GIACOMO LEOPARDI DA UNA LETTERA PIETRO GIORDANI

GIACOMO LEOPARDI DA UNA LETTERA PIETRO GIORDANI

L’INFELICITA’ DEL POETA


-Ma mi fa infelice primieramente l’assenza della salute, perchè, oltreché io non sono quel filosofo che non si curi della vita, mi vedo forzato a star lontano dall’ amor mio, che é lo studio.»24 Aggiunge che l’altra cosa che lo fa infelice è il pensiero, il quale lo ha in sua balia, ed al quale non può sottrarsi per la mancanza assoluta di qualsiasi svagamento e distrazione. [p. 86 modifica] Egli era in un momento di crisi terribile: si sfogava con l’amico, ma probabilmente non gli diceva tutto. Egli aveva anticipato di quattro o cinque anni l’età dello sviluppo; era già uomo quando gli altri sono ancora bambini. Fino dall’anno innanzi si era svegliato in lui il bisogno di amare, il desiderio di godere della contemplazione della bellezza femminile; e cotesto bisogno non trovava in Recanati modo di sodisfarsi. «Non credo che le Grazie, scriveva al Giordani, sieno state qui mai, neppure di sfuggita all’osteria.»25 Non aveva modo di parlare con donne avvenenti, anzi nemmeno di vederle; doveva contentarsi di gettare qualche occhiata dalla finestra alla figliuola del cocchiere, o a qualche altra ragazza del popolo che passasse per la strada o che incontrasse quando usciva a passeggio. Probabilmente aveva già risoluto di abbandonare la carriera ecclesiastica, e non aveva ancora, per rispetto alla famiglia, avuto il coraggio di buttar via il collare. Mille sentimenti e desiderii e pensieri diversi lo agitavano, che gli facevano di tratto in tratto balenare agli occhi della mente un’idea, una speranza; l’idea, la speranza di mutar vita. Gli pareva che ciò sarebbe stato la medicina di tutti i suoi mali. Ma quell’ idea, quella speranza, appena balenata, dispariva, e lo lasciava nel buio. «Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non ò insensato arde di vedere di conoscere; la terra ò piena di meraviglio; ed io di diciotto anni potrò diro: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato?»26 Questo grido, che gli ruppe dal cuore nelle prime confidenze della sua amicizia col Giordani, chi sa quante volte lo avevano udito prima i suoi compagni di cattività Carlo e Paolina! [p. 87 modifica]Quel mondo, da lui intravisto di là dai monti e dal mare che chiudevano l’orizzonte del suo paese natale; quel mondo di cui gli era contesa la conoscenza dall’avarizia materna, e dalla grettezza e cocciutaggine del padre, egli, fra mezzo ai gravi e faticosi suoi studi, lo aveva disperatamente cercato nei libri; e i libri, mostrandogliene idealizzate le parti migliori, gli avevano acceso sempre più vivo il desiderio di vederlo da vicino nella sua vera realtà. Giudicando degli altri da sé, e di sé e degli altri dall’animo suo, e dimenticando il suo corpo, si sognava che in cotesto mondo, splendido di meravigliose bellezze, avrebbe potuto esplicare tutte le sue forti facoltà, sodisfare tutti i suoi ardenti desiderii. Là era il campo vero della vita; là erano i premii desiderati alle opere dell’ ingegno, il plauso generale, la lode dei dotti, il sorriso delle belle donne; là erano infine la libertà, la gloria e l’amore, a cui egli aspirava con tutte le forze della sua giovinezza. Il tempo in cui faceva questi sogni fu, lo sappiamo da lui stesso, il tempo della sua maggiore felicità.

Ma ormai quel tempo era passato per sempre!


Dallo Zibaldone:

Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a [51]farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.

Da altre lettere al Giordani

Sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo.

Io mi getto e mi ravvolgo per terra, domandando quanto mi resta ancora da vivere. La mia disgrazia è assicurata per sempre: quanto mi reserà da portarla? quanto?