio per preparare un telo impermeabile da collocare innanzi all’ingresso e il feltro, il grasso, lo stucco, le cimose per turare le fessure. Gli insofferenti dei ricoveri potevano allestire per sé una “una “camera-ricovero”: un locale privato nei piani inferiori dell’edificio, adibito a rifugio ostruendo le finestre o coprendole con cartoni e guarnendole con strisce di adesivo per diminuire le oscillazioni provocate dagli spostamenti d’aria.
Con questo si evitava la promiscuità ma si correva il rischio di morire bruciati da uno spezzone
incendiario. Le proteste della popolazione vertevano su vari problemi i ricoveri pubblici, col passare dei mesi e con l’incrementarsi dei bombardamenti diventarono a volte umidi e freddissimi, altre volte torridi ed opprimenti, mentre cominciarono anche casi di tifo e difterite. Nonostante tutto, però, i ricoveri furono di grandissima utilità, sistemati un po’ dovunque in città: nelle grotte tufacee di Posillipo o di Fuorigrotta, sotto le pendici dei Camaldoli, nelle spelonche delle Fontanelle, a Piazza S. Gaetano ai Tribunali, al Cavone, a Piazzetta Augusteo, ai Quartieri Spagnoli, nei tunnel stradali, nelle gallerie e nelle stazioni sotterranee della metropolitana. I napoletani ogni giorno sono costretti a sentire le deflagrazioni,vedono pennacchi di fumo, odono le ambulanze che vanno avanti e indietro, mentre i bombordamenti distruggono la loro citta’. Quelli del 1943 danneggiarono le strade del Corso Garibaldi, via delle Zite a Forcella, San Giuseppe dei Ruffi, San Giovanni in Porta, via Depretis, via Martucci, Piazza Amedeo, Parco Margherita, via Morghen, Santa Lucia, dove crollò l’albergo Russia con tutti i suoi ospiti. Fu distrutto il molo Pisacane, con i piroscafi Sicilia, San Luigi e Lombardia che ad esso erano attraccati. e anche via Medina dove, miracolosamente, restò illesa la chiesa di San Giuseppe, mentre fu raso al suolo l’attiguo albergo Isotta e de Genève.Quando però i cittadini uscirono finalmente alla luce del sole ebbero una brutta sorpresa: le bombe avevano devastato gran parte della loro tanto amata città