GIOVANNI PASCOLI VITA ED OPERE

GIOVANNI PASCOLI VITA ED OPERE

GIOVANNI PASCOLI VITA ED OPERE


Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Da ragazzo fu nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino, quindi nei licei di Rimini e di Firenze. Nel 1867, il padre, mentre tornava a casa su un calessino trainato da una cavalla storna, rievocata in una poesia, fu ucciso. Non si seppe mai chi fosse l’assassino ed il delitto rimase perciò impunito. Poco dopo la morte del padre il Pascoli perse anche la madre e le due sorelle: e la famiglia, composta prevalentemente di ragazzi, cadde nella miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla laurea, grazie ad una borsa di studio che gli permise di frequentare l’università di Bologna. Su questo fatto importante egli ha lasciato una commossa rievocazione nel racconto (quando adulto, molti anni dopo, il 9 febbraio 1896, Pascoli lo pubblicò su “Il Resto del Carlino”, come benvenuto mentre Bologna festeggiava il Carducci per il suo il trigesimo quinto anniversario dell’insegnamento in quell’ Univérsità):
“Ricordi di un vecchio scolaro”.

Certamente le vicende tristissime della sua famiglia, a cui egli assistette da fanciullo, e poi le difficoltà economiche e gli ostacoli da superare, sempre solo, lasciarono un solco profondo nel suo animo ed influirono sul suo carattere e conseguentemente sulla sua poesia.

Da professore insegnò a Matera e quindi a Massa ed a Livorno, ma, avendo assunto atteggiamenti anarchici, fu trasferito a Messina. Ma non fu un ribelle, anzi, alla maniera decadente si chiuse nel suo dolore, si isolò in se stesso, solo con le sue memorie e con i suoi morti. La sua ribellione fu un senso di ripulsa e di avversione per una società in cui era possibile uccidere impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse nella sofferenza e nella miseria.

Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, una certa passività di fronte ad esso: vi domina una malinconia diffusa nella quale il poeta immerge tutto: uomini e cose. Egli accetta la realtà triste come è, e si sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una trama narrativa e non è neppure descrittiva: esprime soltanto degli stati d’animo, delle meditazioni. E’ l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose che gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti.

LA VITA
1855     Nasce, quarto figlio, da Ruggero e da Caterina Allocatelli Vincenzi.
61–71   Studia nel collegio dei padri scolopi a Urbino.
1867     Il padre viene assassinato mentre torna a casa in calesse.
1868     Muore la madre
71–73   Frequenta il liceo a Rimini.
1873     Vince una borsa di studio – lo esamina Carducci – e si iscrive alla facoltà di lettere                    dell’Università di Bologna.
76-77   Anni di miseria perché ha perso la borsa di studio; trascura gli studi, frequenta                          l’anarchico Andrea Costa, si impegna in riunioni e attività politiche. Si iscrive                              all’Internazionale Socialista di Bologna
1879     Nel settembre viene arrestato per aver partecipato ad una dimostrazione di anarchici                ma viene prosciolto in dicembre.
1882     Si laurea in greco e con l’interessamento di Carducci ottiene un posto al liceo di                         Matera.
1884     È trasferito al liceo di Massa, dove qualche anno dopo chiama a vivere presso di sé le               sorelle Ida e Maria.
1891     Prima edizione di Myricæ .
1892     Vince la prima medaglia d’oro al concorso di poesia latina ad Amsterdam.
1895     Il matrimonio della sorella Ida lo sconvolge. Scrive alla sorella Maria da Roma, dove è “comandato” al Ministero della pubblica istruzione: “Questo è l’anno terribile, dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accesi furori d’ira, nel pensare che l’una freddamente se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de’ miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire, di tutto!”
97-03     Insegna letteratura latina all’Università di Messina, dove vive, ma ritorna spesso a Castelvecchio, presso Barga, dove ha affittato una casa di campagna che nel 1902 compra col ricavato dalla vendita di cinque medaglie d’oro conquistate al concorso di Amsterdam.
1904     Pubblica i Poemi conviviali e l’edizione definitiva dei Primi poemetti.
1905     Succede a Carducci nella cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna.
1906     Pubblica Odi ed Inni.
1909     Pubblica i Nuovi poemetti e le Canzoni di Re Enzio.
1912     Muore di cancro a Castelvecchio il 6 aprile

