GERUSALEMME LIBERATA Torquato Tasso di Mattia Graiff

GERUSALEMME LIBERATA Torquato Tasso di Mattia Graiff

Mattia Graiff

Torquato Tasso

Gerusalemme Liberata

Tancredi e Clorinda

Nel dodicesimo canto della Gerusalemme Liberata si incrociano tragicamente i destini di Tancredi e Clorinda:  divisi da religione e guerra, ma innamorati l’uno dell’altro, si scontreranno senza riconoscersi in un duello senza quartiere durante il quale l’uno ucciderà l’altra. Clorinda, desiderosa di compiere imprese degne e audaci, medita di incendiare le macchine d’assedio crociate e Argante, grande eroe pagano, decide di accompagnarla; sono vani i tentativi di dissuaderla messi in atto da Arsete, l’ eunuco che l’ha cresciuta e che le rivela le sue origini cristiane e un grave sogno premonitore. L’ attacco riesce ma Clorinda rimane per errore chiusa fuori dalle mura di Gerusalemme; nonostante cerchi di fingersi un soldato crociato viene seguita e sfidata a duello da Tancredi, che non ha riconosciuto l’ amata a causa dell’ anonima armatura nera che ella indossa.

Nel lungo ed estenuante combattimento Clorinda viene ferita a morte e poco prima di spirare chiede a Tancredi di essere battezzata; scopertole il volto Tancredi comprende troppo tardi di essersi  scontrato con l’ amata e dopo averla battezzata cade privo di sensi. Alcuni crociati lo soccorrono e lo portano  all’ accampamento cristiano assieme al corpo di Clorinda che egli seppellisce con i più grandi onori; in seguito mentre Tancredi si dispera Argante proclama a Gerusalemme i propri propositi di vendetta.

Depon Clorinda le sue spoglie inteste

     d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere,

     e senza piuma o fregio altre ne veste

     (infausto annunzio!) ruginose e nere,

     però che stima agevolmente in queste

     occulta andar fra le nemiche schiere.

     È quivi Arsete eunuco, il qual fanciulla

     la nudrí da le fasce e da la culla,

19e per l’orme di lei l’antico fianco

     d’ogni intorno traendo, or la seguia.

     Vede costui l’arme cangiate, ed anco

     del gran rischio s’accorge ove ella gía,

     e se n’affligge, e per lo crin che bianco

     in lei servendo ha fatto e per la pia

     memoria de’ suo’ uffici instando prega

     che da l’impresa cessi; ed ella il nega.

20Onde ei le disse alfin: “Poi che ritrosa

     sí la tua mente nel suo mal s’indura

     che né la stanca età, né la pietosa

     voglia, né i preghi miei, né il pianto cura,

     ti spiegherò piú oltre, e saprai cosa

     di tua condizion che t’era oscura;

     poi tuo desir ti guidi o mio consiglio.”

     Ei segue, ed ella inalza attenta il ciglio.

21″Resse già l’Etiopia, e forse regge

     Senapo ancor con fortunato impero,

     il qual del figlio di Maria la legge

     osserva, e l’osserva anco il popol nero.

     Quivi io pagan fui servo e fui tra gregge

     d’ancelle avolto in feminil mestiero,

     ministro fatto de la regia moglie

     che bruna è sí, ma il bruno il bel non toglie.

22N’arde il marito, e de l’amore al foco

     ben de la gelosia s’agguaglia il gelo.

     Si va in guisa avanzando a poco a poco

     nel tormentoso petto il folle zelo

     che da ogn’uom la nasconde, e in chiuso loco

     vorria celarla a i tanti occhi del cielo.

     Ella, saggia ed umil, di ciò che piace

     al suo signor fa suo diletto e pace.

23D’una pietosa istoria e di devote

     figure la sua stanza era dipinta.

     Vergine, bianca il bel volto e le gote

     vermiglia, è quivi presso un drago avinta.

     Con l’asta il mostro un cavalier percote:

     giace la fèra nel suo sangue estinta.

     Quivi sovente ella s’atterra, e spiega

     le sue tacite colpe e piange e prega.

