Giacomo Leopardi le Operette Morali riassunto

Giacomo Leopardi le Operette Morali riassunto

Giacomo Leopardi le Operette Morali riassunto


Le operette morali sono dialoghi o prese continuate, morali in quanto esprimono attraverso finzioni fantastiche, o meglio, allegoriche, la meditazione leopardiana sull’uomo e sul suo destino, e soprattutto sulla dolorosa situazione del suo animo. Continuamente proteso nel sogno di una felicità impossibile e sommerso nell’angoscia d’un inevitabile disinganno. Nell’edizione definitiva del ’45 i componimenti sono ventiquattro. Il libro si apre con la storia del genere umano, una vasta allegoria nella quale il poeta rappresenta i successivi momenti della sua storia spirituale, e si conclude col Dialogo di Tristano e di un amico, che esprime una virile attesa della morte, solo rimedio all’inutile miseria del vivere. Letterariamente, il Leopardi si propose nelle Operette, un ideale di prosa artistica degna della grande prosa classica, soprattutto greca, applicata ad a un contenuto moderno. Era partito da intenzioni satiriche, <>; o anche <>. Egli sottolineava così la sua solitudine e il coraggio con cui ricercava il vero, fra gli uomini che preferivano confortanti ma false illusioni. Dal ’23 al ’27 il Leopardi, tranne rarissime eccezioni, non scrive più poesie, immerso in una sorta di scorata fissità spirituale, anche se , con significativa contraddizione, proprio in questi anni tenta la sua avventura nel mondo, che si concluderà col fallimento e l’ultimo soggiorno re catanese. Anche per questo le Operette appaiono un bilancio spirituale, una constatazione lucida e angosciata dell’ineliminabile infelicità. Nonostante l’amarezza del disinganno, s’intravede ancora in queste pagine la nostalgia di una felicità, riconosciuta assurda dall’intelletto e desiderata tuttavia con tutto l’essere. Non c’è tuttavia nelle Operette vera cordialità. Si sente che qui il Leopardi ha accettato il suo destino di uomo solo, ripiegato dolorosamente su se stesso, escluso, per la sua stessa lucida e spietata chiaroveggenza, da ogni speranza. Le Operette sono opere intimamente autobiografiche e lirica, un doloroso monologo. Se dialogo c’è, è quello dell’uomo col suo destino, con la natura, con la felicità sognata e impossibile: ma è meglio dire che esso porta alla scoperta dell’impossibilità d’un dialogo autentico. Mentre il poeta si propone le domande sul perché della vita e dell’universo, sa che esse sono destinate a rimanere senza risposta. La moralità consiste pertanto nel guardare in faccia la propria disperazione, gli spazi sterminati dell’universo incomprensibile, e la propria angoscia e nel proclamare, pur nella sconfitta, la propria dignità di uomo, che non si rassegna al buio che circonda la vita.

Dialogo di un folletto e di un giorno

Vero <>, venato d’ironia corrosiva, è questo dialogo, scritto nel ’24. Parlano un folletto e uno gnomo, in un mondo deserto e silenzioso, dal quale la razza umana è per sempre sparita, distrutta da guerre, epidemie e svariati accidenti. E tuttavia l’universo continua impassibile il suo moto: quell’universo che l’uomo, nella sua presunzione, ha sempre ritenuto fatto per sé, per servire alla sua esistenza di re dominatore del creato. Questo è il vero centro satirico dell’operatta, che ha una certa ricchezza d’invenzioni comiche: lo svolgimento del dialogo è arioso e leggero, i due favolosi interlocutori e l’ironia delle loro battute sono come intensificate dal confronto con un mondo defunto.

Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez

Sulla distesa sterminata dell’oceano, nella quiete della notte solitaria, Colombo parla dell’amico Gutierrez. Le speranze che l’avevano indotto all’ardita navigazione, la opinione, sulla quale ha messo a repentaglio la sua vita e dei suoi uomini sembrano ora fallaci, ed egli è soverchiato dal sentimento dell’ignoto. Questa la <> iniziale del dialogo. Quel cielo, quel mare, quegli uomini sperduti divengono il simbolo della condizione umana. L’uomo è solo, nella navigazione perigliosa che è la vita, in un universo indecifrabile. La sua mente che ne indaga le ragioni e le cause si riconosce smarrita. Rimane tuttavia insopprimibile lo spirito della vita, un istinto che è, anch’esso, mistero eterno dell’essere nostro. Perché se la noia e il dolore dominano l’esistenza, c’è pure in essa l’anelito alla felicità,a una pienezza di essere, che la ragione scopre illusoria e tuttavia insopprimibile. Ben vengano, dunque, la navigazione, il balzo nel buio e nell’ignoto: quel rischio che solo, può dare l’illusione di ricominciare a vita in uno slancio costruttivo, facendo per un attimo scordare la consapevolezza del nulla. Il mare, che, all’inizio, presenza sottintesa e pure evidente, aveva portato il senso del dubbio, dell’inesplicabile, porta ora una voce di speranza. Un’aspettativa, soprattutto; ma solo nell’attesa si può vivere l’unica felicità concessa, creare, cioè, con l’immaginazione una realtà conforme alle esigenze profonde dell’animo.

Dialogo della Natura e di un Islandese

L’importanza di questo dialogo, scritto nel ’24, consiste nel fatto che il Leopardi vi risolve in forma per lui conclusiva il problema della relazione fra l’uomo e la natura e della radicale infelicità umana. Ma ora, svolgendo più coerentemente le premesse del suo pensiero, concepisce la natura, come una potenza cieca, meccanica, fatale, intesa solo al perenne ciclo di metamorfosi d’un universo incomprensibile. Essa appare indifferente alla sorte dei suoi figli; non può, ma forse non vuole, aiutarli a conseguire quella felicità che pure ha ispirato in loro come anelito vitale insopprimibile. Il centro lirico del dialogo è nel succedersi delle domande vane dell’islandese e nelle risposte della natura, che non spiegano nulla, ma ribadiscono con agghiacciante indifferenza l’infelicità fatale dell’uomo, la sua solitudine, E sull’ultima domanda dell’Islandese – perché della vita, dell’universo – si stende il silenzio: l’uomo appare sommerso dal solido nulla.

Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie

E’ notte, nel gabinetto scientifico del Ruysch, si destano allo scadere del grande anno matematico, le mummie, e cantano un coro in cui si esprime l’arcana fissità del non essere; di una vita, cioè, spogliata d’ogni attesa , d’ogni speranza, d’ogni dolore. E’ quella che il L immagina dopo la morte: un puro esistere senza tempo né mutamento, un rifluire per l’eternità nel ritmo imperscrutabile dell’universo. Che è poi il vero protagonista del coro altissimo e sgomento, privo di immagini, raggelato in un senso di assenza totale, di segregazione dell’essere. Il fantasioso esistere dei morti diviene il simbolo della vita concepita come un nulla fuso con quello della morte, una suprema frustrazione, perché avversa all’ansia di felictà e d’una ragione che dia un senso alla vicenda dell’uomo. Poi entra in scena Ruysch e pone ai morti delle domande. Chiede se fù doloroso il momento del trapasso, ed essi rispondono che no, fu anzi un languore dei sensi, simile al piacere. Ma quando il vivo pone una nuova domanda, sull’essenza e il significato della morte, il dialogo si interrompe. Dopo il grande coro, l’operetta ha un tono discorsivo, fra il macabro e il grottesco: ma la poesia iniziale ha creato intorno al dialogo un’atmosfera <>, sì che l’ironia, presente in molti battute e nella situazione intera, appare la condizione stessa del vivere come assurdo.

