GIORDANO BRUNO VITA

GIORDANO BRUNO VITA


nato a Nola nel 1545 o all’inizio del 1548 deceduto nel 1600.
VITA:Il personaggio nacque da un gentiluomo soldato di nome Giovanni e da Fraulisa Savolino nel comune di  Nola  in provincia di Napoli.
Il suo nome originariamente era Filippo, poi lo cambiò in Giordano quando entrò nell’ordine domenicano a soli 15 anni. Da lì ne uscì solo dopo 3 anni, nel 1576 poiché non seppe mantenere il segreto sui primi dubbi riguardanti i dogmi della trinità e quelli della incarnazione, in vero molto contrastanti con le sue nuove concezioni derivate da numerosi studi fatti su letture delle più disparate discipline.
In qualità di filosofo fu affascinato dagli scritti di Eraclito, Parmenide, Lucrezio, Plotino, Lullo, Copernico e il  Cusano, nonché dei filosofi pagani, cristiani, ortodossi ed eretici. Fu questo il principale motivo per cui fu portato ad essere “radiato” dall’ordine domenicano. Non è da meravigliarsi se fu per tutta la vita un incompreso e, come capita quasi sempre ai veri studiosi, preso di mira e richiamato più volte all’ordine, e che, proprio a causa di questi suoi molteplici interessi, che si ampliavano a macchia d’olio su ogni ramo della conoscenza sia esoterica che exoterica , fu tacciato di eresia e andò incontro ad un processo, che si svolse a Napoli (in contumacia) poichè egli fuggì a Roma nel convento della Minerva.
Sempre in quell’anno, mentre attendeva il corso del processo, depose l’abito religioso e prese a peregrinare per due anni fra la Liguria, il Piemonte e la  Lombardia.
In quel periodo, mentre  Insegnava astronomia a Napoli, stampava a Venezia l’operetta “dei segni dei tempi”. Nel 1579 si trovava già all’estero, da prima a chambéry, poi a Ginevra dove aderì al calvinismo, per il quale provò ben presto l’intolleranza.  Infatti fu anche lì processato e costretto ad umiliarsi per aver rilevato gli errori del de la Faye, quindi se ne parti pieno di rancore contro quello che lui chiamò “la multiforme eresia”.  Questa religiosità fu definita dal filosofo come “santa asinità” e fu da questa esperienza che egli trasse il rifiuto per ogni religione confessionale e l’aspirazione ad un rinnovamento morale e intellettuale che si fondasse su una religione ed un’etica razionale al disopra dei legami religiosi.
Comunque non tutte le città si adirarono contro il suo sapere, infatti la città di Tolosa gli conferì il dottorato delle arti e la cattedra da prima ordinaria e poi straordinaria di filosofia. Durante la sua permanenza in  Francia visse un periodo molto florido a causa di una notevole vena che lo portò a scrivere molti libri, ma fu proprio attraverso quei scritti che suscitò contrasti con gli ambienti aristotelici.
A Parigi pubblicò anche le sue prime opere che trattavano l’argomento della “mnemotecnica”, cioè l’arte o l’esercizio razionale della memoria che si fonda su un tipo di ginnastica mentale che si propone di aiutare il procedimento del ricordo mediante una serie di associazioni  di idee o più semplicemente mediante espedienti. (arte molto antica la cui ideazione fu attribuita al poeta greco  Simonide di Cereo (556 a.c. – 468 );   (in seguito scrisse la commedia in lingua italiana il ” candelaio”, la “De umbris idearum” , ” cantus circaeus” , e “sigillus sigillorum “.
Da Parigi andò in  Inghilterra al seguito dell’ambasciatore francese;  poi  sostò ad Oxford  dove insegnò e fu in relazione con la corte della regina Elisabetta . Fu proprio  in Inghilterra che pubblicò i suoi “dialoghi italiani”, ” la cena de le ceneri” , “de la causa principio e uno”, “de l’infinito”, “universo e mondi”, “spaccio de la bestia trionfante”, (tutti scritti nel 1584).