24Ingravida fra tanto, ed espon fuori

     (e tu fosti colei) candida figlia.

     Si turba; e de gli insoliti colori,

     quasi d’un novo mostro, ha meraviglia.

     Ma perché il re conosce e i suoi furori,

     celargli il parto alfin si riconsiglia,

     ch’egli avria dal candor che in te si vede

     argomentato in lei non bianca fede.

25Ed in tua vece una fanciulla nera

     pensa mostrargli, poco inanzi nata.

     E perché fu la torre, ove chius’era,

     da le donne e da me solo abitata,

     a me, che le fui servo e con sincera

     mente l’amai, ti diè non battezzata;

     né già poteva allor battesmo darti,

     ché l’uso no ’l sostien di quelle parti.

26Piangendo a me ti porse, e mi commise

     ch’io lontana a nudrir ti conducessi.

     Chi può dire il suo affanno, e in quante guise

     lagnossi e raddoppiò gli ultimi amplessi?

     Bagnò i baci di pianto, e fur divise

     le sue querele da i singulti spessi.

     Levò alfin gli occhi, e disse: “O Dio, che scerni

     l’opre piú occulte, e nel mio cor t’interni,

27s’immaculato è questo cor, s’intatte

     son queste membra e ’l marital mio letto,

     per me non prego, che mille altre ho fatte

     malvagità: son vile al tuo cospetto;

     salva il parto innocente, al qual il latte

     nega la madre del materno petto.

     Viva, e sol d’onestate a me somigli;

     l’essempio di fortuna altronde pigli.

28Tu, celeste guerrier, che la donzella

     togliesti del serpente a gli empi morsi,

     s’accesi ne’ tuo’ altari umil facella,

     s’auro o incenso odorato unqua ti porsi,

     tu per lei prega, sí che fida ancella

     possa in ogni fortuna a te raccòrsi.”

     Qui tacque; e ’l cor le si rinchiuse e strinse,

     e di pallida morte si dipinse.

29Io piangendo ti presi, e in breve cesta

     fuor ti portai, tra fiori e frondi ascosa;

     ti celai da ciascun, che né di questa

     diedi sospizion né d’altra cosa.

     Me n’andai sconosciuto; e per foresta

     caminando di piante orride ombrosa,

     vidi una tigre, che minaccie ed ire

     avea ne gli occhi, incontr’a me venire.

30Sovra un arbore i’ salsi e te su l’erba

     lasciai, tanta paura il cor mi prese.

     Giunse l’orribil fèra, e la superba

     testa volgendo, in te lo sguardo intese.

     Mansuefece e raddolcio l’acerba

     vista con atto placido e cortese;

     lenta poi s’avicina e ti fa vezzi

     con la lingua, e tu ridi e l’accarezzi;

31ed ischerzando seco, al fero muso

     la pargoletta man secura stendi.

     Ti porge ella le mamme e, come è l’uso

     di nutrice, s’adatta, e tu le prendi.

     Intanto io miro timido e confuso,

     come uom faria novi prodigi orrendi.

     Poi che sazia ti vede omai la belva

     del suo latte, ella parte e si rinselva;

32ed io giú scendo e ti ricolgo, e torno

     là ’ve prima fur vòlti i passi miei,

     e preso in picciol borgo alfin soggiorno,

     celatamente ivi nutrir ti fei.

     Vi stetti insin che ’l sol correndo intorno

     portò a i mortali e diece mesi e sei.

     Tu con lingua di latte anco snodavi

     voci indistinte, e incerte orme segnavi.

33Ma sendo io colà giunto ove dechina

     l’etate omai cadente a la vecchiezza,

     ricco e sazio de l’or che la regina

     nel partir diemmi con regale ampiezza,

     da quella vita errante e peregrina

     ne la patria ridurmi ebbi vaghezza,

     e tra gli antichi amici in caro loco

     viver, temprando il verno al proprio foco.

34Partomi, e vèr l’Egitto onde son nato,

     te conducendo meco, il corso invio,

     e giungo ad un torrente, e riserrato

     quinci da i ladri son, quindi dal rio.