Cantico del gallo silvestre

E’ l’ultima delle venti operette scritte nel ’24,e ha il carattere di una conclusione della raccolta. Ne esprime infatti i temi centrali: l’<>, il senso della vita come privazione e come nulla, la fatale infelicità dell’uomo. Si potrebbe dire che questo sia il cantico della morte, intesa come unica possibile conclusione dell’esistenza assurda dell’uomo e di tutte le sue cose. Il gallo silvestre, ridestando gli uomini alla vita, li ridesta alla coscienza di un apparire ineluttabile, di un lento morire ora per ora. E’ lontana dal tessuto di questa operetta ogni forma di argomentazione filosofica. Le singole conclusioni si snodano come una vasta sinfonia di dolore. Essa si rapprende a tratti in immagini nude e grandiose, come quella che accenna alla futura fine dell’universo, al silenzio nudo e alla quiete altissima che empiranno lo spazio immenso. Di qui viene al Cantico il suo carattere di poesia in prosa, il suo tono fondamentalmente lirico.
Dialogo di Plotino e di Porfirio
E’ questa la conclusione del dialogo, scritto nel 1827, in cui il Leopardi immagina che Plotino, un grande filosofo dell’Antica Grecia, dissuada il discepolo Porfirio dall’intenzione di uccidersi, concepita da questo in seguito all’acquisita persuasione dell’assoluta vanità della vita. Plotino (e con lui il poeta) è consenziente con le disperate conclusioni di Porfirio, ma tuttavia lo esorta a vivere, in nome di una saggezza più vera e profonda, fondata non sulla ragione, ma su un senso dell’animo, che ci fa sentire uniti agli altri uomini, nostri compagni di pena, da un fraterno legame d’amore e reciproca pietà. Il suicidio appare dunque al poeta, nonostante il suo pessimismo radicale, come un atto disumano, contrastante con la vita degli affetti in cui consiste la vera umanità.


Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere

Un anno s’è concluso, un altro sta per sorgere: una pausa nel grigio flusso del vivere, aperta alla meditazione del passato e insieme alla speranza, all’attesa. S’incontrano e parlano per via un venditore d’almanacchi, umile popolano, e un <>, uomo meditativo e pensoso. Sarà quest’anno più felice di quello passato? Certo, lo speriamo; ma dall’altra parte quale felicità sogniamo, se pur mai l’abbiamo conosciuta? Nessuno vorrebbe, e su questo i due interlocutori sono d’accordo, rivivere uno degli anni trascorsi; vorremmo qualcosa di nuovo, d’ignoto in fondo, e d’imprevedibile, perché <> la sola che può essere veramente aperta alla speranza, all’illusione. Quest’agilissima operetta, scritta nel 1832, ripropone, nella sua struttura apparentemente elementare, il nucleo centrale del pensiero leopardiano. La felicità consiste soltanto nella vaga aspirazione a una gioia ignota, nell’attesa, che continuamente risorge, nonostante la consapevolezza amara del vero. Si è insistito sull’ironia, per quanto bonaria e sorridente, del <> nei confronti dell’umile e ingenuo venditore: ma in realtà le due figure appaiono quasi uno sdoppiamento dell’anima del poeta. Da un lato, la ragione che indaga, dall’altra la vita che vuole essere comunque vissuta. L’ironia nasce dalla stessa <> dell’uomo nel mondo, consapevole del suo dolore, del nulla delle cose e tuttavia portato a sognare la felicità.
Dialogo di Tristano e di un amico
Il dialogo, scritto nel 1832, è l’ultima delle Operette morali. E’ fieramente e sarcasticamente polemico in tutta la parte(di gran lunga la maggiore) che abbiamo omessa. Essa richiama alla mente la nuova, combattiva poesia leopardiana, nata dopo i grandi sottili idilli e conclusa con la Ginestra, nella quale il poeta si pone in netto contrasto con le ideologie ottimistiche del proprio tempo e proclama la sua concezione con la certezza che nasce da una fede incrollabile. Domina, in queste pagine, il disgusto contro le accuse dei suoi detrattori, soprattutto contro coloro che avevano interpretato il suo pessimismo come un rifesso dei suoi patimenti fisici. Ma alla fine, nella parte che riportiamo, il poeta si solleva dagli effimeri contrasti con gli uominia una confessione lirica altissima, espressione della dignità di un’anima, sola e impavida davanti al destino. Questa pagina è un distaccato addio alla vita e una coraggiosa contemplazione della morte, che contraddistingue, poi, tutta la produzione leopardiana di questi anni,dal Pensiero dominante alla Ginestra.

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