Ritornato nella città di Parigi, dovette ben presto lasciarla a causa di un “attacco pubblicò” contro i peripatetici. andò quindi in Germania ed insegnò presso Enberg  e Francofotte  sul Meno , dove terminò di scrivere i suoi poemi latini, riuscendoli a stampare. Fra i più importanti si annovera: la trilogia dei poemi latini: “de minimo”, “de monade”, e l’ampia opera “de immaginum compositione”. Dopo un breve soggiorno a  Zurigo rientrò in  Italia, chiamato a  Venezia dal patrizio Mocenigo che desiderava istruirsi sulla”mnemotecnica” e nelle arti magiche.
Fu così che credendosi al sicuro, sotto la protezione della Repubblica Veneta subbì una nuova beffa : fu denunciato dal Mocenigo e arrestato il 23 maggio 1592 dall’inquisizione di Venezia dove egli si sottomise. (i peccati erano di “ripudio della transubstanziazione ed eresia novaziana sulla trinità (verbale del 24 agosto 1599) e due peccati filosofici: “(dal verbale del 24 marzo 1597: “la pluralità dei mondi e la teoria dell’anima presente nel corpo come nocchiero nella nave”.
Il Bruno credette di trovare una differenza fra il tribunale veneto e quello romano, pensando che questo volesse non solo la ritrattazione sul terreno della fede, ma la sconfessione della sua stessa filosofia.
Interessante è qui sottolineare il suo comportamento attraverso una sentenza del 15 febbraio 1599 allorquando il filosofo, dopo anni di resistenza, vacillato si disse pronto ad abiurare le otto proposizioni e qualsiasi altre, forze anche in una scrittura del 5 aprile le avrebbe in parte revocate; ma nei memoriali ed interrogatori successivi stette fermo a nulla ritrarre. Egli asserì che non si vuol ravvedere poiché non ha né sa di che ravvedersi.
Nel 1593 Giordano Bruno fu trasportato a Roma nelle carceri dell’inquisizione mentre i processi precedenti, come i suoi libri furono dati in esame alla commissione generale. Il nuovo processo si tirò alle lunghe per circa quasi otto anni.
Lungamente e più volte interrogato, rifiutò di ritrattare le sue dottrine: fu allora condannato come eretico ed arso vivo in campo dei fiori a Roma la mattina del 27 febbraio del 1600.
La fermezza e l’intrepidezza dimostrata risultò molto evidente dalla famosa frase che egli disse prima di salire sul rogo: “tremate forse più voi nel pronunciar la sentenza che io nel riceverla”. Tale frase dimostra come l’uomo non fu solo un martire, ma soprattutto una persona dal libero pensiero, e come tale fu celebrato nel corso dei secoli.
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PENSIERO FILOSOFICO:
Il filosofo portò sin da principio la sua indagine sul mondo naturale e rinunciò ad ogni speculazione teologica che si presentasse lontana o al di fuori di essa. Egli asserì che: “La natura o è Dio stesso o è il pensiero filosofico quale virtù Divina che si manifesta nelle cose stesse”. Per Bruno   Dio è l’artefice interno ed è causa  non solo intrinseca , ma anche estrinseca in quanto operando nella materia non si  moltiplica col moltiplicarsi delle cose da lui  generate. Egli non solo anima  e informa il mondo, ma lo dirige e lo governa”.
Ciò che esaltà ed accende  l’impeto lirico di Bruno e costituisce il tema  della sua speculazione è l’infinità; ad essa sono dedicati “la cena delle ceneri”, il “de l’infinito”, “universo e mondi” e “de immenso”, che Bruno ritiene il culmine e la conclusione della sua trilogia latina.