     Che debbo far? te, dolce peso amato,

     lasciar non voglio, e di campar desio.

     Mi gitto a nuoto, ed una man ne viene

     rompendo l’onda e te l’altra sostiene.

35Rapidissimo è il corso, e in mezzo l’onda

     in se medesma si ripiega e gira;

     ma, giunto ove piú volge e si profonda,

     in cerchio ella mi torce e giú mi tira.

     Ti lascio allor, ma t’alza e ti seconda

     l’acqua, e secondo a l’acqua il vento spira,

     e t’espon salva in su la molle arena;

     stanco, anelando, io poi vi giungo a pena.

36Lieto ti prendo; e poi la notte, quando

     tutte in alto silenzio eran le cose,

     vidi in sogno un guerrier che minacciando

     a me su ’l volto il ferro ignudo pose.

     Imperioso disse: ’Io ti comando

     ciò che la madre sua primier t’impose:

     che battezzi l’infante; ella è diletta

     del Cielo, e la sua cura a me s’aspetta.

37Io la guardo e difendo, io spirto diedi

     di pietate a le fère e mente a l’acque.

     Misero te s’al sogno tuo non credi,

     ch’è del Ciel messaggiero.’ E qui si tacque.

     Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi

     come del giorno il primo raggio nacque;

     ma perché mia fé vera e l’ombre false

     stimai, di tuo battesmo non mi calse,

38né de i preghi materni; onde nudrita

     pagana fosti, e ’l vero a te celai.

     Crescesti, e in arme valorosa e ardita

     vincesti il sesso e la natura assai:

     fama e terre acquistasti, e qual tua vita

     sia stata poscia tu medesma il sai;

     e sai non men che servo insieme e padre

     io t’ho seguita fra guerriere squadre.

39Ier poi su l’alba, a la mia mente oppressa

     d’alta quiete e simile a la morte,

     nel sonno s’offerí l’imago stessa,

     ma in piú turbata vista e in suon piú forte:

     Ecco,’ dicea ’fellon, l’ora s’appressa

     che dée cangiar Clorinda e vita e sorte:

     mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.’

     Ciò disse, e poi n’andò per l’aria a volo.

Sola esclusa ne fu perché in quell’ora

     ch’altri serrò le porte ella si mosse,

     e corse ardente e incrudelita fora

     a punir Arimon che la percosse.

     Punillo; e ’l fero Argante avisto ancora

     non s’era ch’ella sí trascorsa fosse,

     ché la pugna e la calca e l’aer denso

     a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso.

50Ma poi che intepidí la mente irata

     nel sangue del nemico e in sé rivenne,

     vide chiuse le porte e intorniata

     sé da’ nemici, e morta allor si tenne.

     Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,

     nov’arte di salvarsi le sovenne.

     Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti

     cheta s’avolge; e non è chi la noti.

51Poi, come lupo tacito s’imbosca

     dopo occulto misfatto, e si desvia,

     da la confusion, da l’aura fosca

     favorita e nascosa, ella se ’n gía.

     Solo Tancredi avien che lei conosca;

     egli quivi è sorgiunto alquanto pria;

     vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:

     vide e segnolla, e dietro a lei si mise.

52Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima

     degno a cui sua virtú si paragone.

     Va girando colei l’alpestre cima

     verso altra porta, ove d’entrar dispone.

     Segue egli impetuoso, onde assai prima

     che giunga, in guisa avien che d’armi suone,

     ch’ella si volge e grida: “O tu, che porte,

     che corri sí?” Risponde: “E guerra e morte.”

53″Guerra e morte avrai;” disse “io non rifiuto

     darlati, se la cerchi”, e ferma attende.

     Non vuol Tancredi, che pedon veduto

     ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.

     E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,

     ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;

     e vansi a ritrovar non altrimenti

     che duo tori gelosi e d’ira ardenti.

54Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno

     teatro, opre sarian sí memorande.

     Notte, che nel profondo oscuro seno

     chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,

     piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno

     a le future età lo spieghi e mande.

