Giovanni Pico della Mirandola Orazione sulla dignità dell’uomo

Giovanni Pico della Mirandola Orazione sulla dignità dell’uomo

 

Negli scritti degli Arabi ho letto, Padri venerandi, che Abdalla Saraceno, richiesto di che gli apparisse sommamente mirabile in questa specie di teatro che è il mondo, rispondesse che nulla scorgeva più splendido dell’uomo. E con questo detto concorda quello famoso di Ermete: “Grande miracolo è l’uomo, o Asclepio”[2][2].

Ora mentre ricercavo il senso di queste sentenze non mi soddisfacevano gli argomenti che in gran numero molti recano sulla gran­dezza della natura umana: esser l’uomo vincolo delle creature, familiare a quelle supe­riori, sovrano di quelle inferiori, interprete della natura per l’acume dei sensi, per l’indagine della ragione, per la luce dell’intelletto, intermedio fra il tempo e l’eternità e, come dicono i Persiani, copula anzi imeneo del mondo, di poco inferiore agli angeli secondo la testimonianza di David[3][3]. Grandi cose, queste, certo, ma non le più impor­tanti, non tali, cioè, per cui possa giustamente arrogarsi il privilegio di una ammirazio­ne senza limiti. Perché, infatti, non ammirare di più gli angeli e i beatissimi cori del cielo?

Ma alla fine mi parve di avere compreso perché l’uomo sia il più felice degli esseri animati e degno perciò di ogni ammirazione e quale sia infine quella sorte che, tocca­tagli nell’ordine universale, è invidiabile non solo ai bruti, ma agli astri e agli spiriti oltremondani. Cosa incredibile e meravigliosa! E come altrimenti, se è per essa che giu­stamente l’uomo vien proclamato e ritenuto un grande miracolo e meraviglia fra i viventi!

Ma quale essa sia, ascoltate, o Padri, e benigno orecchio porgete, nella vostra cortesia, a questo mio parlare. Già il sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato, secondo le leggi di un’arcana sapienza, questa dimora del mondo, quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze l’iperuranio[4][4], aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi[5][5], aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recata l’opera a compito, l’artefice desiderava che vi fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne l’immensità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo[6][6], pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da elargire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno ne rimaneva su cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti ormai erano pieni; tutti erano stati distribuiti, nei sommi, nei medi, negli infimi gradi.

Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno quasi impotente nell’ultima opera; non della sua sapienza rimanere incerta nella necessità per man­canza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso.

Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine».

O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere recano seco dal seno materno, come dice Lucilio, tutto quello che avranno. Gli spiriti superni o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali, sarà pianta; se sensibili, sarà bestia; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto un solo spirito con Dio, nella solitaria caligine del padre, colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose.