GLI ASOLANI

GLI ASOLANI

Laura Galetti PIETRO BEMBO GLI ASOLANI 1505


Amore come dolore

Il primo libro si apre con la proposta del tema – l’Amore – e delle coordinate spazio temporali dell’opera, che è impostata sulla struttura del trattato sotto forma di dialogo. Il primo a esporre la propria idea è Perottino, che descrive l’Amore come fonte di ogni dolore e preoccupazione.

LIBRO PRIMO [xxvii]                   Ma passiamo nel dolore, acciò che più tosto si venga a fine di questi mali.[1] Il quale dolore, quantunque habbia le sue radici nel disiderio, sì come hanno le altre due passioni altresì, pure tanto egli più et men crescie, quanto prima i rivi dell’allegrezza l’hanno potuto più o meno largamente inaffiare. Assai sono adunque di quegli amanti i quali, da una torta guatatura[2] delle lor donne o da tre parole proverbiose quasi da tre ferite traffitti, non pensando più oltre quanto elle spesse volte il soglian fare senza sapere il perché, vaghe[3]d’alcuno tormentuzzo de’ loro amanti, si dogliono, si ramaricano, si tormentano senza consolatione alcuna. Altri, perché a pro non può venire de’ suoi disii[4], pensa di più non vivere. Altri, perché venutovi compiutamente non gode, a questo apparente male v’aggiugne il continuo rancore et fallo veramente esistente et grave. Et molti, per morte delle lor donne a capo delle feste loro pervenuti[5], s’attristano senza fine, et altro già che quelle fredde et pallide imagini, dovunque essi gli occhi et il pensier volgono, non viene loro innanzi. A’ quali tutti il tempo, sì come né ancho il verno[6] le foglie a tutti gli alberi, la doglia non leva, anzi, sì come ad alquante piante sopra le vecchie frondi ne crescono ogni primavera di nuove, così ad alquanti di questi amanti duolo sopra duolo s’aumenta et, più che essi dopo le loro amate donne vivono, più vivono tormentati et miseramente di giorno in giorno fanno le loro piaghe più profonde, pure in sul ferro aggravandosi che gl’impiaga. Né mancherà chi, per crudeltà della sua donna dalla cima della sua felicità quasi nel profondo d’ogni miseria caduto, a doversi dilungare nel mondo per farla ben lieta si dispone. Et questi nel suo essiglio di niuna altra cosa è vago se non di piangere, niente altro disidera che bene stremamente essere infelice. Questo vuole, di questo si pasce, in questo si consola, a questo esso stesso s’invia. Né sole, né stella, né cielo vede mai che gli sia chiaro. Non herbe, non fonti, non fiori, non corso di mormoranti rivi, non vista di verdeggiante bosco, non aura, non fresco non ombra veruna gli è soave. Ma solo, chiuso e sempre ne’ suoi pensieri, con gli occhi pregni di lagrime, le meno segnate valli o le più riposte selve ricercando, s’ingegna di far breve la sua vita, talhora in qualche trista rima spignendo fuori alcun de’ suoi rinchiusi dolori, con qualche tronco secco d’albero o con alcuna soletaria fiera, come se esse lo ‘ntendessero, parlando et agguagliando il suo stato[7]. Ora daratti[8] il cuore, Gismondo, di dimostrarci che cosa buona Amor sia? Che Amore sia buono, Gismondo, daratti l’animo dicci dimostrare?[9]


COMMENTO

Perottino, l’amante infelice, nel giardino della regina spiega la sua idea di amore alle tre donne presenti con lui e i suoi compagni. Parlando delle sue esperienze infelici descrive anche quelle dei suoi compagni e delle dame, conquistandone i cuori. Nel libro oltre i passi di prosa come questi sono intervallati con ballate e canzoni; inoltre il tono lirico infonde pathos al brano. È evidente la concezione petrarchesca: l’amore come desiderio mai appagato. È una descrizione triste  e disperata, con un ritmo capace di rallentare nei punti giusti grazie a una punteggiatura pensata e collocata nei punti adeguati. Questa capacità ricorda molto anche lo stile di Boccaccio, che Bembo innalzerà come modello di scrittura in prosa nelle sue Prose della volgar lingua.

Amore come causa di ogni bene

Nel secondo libro, Gismondo espone la sua idea di amore “profano”, fonte di ogni bene e causa di tutte le cose buone. In questa seconda parte Gismondo dopo aver sostenuto con forza la sua tesi invita Perottino a dire il contrario.