     Viva la fama loro; e tra lor gloria

     splenda del fosco tuo l’alta memoria.

55Non schivar, non parar, non ritirarsi

     voglion costor, né qui destrezza ha parte.

     Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:

     toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.

     Odi le spade orribilmente urtarsi

     a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;

     sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,

     né scende taglio in van, né punta a vòto.

56L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,

     e la vendetta poi l’onta rinova;

     onde sempre al ferir, sempre a la fretta

     stimol novo s’aggiunge e cagion nova.

     D’or in or piú si mesce e piú ristretta

     si fa la pugna, e spada oprar non giova:

     dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi

     cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

57Tre volte il cavalier la donna stringe

     con le robuste braccia, ed altrettante

     da que’ nodi tenaci ella si scinge,

     nodi di fer nemico e non d’amante.

     Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge

     con molte piaghe; e stanco ed anelante

     e questi e quegli al fin pur si ritira,

     e dopo lungo faticar respira.

58L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue

     su ’l pomo de la spada appoggia il peso.

     Già de l’ultima stella il raggio langue

     al primo albor ch’è in oriente acceso.

     Vede Tancredi in maggior copia il sangue

     del suo nemico, e sé non tanto offeso.

     Ne gode e superbisce. Oh nostra folle

     mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!

59Misero, di che godi? oh quanto mesti

     fiano i trionfi ed infelice il vanto!

     Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)

     di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.

     Cosí tacendo e rimirando, questi

     sanguinosi guerrier cessaro alquanto.

     Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,

     perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:

60″Nostra sventura è ben che qui s’impieghi

     tanto valor, dove silenzio il copra.

     Ma poi che sorte rea vien che ci neghi

     e lode e testimon degno de l’opra,

     pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)

     che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,

     acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,

     chi la mia morte o la vittoria onore.”

61Risponde la feroce: “Indarno chiedi

     quel c’ho per uso di non far palese.

     Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi

     un di quei due che la gran torre accese.”

     Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,

     e: “In mal punto il dicesti”; indi riprese

     “il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,

     barbaro discortese, a la vendetta.”

62Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,

     benché debili in guerra. Oh fera pugna,

     u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,

     ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!

     Oh che sanguigna e spaziosa porta

     fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,

     ne l’arme e ne le carni! e se la vita

     non esce, sdegno tienla al petto unita.

63Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto

     cessi, che tutto prima il volse e scosse,

     non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto

     ritien de l’onde anco agitate e grosse,

     tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto

     quel vigor che le braccia a i colpi mosse,

     serbano ancor l’impeto primo, e vanno

     da quel sospinti a giunger danno a danno.

64Ma ecco omai l’ora fatale è giunta

     che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.

     Spinge egli il ferro nel bel sen di punta

     che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;

     e la veste, che d’or vago trapunta

     le mammelle stringea tenera e leve,

     l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente

     morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.

65Segue egli la vittoria, e la trafitta

     vergine minacciando incalza e preme.

     Ella, mentre cadea, la voce afflitta

     movendo, disse le parole estreme;

     parole ch’a lei novo un spirto ditta,

     spirto di fé, di carità, di speme:

     virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella

     in vita fu, la vuole in morte ancella.

66″Amico, hai vinto: io ti perdon… perdona

     tu ancora, al corpo no, che nulla pave,

     a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona

     battesmo a me ch’ogni mia colpa lave.”

     In queste voci languide risuona

     un non so che di flebile e soave

     ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,

     e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

67Poco quindi lontan nel sen del monte

     scaturia mormorando un picciol rio.

     Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,

     e tornò mesto al grande ufficio e pio.

     Tremar sentí la man, mentre la fronte

     non conosciuta ancor sciolse e scoprio.

     La vide, la conobbe, e restò senza

     e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

68Non morí già, ché sue virtuti accolse

     tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,

     e premendo il suo affanno a dar si volse

     vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.

     Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,

     colei di gioia trasmutossi, e rise;

     e in atto di morir lieto e vivace,

     dir parea: “S’apre il cielo; io vado in pace.”