La difesa che Bruno fa nella “cena” del sistema copernicano è tutta mossa dalla possibilità che questo sistema offre di intendere ed affermare l’infinità del mondo. Gli argomenti in favore dell’infinito nel “de l’infinito” sono nuovi: rimontano ad Ockham dove all’infinita potenza della causa debba corrispondere l’infinità dell’effetto.
Mentre, al contrario, per Aristotele,  l’infinità è considerata “incompiutezza”, cioè l’impossibilità di intendere la perfezione del mondo altrimenti come finitezza per il Bruno, invece perfetto non è ciò che è completo e chiuso in proporzioni determinate, ma ciò che comprende “Innumerevoli Mondi”, e quindi ogni genere di specie, ogni misura, ogni ordine e ogni potere. La vera  e più alta perfezione, è l'”Infinità dell’intelletto”, cioè dell’anima e della vita, che Bruno ritenne si estendesse  oltre ogni limite  definito in tutti gli innumerevoli mondi.
E’  senza dubbio l’accento nuovo che trasforma l ‘infinita grandezza  in un’infinita potenza di vita  e di intelligenza; e qui è il fondamento di quella religione dell’infinito, in cui vengono a fondersi per Bruno l’amore della vita e l’interesse della natura.
Tutti i suoi molteplici interessi ebbero una nota fondamentale comune: l’amore della vita nella sua potenza dionisiaca e nella sua espansione.  Quest’amore della vita gli rese insopportabile il chiostro,  che chiamò in un sonetto “Prigione Angusta e Nera” . Egli  nutrì un odio inestinguibile per  tutti quelli  che facevano della cultura una pura esercitazione libresca  distogliendo lo sguardo dalla Natura e dalla Vita.  Lo stesso amore della vita fu rappresentato  nella sua commedia il “Candelaio” con realismo spregiudicato proprio dell’ambiente napoletano dove aveva trascorso la giovinezza Nel testo lo scrittore fustigò  i   pedanti, i creduloni, e gli imbroglioni,  ma senza umorismo o distacco, ma con un compiacimento esasperato dello spettacolo della  trivialità e della miseria morale che  si spiega soltanto con  l’attaccamento alla realtà viva, qualunque essa fosse .
Dall’amore della vita scaturì,  il suo interesse  per la natura;  che si esaltò in un impeto lirico e religioso che trovò spesso espessione nella forma poetica. Bruno considerò la natura tutta viva e animata; e, nell’intendere questa universale animazione, nel proiettare la vita nell’infinità  dell’universo, pose il termine più alto del suo filosofare.
Da qui la sua predilezione per la magia che si fonda appunto sul  presupposto del “Pampsichismo Universale” e vuol conquistare d’assalto la natura come  si conquista un essere animato.
Il naturalismo del Bruno è in realtà una religione della natura, impeto lirico della natura, esaltazione e furore eroico. L’opera del Bruno segna certamente una battuta d’arresto nello sviluppo del naturalismo  scientifico, ma espime nella forma più appassionata,  e potente.  Quell’amore della natura che fu indubbiamente uno degli aspetti fondamentali del Rinascimento.
Infatti Bruno fa sua l’idea dominante del Rinascimento, espressa nella forma più rigorosa da Pico della Mirandola  di una sapienza originaria che, tramandata da Mosè,  è stata svolta,  accresciuta e chiarita da filosofi,  dai maghi e dai teologi sia del mondo orientale che del mondo classico e cristiano.
Egli ammise la possibilità che quella sapienza originaria potrebbe in alcuni punti essere riveduta, poichè “noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età dei i nostri precedessori”. E, attraverso il tempo il giudizio si matura, almeno che non si rinunzi a vivere negli anni propri e si viva da morti. Egli ritenne che questo sviluppo storico della verità sia in realtà un rinascere e un rigermogliare della verità antica.