LIBRO SECONDO [xx]  Né pure il nascere solamente dà a gli huomini Amore, o donne, che è il primo essere et la prima vita, ma la seconda anchora dona loro medesimamente, né so se io mi dico che ella sia pure la primiera, et ciò è il bene essere et la buona vita, senza la quale per aventura [10]vantaggio sarebbe il non nascere o almento lo incontanente nati morire. Perciò che anchora errarebbono gli huomini, sì come ci disse Perottino che essi da prima facevano, per li monti et per le selve ignudi et pilosi et salvatichi a guisa di fiere, senza tetto, senza conversatione d’huomo, senza dimestichevole costume alcuno, se Amore non gli avesse, insieme raunando, di comune vita posti in pensiero. Per la qual cosa ne’ loro disiderij alle prime voci la lingua snodando, lasciato lo stridere, alle parole diedero cominciamento. Né guari[11] ragionarono tra loro, che essi, gli abitati tronchi de gli alberi et le rigide spilunche dannate, drizzarono le capanne et, crescendo egli, crebbero l’arti con lui. Allora primieramente i consapevoli padri conobbero i loro figliuoli da gli altrui, et i cresciuti figliuoli salutarono i padri loro; et sotto il dolce giogo della moglie et del marito n’andarono santamente gli huomini legati con vergognosa honestà. Allhora le ville di nuove case s’empierono, et le città si cinsero di difendevole muro, et i lodati costumi s’armarono di ferme leggi. Allhora il santo nome della riverenda amicitia, il quale onde nasca per se stesso si dichiara, incominciò a seminarsi per la già dimisticata terra et, indi germogliando et cresciendo, a spargerla di sì soavi fiori et di sì dolci frutti coronarnela, che anchora se ne tien vago il mondo; come che poi, di tempo in tempo tralignando[12], a questo nostro maligno secolo il vero odore antico et la prima pura dolcezza non sia passata. In que’ tempi nacquero quelle donne, che nelle fiamme de’ loro morti mariti animosamente salirono, et la non mai bastevole lodata Alceste[13], et quelle coppie si trovarono di compagni così fide et così care, et dinanzi a gli occhi della fiera Diana fra Pilade et Oreste fu la magnanima et bella contesa[14]. In que’ tempi hebbero le sacre lettere principio, et gli amanti accesi alle lor donne cantarono i primi versi. Ma che vi vo di queste cose, leggiere et deboli alle ponderose forze d’Amore, lungamente ragionando? Questa macchina istessa così grande et così bella del mondo, che non con l’animo più compiutamente che con gli occhi vediamo, nella quale ogni cosa è compresa, se d’Amore non fosse piena, che la tiene con la sua medesima discordevole catena legata, ella non durerebbe, né havrebbe luogo stato giamai. È adunque, donne, sì come voi vedete, cagion di tutte le cose Amore; il che essendo egli, di necessità bisogna dire che egli sia  altresì di tutti i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione. Et perciò che, come io dissi, colui è più giovevole che è di più beni causa et di più maggiori, conchiudere hoggimai potete voi stesse che giovevolissimo è Amore sopra tutte le giovevolissime cose. Hora parti egli, Perottino, che a me non sia rimaso che pigliare? O pure che non sia rimasa cosa, la quale io presa non habbia?


COMMENTO

Gismondo in questo brano confuta la tesi di Perottino: secondo lui l’amore è sempre fonte di felicità e corrisposto. La scorrevolezza del passo dona un ritmo brioso all’idea del giovane, inserendo una sorta di Genesi resa possibile solo e soltanto da Amore. Spesso presenti nell’opera sono i riferimenti storici e mitici (Alcesti, Oreste e Pilade) che fungono da prove lampanti delle teorie sostenute. In tutto il secondo libro Gismondo cerca di far passare per assurda l’idea di Perottino domandandogli spesso di ribattere alle sue tesi.

Amore e vaghezze

Nel terzo e ultimo libro parla Lavinello: distingue tra amore sensuale e amore spirituale, decretando il primato dell’amore platonico, che riesce a elevare l’anima a una dimensione superiore.