69D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,

     come a’ gigli sarian miste viole,

     e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso

     sembra per la pietate il cielo e ’l sole;

     e la man nuda e fredda alzando verso

     il cavaliero in vece di parole

     gli dà pegno di pace. In questa forma

     passa la bella donna, e par che dorma.

70Come l’alma gentile uscita ei vede,

     rallenta quel vigor ch’avea raccolto;

     e l’imperio di sé libero cede

     al duol già fatto impetuoso e stolto,

     ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede

     la vita, empie di morte i sensi e ’l volto.

     Già simile a l’estinto il vivo langue

     al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.

71E ben la vita sua sdegnosa e schiva,

     spezzando a forza il suo ritegno frale,

     la bella anima sciolta al fin seguiva,

     che poco inanzi a lei spiegava l’ale;

     ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,

     cui trae bisogno d’acqua o d’altro tale,

     e con la donna il cavalier ne porta,

     in sé mal vivo e morto in lei ch’è morta.

Commento

Il canto dodicesimo, tra i più drammatici dell’ intera opera, è quasi interamente dedicato a Clorinda: le vicende principali vengono narrate con un ritmo veloce e incalzante, per poi soffermarsi sul racconto del vecchio servitore che lascia intuire il destino della guerriera pagana. Dopo il duello la disperazione di Tancredi, esauritosi ormai ogni ardore guerresco,  domina le ultime ottave assieme ai giuramenti di vendetta pronunciati da Argante.
La figura di Clorinda trova poco prima della scomparsa la sua completezza, fondendo l’ identità di temibile combattente a quella di bella dama amata da Tancredi: si nota infatti per la prima volta un suo lato umano quando si preoccupa, qualora rimanesse uccisa nella sortita, per la sorte del proprio seguito pregando Argante di rimandarlo in Egitto, e poi quando, ormai ferita a morte, chiede e concede a Tancredi il perdono.
Oltre a trovare una propria compiutezza il personaggio di Clorinda è per la prima volta preda del dubbio, instillato dal sogno e dal racconto di Arsete che confermano le sue origini cristiane e la prossima riunione con Dio: benché Clorinda persista nella fede pagana e si rifiuti di desistere dal combattere è conscia che nel giro di poche ore il suo destino è già segnato; a questo contribuiscono l’ atmosfera del canto, fosca e buia, e l’ ambientazione notturna.
Gli altri personaggi che dominano il canto sono Argante e Tancredi, rappresentati quasi come opposti: la cortesia del crociato trova il suo contrario nella brutalità del non meno valoroso pagano che, nelle ultime ottave giura ferocemente di vendicare la morte di Clorinda mentre Tancredi è preda della più grande disperazione. Quasi schiacciato dal senso di colpa il cavaliere cristiano è sul punto di uccidersi non potendo sopportare di vivere avendo ucciso l’ amata, ma interviene Goffredo, il comandante dell’ armata cristiana, e severamente gli ricorda la fedeltà dovuta a Dio che Tancredi ha barattato con l’ amore per Clorinda, la cui morte viene letta come un avviso e  punizione divina per il suo allontanamento dalla via di ogni crociato