OPERE PRINCIPALI
1891 – Myricae (la fondamentale raccolta di versi esce nella I edizione)
1897 – Poemetti
1898 – Minerva oscura (studi danteschi)
1903 – Canti di Castelvecchio (dedicati alla madre)
– Myricae (edizione definitiva accresciuta)
– Miei scritti di varia umanità (di essi fa parte « Il Fanciullino »)
1904 – Primi poemetti
– Poemi conviviali
1906 – Odi e Inni
1907 – Canti -di Castelvecchio (edizione definitiva)
– Pensieri e discorsi 1909 – Nuovi poemetti
– Poemi italici
1911/12 – Poemi del Risorgimento – La grande proletaria si è mossa.

IL PENSIERO DI PASCOLI

Pascoli ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine ottocento.
La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel suo animo un’impressione profonda e gli ispirarono il mito del “nido” familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano.

Perduta la fede nella forza liberatrice della scienza, Pascoli fa oggetto della sua mediazione proprio ciò che il positivismo aveva rifiutato di indagare, il mondo che sta al di là della realtà fenomenica, il mondo dell’ignoto e dell’infinito, il problema dell’angoscia dell’uomo, del significato e del fine della vita.

Egli però conclude che tutto il mistero nell’universo è che gli uomini sono creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei loro rapporti, l’egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come fratelli nell’ambito della famiglia, della nazione e dell’umanità. Soltanto con la solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e il destino di dolore che incombe su di essi.

La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella poesia I due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo essersi picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo del mistero, dimenticano l’odio che li aveva divisi e aizzati l’uno contro l’altro, e si abbracciano trovando l’uno nell’altro un senso di conforto e di protezione, sicchè la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l’uno accanto all’altro e rincalza il letto con un sorriso.

LA POETICA

La poetica di Pascoli è espressa nella celebre prosa, Il fanciullino.
Questi ne sono i punti essenziali:

Vi è in tutti noi un fanciullo musico (il “sentimento poetico”) che fa sentire il suo tinnulo campanello d’argento nell’età infantile, quando egli confonde la sua voce con la nostra – non nell’età adulta quando la lotta per la vita ci impedisce di ascoltarlo (l’età veramente poetica è dunque quella dell’infanzia).

Infatti, è tipico del fanciullo vedere tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta; scoprire la poesia nelle cose, nelle più grandi come nelle più umili, nei particolari che svelano la loro essenza, il loro sorriso e le loro lacrime (la poesia la si scopre dunque, non la si inventa).

Il fanciullino è quello che alla luce sogna o sembra di sognare ricordando cose non vedute mai; è colui che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi alle nuvole, alle stelle, che scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose, che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alle nostra ragione (la poesia dunque ha carattere non razionale, ma intuitivo e alogico).

Il sentimento poetico, che è di tutti, fa sentire gli uomini fratelli, pronti a deporre gli odi e le guerre, a corrersi incontro e ad abbracciarsi, per questo la poesia ha in sé, proprio in quanto poesia una suprema utilità morale e sociale. Non deve proporselo però, in quanto la poesia deve essere “pura”, non “applicata” a fini prefissati; il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro…. La poesia ha una funzione consolatoria: fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobiliato. E per questo il poeta è per natura socialista, o come si avrebbe a dire umano.

X AGOSTO

(Nota della sorella: X AGOSTO. La notte di San Lorenzo, è la notte delle stelle cadenti. E ognuno può farne esperimento come ne ho fatto io. Guizzano in un attimo e dileguano. Il fatto che proprio nella sera di San Lorenzo alcuni uomini iniqui tolsero la vita, senza nemmeno un’ombra di causa che potesse spiegare tanta crudeltà, al nostro padre che lasciava otto figli, suggerisce al poeta l’ immagine che il cielo pianga le sue stelle su questa terra buia e malvagia”.

San Lorenzo, io lo so perchè tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perchè sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano invano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

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