GIOVANNI VERGA Vita e Opere

GIOVANNI VERGA Vita e Opere

 

1840-1865  
Nato a Catania da una nobile famiglia, stu­diò privatamente con Antonio Abate, un sa­cerdote di idee liberali; allo sbarco di Gari­baldi in Sicilia, fondò il settimanale «Roma degli italiani» e si dedicò al giornalismo politico. Amore e patria (1857)

I carbonari della montagna (1861)

Sulle lagune (1863)

 

1865-1872 A Firenze  
Dopo avervi soggiornato saltuariamente, si trasferì a Firenze nel 1869. Frequentò Fran­cesco Dall’Ongaro (autore di novelle «rusti­cane»), Prati, Aleardi e Capuana. Una peccatrice (1866)

Storia di una capinera (1871)

 

1872-1893 A Milano  
Trasferitosi a Milano, frequentò gli «scapi­gliati» Boito, Praga, Tarchetti. Ampliò sotto questi stimoli il proprio orizzonte culturale; lesse Balzac e Flaubert, i Goncourt e Zola. Si accorse ben presto che la società di «Ban­che e imprese industriali» era frutto di pre­varicazioni e ingiustizie: di qui il progetto del ciclo «I vinti».

 

Nel 1884 diede inizio all’attività teatrale; il dramma Cavalleria rusticana, musicato da Mascagni, inaugurò il teatro verista. Una li­te col musicista per questioni di diritti d’au­tore amareggiò gli ultimi anni milanesi del­lo scrittore.

 

Eva (1873)

Tigre reale (1873)

Eros (1875)

I  Malavoglia (1881)

Il marito di Elena (1881)

Mastro don Gesualdo (1889)

 

Nedda (1874)

Primavera e altri racconti (1876)

Vita dei campi (1880)

Novelle rusticane (1883)

Per le vie (1883)

Drammi intimi (1884)

Vagabondaggio (1887)

I ricordi del capitano D’Arce (1891)

Don Candeloro e C.i. (1891)

 

La lupa; In  portineria (1898)

Cavalleria Rusticana (1896)

1893-1922 Il ritorno a Catania  
Fattosi più cupo il suo pessimismo, ripiegò, anche sul piano ideologico, su posizioni rea­zionarie, convinto dell’inutilità e pericolosi­tà dei tentativi delle masse – che egli ve­deva immerse in condizioni di inguaribile ignoranza – di riscattarsi dalle loro condi­zioni (fu tra i pochi intellettuali italiani che approvarono, nel ’98, la sanguinosa repres­sione di Bava-Beccaris). Scarsa l’attività let­teraria dell’ultimo periodo. Morì a Catania il 17 gennaio 1922. Dal tuo al mio (1906: prima uscito come romanzo)

La caccia al lupo

La caccia alla volpe (1902)

Rose caduche (1928)

Il Verga «verista»

Componenti culturali e «manifesti»

 

Come la critica ha rilevato fin dall’inizio, tre fattori concorse­ro a formare il retroterra del­l’arte verghiana, chiaramente espressi in altrettanti «manifesti»:

  1. l’evoluzionismo (prefazione ai Malavoglia);
  2. la questione meridionale (Fantasticheria);
  3. il naturalismo (dedica a S. Farina).

 

  1. L’evoluzionismo: da questa dottrina Verga derivò il senso della vita come lotta, individuale e di classe, «che produce la fiumana» del progresso. Ma l’ottimismo positivistico era estraneo a Verga, che, come leggiamo nella prefazione ai Malavoglia, vedeva il progresso attuarsi sempre a spese dei singoli, di quei «vinti che levano le braccia dispe­rate e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincito­ri d’oggi… che saranno sorpassati domani». Di qui l’idea, (espressa nello stesso «manifesto») del ciclo «I vinti», con esempi colti ad ogni livello della scala sociale: I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso. Di questi romanzi però so­lo i primi due videro la luce.

 

  1. La questione meridionale: le inchieste parlamentari sulla situazione del Mezzogiorno indussero lo scrittore a verificare proprio sulla sua terra l’i­neluttabilità delle leggi economiche e di classe, contro le quali riteneva inutile, anzi esiziale ribellarsi. In Fantasticheria, una novella di Vita dei campi, rievocando con un’amica dell’alta società una vacanza trascor­sa insieme ad Aci Trezza, tra piccola gente (i futuri personaggi dei Ma­lavoglia), attaccata con strenua tenacia ai suoi affetti e alla sua casa, Verga tesse l’elogio della «morale dell’ostrica»: guai a staccarsene, ché, allorquando uno «per brama di meglio» volle tentare la sortita dal suo ambiente, «il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi pros­simi con lui». Traspare chiaramente l’ideologia conservatrice di Verga, caratterizzata da una considerazione passiva, sebbene pietosa, delle pe­ne degli «umili».

 

  1. Il naturalismo francese: stimolando la coscienza critica di un processo di conquista stilistica già da tempo in atto, guidò lo scrittore alla formu­lazione del principio dell’impersonalità, l’unico che gli sembrava adeguar­si alla obiettiva realtà storico-sociale che andava scoprendo: «Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così comple­ta, che il processo della creazione rimarrà un mistero (…) allora avrà l’im­pronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del pec­cato d’origine» (dalla dedica a Salvatore Farina di L’amante di Grami­gna, in Vita dei Campi).

 

«Vita dei campi» (1880)

I temi …

 

  1. In Vita dei campi (nove racconti tra cui La lupa, Cavalleria rusticana, Fan­tasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, L’amante di Gramigna) il prin­cipio dell’impersonalità trova la sua prima espressione compiuta attra­verso la rappresentazione obiettiva, anche se umanamente partecipe, dei meccanismi che regolano la vita, delle lotte feroci che essa impone, dell’irriducibile destino di sconfitta che grava sui deboli.

 

  1. Tuttavia emerge ancora dalla raccolta la sacralità di certi principi elementari che Verga vede inviolati nel mondo contadino della sua terra: principi che si manifestano in modo ancora mitico, attraverso una sorta di arcaica liturgia. La Lupa, nella novella omonima, sa che il genero, col quale ha stretto un legame incestuoso, la ucciderà, ma quando vede di lontano la falce dell’uomo brillare al sole, va consapevole incontro alla morte, che accetta come necessaria conseguenza della sua aberrante passione. Anche in Cavalleria rusticana la legge dell’onore si mescola a quella del sangue, secondo un rituale antichissimo, residuo di una ci­viltà primitiva, agli albori della storia.

 

  1. Talvolta la lotta per l’esistenza si configura come conflitto – di matrice ancora romantica – tra l’individuo, originariamente buono, e la società corrotta e corruttrice, perché intessuta di un gioco di egoismi che ten­dono a soverchiarsi. Ma il «primitivo» verghiano, pur ribellandosi ai com­portamenti di questa società, è un vinto in partenza: Jeli il pastore si ribella al «signorino», che gli ha rubato la moglie e l’onore, e lo uccide, ma andrà in galera; Rosso Malpelo riesce in apparenza ad adeguarsi al­le leggi della giungla (e si chiede perché la madre di Ranocchio moren­te si disperi «come se il figlio fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana»), ma alla fine si rassegna alla sconfitta, e sparisce nella cava durante un’esplorazione che egli sa senza ritorno.

…e le tecniche 

La vera novità della raccolta consiste nella tecnica narrati­va,  legata  al  principio dell’impersonalità.

Vari i procedimenti:

 

  1. Il «discorso indiretto libero», o «parlato filtrato» o «discorso rivissuto», (erlebte Rede). L’autore conduce la narrazione adottando il punto di vi­sta o della comunità paesana (il «coro» paesano) o di un personaggio, regredendo alloro livello culturale e sociale: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi: ed aveva i capelli rossi perché era un ragaz­zo malizioso e cattivo».