La filosofia di Bruno Campanella deve essere collocata sullo sfondo di due grandi avvenimenti storici: la rivoluzione copernicana e la riformaprotestante. Ciò che fa da filo conduttore nelle diverse fasi del pensiero del domenicano è l’idea dell’infinità del mondo, della sua unità e animazione : quindi una cosmologia antitolemaica e antiaristotelica carica di rifiuto verso l’autoritarismo dottrinario della chiesa e della filosofia scolastica.
all’universo aristotelico finito e diviso (le sfere CELESTI di sostanza differente dal mondo subnunare, – i motori immobili-), bruno vi oppose la concezione di “un universo infinito ed unitario”. tale concezione fu esposta nel “de la causa” dove, dopo aver ricondotto i concetti di causa e di principio a quello di uno, egli non solo rifiutò la dottrina aristotelica delle quattro cause, riducendo la causa finale e quella formale, alla causa efficiente asserendo che: l'”intelletto universale agisce su ogni cosa”. Inoltre egli riporta anche la forma e la materia ad UN essere e ad una radice” la forma e l’anima universale la cui principale facoltà e’ l’intelletto , il quale muove la materia dal di dentro, come “fabbro del mondo” , che dall’intelletto del seme fabbrica ogni corpo. esso e’ talmente intrinseco alla materia da far si che essa stessa, come potenza universale diventi energia produttrice che manda fuori le forme dal proprio seno e se ne’ riveste.
per Bruno, quindi forma e materia non sono due sostanze , ma piuttosto due aspetti dell’unica sostanza, la natura di cui il filosofo non cessa di celebrare il carattere divino, la dottrina eleatica dell’uomo tutto e’ paradossalmente unita a quella del flusso eracliteo e della ruota delle nascite di Pitagora, nel quadro di un panteismo dinamico, cui sono frammisti elementi di platonismo rinascimentale e di tradizione ermetica.
Nonostante il fondamentale monismo e panteismo, troviamo in bruno anche una dottrina sulla trascendenza: al di la’ della mente insita nelle cose, che fa tutt’uno con la natura e di cui si occupa la filosofia, si dà una mente sopra le cose, che nella sua essenza sfugge al pensiero filosofico. in questa dottrina si sono visti di volta in volta l’irrinunciabilità alla dimensione del trascendente propria di un pensiero pur sempre religioso, oppure “residui” di tradizione, omaggi verbali all’ideologia dominante.
Bruno esalta il “furioso”, cioè il ricercatore eroico della verità che non obbedisce ad altri impulsi, fuorché a quelli razionali, e giunge  a contemplare la natura nei suoi caratteri di unità ed infinità identificandosi con essa.  In questa attitudine contemplativa si superano tutte le distinzioni e i numeri, tutti quegli strumenti del conoscere che in realtà inquinano “la fonte della vera conoscenza”, la quale non sarebbe altro che l’intuizione diretta del principio unico dal quale tutte le specie e i numeri si dipartono: la monade.
Tale principio divino , però, non si manifesta solo in questo stato di essere a cui pochi giungono, ma anche nelle virtù civili di cui Bruno tessé l’elogio, specialmente nello “spaccio della bestia trionfante”; in quest’opera primeggia l’esaltazione del lavoro come attività, che assoggettando la materia all’intelligenza, contunua nel regno dell’uomo la mirabile arte plasmatrice della natura.
Egli considera la religione un sistema di credenze  ripugnante e assurda, ma ne riconosce la positività  e l’utilità  ” I Rozzi popoli che denno esser governati”, ma le rifiuta qualsiasi valore. Essa è un insieme di superstizioni direttamente contrarie alla ragione e alla natura:     vuol  far credere che  è vile e scellerato ciò che alla  ragione pare eccellente, che  “la legge naturale è una ribalderia,” che la natura e la divinità  non hanno lo stesso fine, che “la Giustizia Naturale e la Divinità sono contrarie,  che la filosofia e  e la magia sono pazzie, che ogni atto eroico  è vigliaccheria e che l’ignoranza è la più bella scienza del mondo”.