La Selva di Saron

Il mago Ismeno si reca nella foresta di Saron, prevedendo che i crociati vorranno sfruttarne il legname per ricostruire la torre d’ assedio andata perduta nell’assalto di Clorinda e Argante; nottetempo egli evoca spiriti, demoni, streghe e altre creature infernali e ordina loro di impedire ai cristiani l’entrata nella selva prendendo possesso dei tronchi degli alberi. Goffredo di Buglione, comandante crociato, manda una squadra di carpentieri nella foresta ma essi fanno ritorno al campo spaventati; vengono nuovamente accompagnati alla foresta da una squadra di armati, ma non riescono a penetrare le difese e la stregoneria del mago Ismeno. Un cavaliere assai audace, tale Alcasto, si propone allora di sconfiggere le oscure arti magiche imposte alla selva: superata un prima cerchia di difese, non riesce ad oltrepassare un terribile muro di fuoco. Vergognoso e sconfitto Alcasto fa ritorno all’accampamento crociato, e Buglione, udito del suo fallimento, concede a qualsiasi cavaliere di misurarsi con la magia di Ismeno. Tancredi, benché ancora provato dal combattimento e dalla morte di Clorinda, si dirige alla volta della foresta e vi si addentra, oltrepassando il muro di fuoco (una semplice illusione) fino a giungere ad una radura con un imponente cipresso nel mezzo. Quando ne colpisce il tronco vede scorrere del sangue e sente la voce di Clorinda, il cui spirito è intrappolato nella pianta: per volere del mago Ismeno, l’ anima di ogni caduto cristiano o pagano viene imprigionata in un albero della selva. Tancredi torna al campo e riporta gli incredibili fatti riscontrati nella foresta, sconcertando Goffredo che è sul punto di recarsi egli stesso nella foresta, ma decide di attendere l’ arrivo di Rinaldo, destinato a spezzare gli incanti del mago. Nel frattempo sopraggiunge una terribile siccità che spinge, unita allo stallo delle operazioni militari, una parte dell’ armata cristiana alla defezione: la situazione viene risolta grazie alle accorate preghiere di Goffredo che ottengono la sospirata pioggia.

  Stupido si, ma intrepido rimane

 Tancredi: e poi che vede il tutto cheto,

 Mette sicuro il piè nelle profane

Soglie, e spia della selva ogni secreto.

 Nè più apparenze inusitate e strane,

 Nè trova alcun fra via scontro o divieto;

 Se non quanto per se ritarda il bosco

La vista e i passi, inviluppato e fosco.

XXXVIII.

      Alfine un largo spazio in forma scorge

 d’Anfiteatro: e non è pianta in esso;

 Salvo che nel suo mezzo altero sorge,

Quasi eccelsa piramide, un cipresso.

 Colà si drizza; e, nel mirar, s’accorge

 Ch’era di varj segni il tronco impresso,

 Simili a quei che in vece usò di scritto

L’antico già misterioso Egitto.

XXXIX.

      Fra i segni ignoti, alcune note ha scorte

 Del sermon di Soria ch’ei ben possiede.

 O tu che dentro ai chiostri della morte

Osasti por, guerriero audace, il piede;

 Deh, se non sei crudel quanto sei forte,

 Deh non turbar questa secreta sede.

 Perdona all’alme omai di luce prive:

Non dee guerra co’ morti aver chi vive.

XL.

      Così dicea quel motto; egli era intento

 Delle brevi parole ai sensi occulti.

 Fremere intanto udia continuo il vento

Tra le frondi del bosco, e tra i virgulti:

 E trarne un suon che flebile concento

 Par d’umani sospiri e di singulti:

 E un non so che confuso instilla al core

Di pietà, di spavento, e di dolore.

XLI.

      Pur tragge alfin la spada, e con gran forza

 Percuote l’alta pianta. Oh maraviglia!

 Manda fuor sangue la recisa scorza,

E fa la terra intorno a se vermiglia.

 Tutto si raccapriccia, e pur rinforza

 Il colpo, e ’l fin vederne ei si consiglia.

 Allor, quasi di tomba, uscir ne sente

Un indistinto gemito dolente;

XLII.

      Che poi distinto in voci: Ahi troppo, disse,

 M’hai tu, Tancredi, offeso: or tanto basti.

 Tu dal corpo, che meco e per me visse,

Felice albergo già, mi discacciasti:

 Perchè il misero tronco, a cui m’affisse

 Il mio duro destino, anco mi guasti?

 Dopo la morte gli avversarj tuoi,

Crudel, ne’ lor sepolcri offender vuoi?

XLIII.

      Clorinda fui: nè sol quì spirto umano

 Albergo in questa pianta rozza e dura:

 Ma ciascun altro ancor, Franco o Pagano,

Che lassi i membri a piè dell’alte mura,

 Astretto è quì, da novo incanto e strano,

 Non so, s’io dica in corpo, o in sepoltura.

 Son di senso animati i rami e i tronchi,

E micidial sei tu, se legno tronchi.

XLIV.

      Qual l’infermo talor che in sogno scorge

 Drago, o cinta di fiamme alta Chimera;

 Sebben sospetta, o in parte anco s’accorge

Che ’l simulacro sia non forma vera;

 Pur desia di fuggir; tanto gli porge

 Spavento la sembianza orrida e fera!

 Tal il timido amante appien non crede

Ai falsi inganni, e pur ne teme, e cede.

XLV.

      E dentro, il cor gli è in modo tal conquiso

 Da varj affetti, che s’agghiaccia e trema:

 E nel moto potente ed improvviso

Gli cade il ferro: e ’l manco è in lui la tema.

 Va fuor di se: presente aver gli è avviso

 L’offesa donna sua che plori e gema:

 Nè può soffrir di rimirar quel sangue,

Nè quei gemiti udir d’egro che langue.

XLVI.

      Così quel contra morte audace core

 Nulla forma turbò d’alto spavento;

 Ma lui, che solo è fievole in amore,

Falsa imago deluse, e van lamento.

 Il suo caduto ferro intanto fuore

 Portò del bosco impetuoso vento;

 Sicchè vinto partissi: e in su la strada

Ritrovò poscia e ripigliò la spada.

XLVII.

      Pur non tornò, nè ritentando ardío

 Spiar di novo le cagioni ascose.

 E poi che, giunto al sommo Duce, unío

Gli spirti alquanto e l’animo compose:

 Incominciò: Signor, nunzio son io

 Di non credute e non credibil cose.

 Ciò che dicean dello spettacol fero

E del suon paventoso, è tutto vero.

XLVIII.

      Maraviglioso foco indi m’apparse,

 Senza materia in un istante appreso:

 Che sorse, e, dilatando, un muro farse

Parve, e d’armati mostri esser difeso.

 Pur vi passai: chè nè l’incendio m’arse,

 Nè dal ferro mi fu l’andar conteso.

 Vernò in quel punto, ed annottò: fè il giorno

E la serenità poscia ritorno.

XLIX.

      Di più dirò; ch’agli alberi dà vita

 Spirito uman che sente e che ragiona.

 Per prova sollo; io n’ho la voce udita

Che nel cor flebilmente anco mi suona.

 Stilla sangue de’ tronchi ogni ferita,

 Quasi di molle carne abbian persona.

 No, no, più non potrei (vinto mi chiamo)

Nè corteccia scorzar, nè sveller ramo.

L.

      Così dice egli; e ’l Capitano ondeggia

 In gran tempesta di pensieri intanto.

 Pensa s’egli medesmo andar là deggia

(Chè tal lo stima) a ritentar l’incanto:

 O se pur di materia altra proveggia

 Lontana più, ma non difficil tanto.

 Ma dal profondo de’ pensieri suoi

L’Eremita il rappella, e dice poi:

LI.

      Lascia il pensier audace; altri conviene

 Che delle piante sue la selva spoglie.

 Già già la fatal nave all’erme arene

La prora accosta, e l’auree vele accoglie.

 Già, rotte le indegnissime catene,

 L’aspettato Guerrier dal lido scioglie.

 Non è lontana omai l’ora prescritta

Che sia presa Sion, l’oste sconfitta.

LII.

      Parla ei così, fatto di fiamma in volto,

 E risuona più ch’uomo in sue parole.

 E ’l pio Goffredo a pensier nuovi è volto;

Chè neghittoso già cessar non vuole.

 Ma nel Cancro celeste omai raccolto

 Apporta arsura inusitata il Sole:

 Ch’a’ suoi disegni, a’ suoi guerrier nemica

Insopportabil rende ogni fatica.

LIII.

      Spenta è del Cielo ogni benigna lampa,

 Signoreggiano in lui crudeli stelle:

 Onde piove virtù che informa e stampa

L’aria d’impression maligne e felle.

 Cresce l’ardor nocivo, e sempre avvampa

 Più mortalmente in queste parti e in quelle:

 A giorno reo notte più rea succede,

E dì peggior di lei dopo lei vede.

LIV.