 

  1. A tal fine, è frequente il ricorso ad una sintassi zoomorfa, con paragoni tratti dalla vita animale, cioè dal mondo contadino in cui i personaggi si muovono.

 

  1. A questo «piano della regressione» si contrappone e si alterna il «piano oggettivo» che definisce la realtà storica della situazione.

Le «Novelle rusticane» (1883) e la «roba»

Le leggi ferree dell’economia possono corrompere anche il mondo «naturale» e i suoi va­lori: a questa più desolata con­clusione giunge Verga nelle Novelle rusticane (Il reveren­do, Pane nero, Malaria, La ro­ba, Libertà ecc.), che si diffe­renziano dalla prima raccolta proprio per questa insistenza sul motivo della «roba» («lì guaio è che non siamo ricchi, per volerci sempre bene», dice un personaggio di Pane nero).

 

  1. In Libertà la speranza della roba (e cioè della terra, nella quale s’identi­ficava per la povera gente la «libertà» promessa dai garibaldini) travolge i contadini di Bronte in un’ubriacatura di sangue e di barbarica ferocia, che rivela un mondo sconvolto, sradicato da quelle leggi – frutto di una cultura e un costume patriarcali – che sembravano sorreggere, nono­stante tutto, il mondo dei Ma non meno spietata è la repres­sione di Bixio (l’episodio è storico), che infierisce con arresti e fucilazio­ni, finché tutto torna come prima: ai villani, di nuovo «col berretto in ma­no» di fronte ai padroni, rimarrà la persuasione che «all’aria ci vanno i cenci».
    Le dure leggi nelle quali il «positivista» Verga crede fino in fondo – rigi­de e implacabili leggi «naturali» – tracciano nella novella il diagramma di un’esistenza dominata dal dolore: cosicché la lotta per la sopravvivenza appare più disumana per la inutilità e pericolosità inerente ai ten­tativi di mutare le cose, specie da parte dei ceti subalterni, secondo l’au­tore atavicamente irresponsabili e inetti.

 

  1. Libertà, come le altre novelle della raccolta, ha una cadenza ampia e grave, ottenuta mediante un periodare singolarmente ricco, che svilup­pa in modo sinfonico, attraverso l’«indiretto libero» e il lessico popolareggiante, un gioco di «variazioni sul tema», che è comune a tutte le

 

Novità di Verga

Verga tra positivismo e incipiente decadentismo

  1. In un periodo in cui la lingua letteraria oscillava tra la restaurazione aulica di Carducci e il culto dannunziano della parola, Verga proponeva una soluzio­ne linguistica popolare, pur senza ricorrere al dialetto.
  2. In una temperie psicologica in cui la narrativa «rusticale» e «sociale» manife­stava accenti di sdegno e ambizioni di denuncia, ma non usciva in realtà da un patetico filantropismo (Dal l’Ongaro, Percoto, De Amicis, Fucini, Serao), Ver­ga rappresentava con scarna obiettività un mondo negato alla speranza, aspro e severo, chiuso nella sua quotidiana fatica di vivere.
  3. Diverso e autonomo il suo «verismo» rispetto al naturalismo francese: oltre che per i motivi più evidenti legati al diverso ambiente rappresentato, anche perché privo di quella spinta combattiva che era il presupposto dello zoliano «romanzo a tesi», e che poteva nascere solo dalla fiducia in una possibile evo­luzione positiva della società e della storia.
  4. Al contrario, l’opera di Verga, pur rappresentando sul piano letterario l’espres­sione più alta della cultura positivistica, perviene ad un’interpretazione dell’e­sistenza come solitudine – donde la chiusura sociale – e cosmica infelicità, che ha punti in comune con la visione decadente. 

 Da: F. GAVINO OLIVIERI, Storia della letteratura italiana ‘800 – ‘900, Nuove edizioni del Giglio, 1987, pp. 96-101.