La religione che Bruno difende, è una religione puramente razionale o  che mira a portare l’uomo alla natura mettendolo in contatto con i suoi poteri  magici, quindi,  a divinizzarlo con essa. Egli asseriva che la religione era da valutare alla luce di un credo naturale che per lui sarebbe stato un tutt’uno con la filosofia,  e dalla filosofia Bruno s’aspettava il rimedio ai mali dell’umanità  del suo tempo.
Si riporta che egli disse che Gesu’ era un tristo”. Un altro aspetto assai interessante che il filosofo prese in considerazione fu il problema della libertà. Egli asserì che il termine più alto della speculazione filosofica non è l’estasi mistica di plotino, il congiungimento con dio, ma la visione magica della natura nella sua unità.
Un’intrinseca necessità regola l’azione del “dio-natura”, il quale non può volere/desiderare in ogni caso che l’ottimo e quindi non conosce l’indecisione e la scelta;  ma ciò non vuol dire che dio non agisca liberamente; significa piuttosto che in lui necessità e libertà si identificano. Si potrebbe asserire che egli non agirebbe liberamente nel caso che agisse diversamente da come richiede la necessita della natura. non si può confrontare la libertà perfetta di dio con quella imperfetta dell’uomo e farla consistere nella scelta indifferente tra possibilità diverse e contingenti.
ciò accade all’uomo solo per lo stato di ignoranza e di imperfezione in cui si trova, stato che gli impedisce di conoscere il meglio.
se la libertà umana fosse perfetta, sarebbe come quella di dio: coinciderebbe cioè con la necessità della natura.
un approfondimento in tal senso è dato da bruno nello “spaccio” dove prospettandosi la domanda in che modo le preghiere di giove possano influire sui decreti del fato che è inesorabile, si risponde che il fato stesso vuole che lo si preghi di fare ciò che esso ha stabilito di fare. egli asserisce: “ancora il fato vuole questo, che benchè sappia il medesimo giove che quello è immutabile, e che non possa essere altro che quel che deve essere e sarà , non manchi di incorrere per cotali mezzi il suo destino”.
la vera libertà umana dunque si identifica con con la necessità naturale cioè cn il fato e consiste soltanto nel riconoscimento e nell’accettazione del fato stesso.
la preghira è spesso un segno di futuri effetti favorevoli e quasi la condizione di questi aspetti, poiché il f a t o manifesta la sua necessità nella volontà stessa degli uomini e non al di fuori di essa. ” la vera libertà” prosegue il filosofo ” è dunque quella divina che si identifica con la necessità. la libertà che è contingenza e scelta arbitraria non è un pregio, ma solo una conseguenza dello stato di imperfezione in cui l’uomo si trova rispetto a dio.”
secondo lo studioso nell’età dell’oro, quando l’uomo viveva in ozio, non era più virtuoso delle bestie, e forse anche più stupido di molte di esse. Egli aggiungeva:
:”la povertà, la necessità, e le difficoltà gli anno acuito l’ingegno, gli  hanno  fatto inventare le industrie e scoprire le arti. e tuttora suscitano dalle profondità dell’intelletto umano nuove e meravigliose invenzioni”, e, solo così l’uomo è veramente e si conserva “dio della natura” (spaccio, iii, in opp. it. ii, 152).
Come si è già accennato, neanche il calvinismo, che lo studioso conobbe a Ginevra, si salvò dalla sua condanna . Questo gli apparve più intransigente e dogmatico e ancor più pericoloso e fanatico di quello  cattolico in quanto negherebbe la libertà è il valore delle opere buone introducendo lo scisma e la discordia fra i popoli .
Il suo processo, le torture e la sua condanna costituirono l’esito tragico di una vita interamente dedicata ad un idealistico progetto, non  privo di illusioni nei confronti di un ambiente che non poteva accoglierlo .