LIBRO TERZO [xvi]       Et senza dubbio, figliuolo, se tu, il velo della mondana caligine dinanzi a gli occhi levandoti, vorrai la verità sanamente considerare, vedrai alla fine altro che stolto vaneggiamento non essere tutti i vostri più lodati disij. Che per tacere di quegli amori, i quali di quanta miseria sien pieni li perottiniani amanti et Perottino medesimo essere ce ne possono abondevole essempio, che fermezza, che interezza, che sodisfattione hanno perciò quegli altri anchora, che essi cotanto cercar si debbano et pregiare, quanto Gismondo ne ha ragionato? Senza fallo tutte queste vaghezze mortali che pascono i nostri animi, vedendo, ascoltando et per l’altre sentimenta valicando et mille volte col pensiero entrando et rientrando per loro, né come esse giovino se io vedere, quando elle a poco a poco in maniera di noi s’indonnano[15], co’ loro piaceri pigliandoci, che poi ad altro non pensiamo, et gli occhi alle vili cose inchinati, con noi medesimi non ci raffrontiamo giamai, et infine, sì come se il beveraggio della maliosa Circe preso havessimo, d’huomini ci cangiamo in fiere[16]; né in che guisa esse così pienamente dilettino so io considerare[17]: pogniamo anchora che falso diletto non sia il lloro, quando elle sì compiute essere in suggietto alcuno non si vedono[18], né vedranno mai, che esse da ogni parte sodisfacciano chi le riceve, et pochissime sono le più che comportevolmente non peccanti. Senza che esse tutte ad ogni breve caldicciuolo s’ascondono in picciola febbre che ci assaggia, o almeno gli anni vegnenti le portan via, seco le giovinezza, la bellezza, la piacevolezza, i vaghi portamenti, i dolci ragionamenti, i canti, i suoni, le danze, i conviti, i giuochi et gli altri piaceri amorosi trahendo. Il che non può non essere di tormento a coloro che ne son vaghi, et tanto anchor più, quanto più essi a que’ diletti si sono lasciati prendere et incapestrare. A’ quali se la vecchiezza non toglie questi disij, quale più misera disconvenevolezza può essere che la vecchia età di fanciulle coglie contaminare, et nelle membra tremanti et deboli affettare i giovenili pensieri? Se gli toglie, quale sciocchezza è amar giovani così accesamente cose, che poi amare quelli medesimi non possono attempati?[19] Et credere che sopra tutto et giovevole et dilettevole sia quello, che nella miglior parte della vita né diletta né giova? Chè miglior parte della vita nostra è per certo quella, figliuolo, in cui la parte di noi migliore, che è l’animo, dal servaggio de gli appetiti liberata, regge la men buona temperatamente, che è il corpo, et la ragione guida il senso, il quale dal caldo della giovanezza portato non l’ascolta, qua et là dove esso vuole scapestratamente traboccando. Di che io ti posso ampissima testimonianza dare, che giovane sono stato altresì, come tu hora sei; et quando ale cose, che io in quegli anni più lodar solea et disiderare, torno con l’animo ripensando, quello hora di tutte me ne pare, che ad un bene risanato infermo soglia parere delle voglie che esso nel mezzo delle febbri havea, che schernendosene conosce di quanto egli era dal convenevole conoscimento et gusto lontano. Per la qual cosa dire si può che sanità della nostra vita sia la vecchiezza et la giovanezza infermità; il che tu, quando a quegli anni giugnereai, vederai così esser vero, se forse hora veder no ‘l puoi.


COMMENTO

A conclusione dell’opera Bembo fa parlare Lavinello di amore platonico, l’unica via attraverso cui l’uomo può entrare in contatto con la dimensione del divino. Bisogna cercare di andare oltre ciò che si vede per poter godere appieno dell’amore che è dentro le cose e le persone. Durante l’esposizione della sua teoria è presente Caterina Cornaro, che ascolta attentamente le parole di Lavinello. Nella seconda parte del terzo libro il narratore parla dell’idea di amore che gli riferì un eremita: completo distacco dagli amori mondani e ricerca di una totale devozione e contemplazione di Dio.

PIETRO BEMBO

Nasce nel 1470 a Venezia e muore a Roma nel 1547. Di ricca famiglia, ha la possibilità di un’ampia educazione umanistica che lo porta alla scrittura di un’ancora più ampia serie di opere, in latino come in volgare. Tra queste spicca le Prose della volgar lingua, nelle quali Bembo afferma che i modelli per prosa e poesia debbano essere rispettivamente Boccaccio e Petrarca. Sempre in volgare sono Gli Asolani, opera scritta tra il 1497 e il 1502, dedicata a Lucrezia Borgia. Si tratta di un vero e proprio trattato in tre libri sull’amore, composti sia da prosa che da componimenti poetici. Questo può essere considerato uno dei suoi testi più importanti assieme alle Prose, in quanto oltre a essere un importante documento e una sorprendente prova delle sue abilità di scrittore, è anche espressione delle sue idee: Boccaccio e Petrarca come modelli (non esplicitate come nelle Prose ma riconoscibili nello stile) e naturalmente l’affermazione della supremazia dell’amore platonico e della devozione a Dio (Bembo era cardinale).

[1] Ma parliamo del dolore, per concludere l’argomento dopo aver trattato degli altri mali (d’amore)

[2] Sguardo sdegnato, torvo

[3] Desideroso

[4] Non può soddisfare i suoi desideri

[5] E molti che si intristiscono per la morte delle loro donne

[6] L’inverno

[7] Ragguagliando, esprimendo la propria condizione

[8] Avrai le capacità, il coraggio (lett. “Il cuore ti concederà, ti permetterà”)

[9] Gismondo, ti sarà concesso di dimostrarci che l’Amore è buono? (“dicci dimostrare” = di dimostrare)

[10] Per caso

[11] Molto tempo

[12] Degenerando, discostandosi

[13]Alcesti che per amore muore al posto del marito Admeto

[14] L’episodio secondo il quale Apollo ordina a Oreste di prendere la statua di Diana in Tauride e portarla nell’Attica. La sacerdotessa di Diana (Ifigenia) dopo il riconoscimento del fratello aiuta i due a fuggire in Attica con la statua.

[15] Si impadroniscono

[16] Da uomini ci trasformiamo in animali

[17] Né io riesco a capire in che modo esse [le vaghezze mortali]  possano essere di diletto

[18] Quando queste, fatte così, non vedono di essere

[19] Perché dovrebbe essere una sciocchezza che i giovani amino così fortemente le cose che non possono amare i più vecchi?

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