      Non esce il Sol giammai che, asperso e cinto

 Di sanguigni vapori entro e d’intorno,

 Non mostri nella fronte assai distinto

Mesto presagio d’infelice giorno.

 Non parte mai che, in rosse macchie tinto,

 Non minacci egual noja al suo ritorno:

 E non inaspri i già sofferti danni

Con certa tema di futuri affanni.

LV.

      Mentre egli i raggj poi d’alto diffonde,

 Quanto d’intorno occhio mortal si gira,

 Seccarsi i fiori, e impallidir le fronde,

Assetate languir l’erbe rimira,

 E fendersi la terra, e scemar l’onde,

 Ogni cosa del Ciel soggetta all’ira:

 E le sterili nubi in aria sparse

In sembianza di fiamme altrui mostrarse.

LVI.

      Sembra il Ciel nell’aspetto atra fornace:

 Nè cosa appar che gli occhj almen ristaure.

 Nelle spelonche sue Zefiro tace:

E in tutto è fermo il vaneggiar dell’aure.

 Solo vi soffia (e par vampa di face)

 Vento che move dalle arene Maure:

 Che gravoso e spiacente, e seno e gote

Co’ densi fiati ad or ad or percuote.

LVII.

      Non ha poscia la notte ombre più liete,

 Ma del caldo del Sol pajono impresse:

 E di travi di foco, e di comete,

E d’altri fregj ardenti il velo intesse.

 Nè pur, misera terra, alla tua sete

 Son dall’avara Luna almen concesse

 Sue rugiadose stille; e l’erbe e i fiori

Bramano indarno i lor vitali umori.

LVIII.

      Dalle notti inquiete il dolce sonno

 Bandito fugge: e i languidi mortali,

 Lusingando, ritrarlo a se non ponno;

Ma pur la sete è il pessimo de’ mali:

 Perocchè di Giudea l’iniquo Donno,

 Con veneni e con succhi, aspri e mortali

 Più dell’inferna Stige e d’Acheronte,

Torbido fece  livido ogni fonte.

LIX.

      E il picciol Siloè, che puro e mondo

 Offria cortese ai Franchi il suo tesoro,

 Or di tepide linfe appena il fondo

Arido copre, e dà scarso ristoro.

 Nè il Po, qualor di Maggio è più profondo,

 Parria soverchio ai desiderj loro:

 Nè il Gange, o ’l Nilo allor che non s’appaga

De’ sette alberghi, e ’l verde Egitto allaga.

LX.

      S’alcun giammai tra frondeggianti rive

 Puro vide stagnar liquido argento:

 O giù precipitose ir acque vive

Per Alpe, o in piaggia erbosa a passo lento;

 Quelle al vago desio forma e descrive,

 E ministra materia al suo tormento;

 Chè l’immagine lor gelida e molle

L’asciuga e scalda, e nel pensier ribolle.

LXI.

      Vedi le membra de’ guerrier robuste,

 Cui nè cammin per aspra terra preso,

 Nè ferrea salma, onde gir sempre onuste,

Nè domò ferro alla lor morte inteso;

 Ch’or risolute, e dal calore aduste,

 Giacciono a se medesme inutil peso.

 E vive nelle vene occulto foco,

Che pascendo le strugge a poco a poco.

LXII.

      Langue il corsier già sì feroce, e l’erba

 Che fu suo caro cibo a schifo prende:

 Vacilla il piede infermo, e la superba

Cervice dianzi, or giù dimessa pende.

 Memoria di sue palme or più non serba:

 Nè più nobil di gloria amor l’accende.

 Le vincitrici spoglie e i ricchi fregj

Par che, quasi vil soma, odj e dispregi.

LXIII.

      Languisce il fido cane, ed ogni cura

 Del caro albergo e del signor oblia:

 Giace disteso, ed alla interna arsura,

Sempre anelando, aure novelle invia.

 Ma se altrui diede il respirar natura,

 Perchè il caldo del cor temprato sia;

 Or nulla o poco refrigerio n’have:

504Sì quello, onde si spira, è denso e grave.

LXIV.

      Così languia la terra, e in tale stato

 Egri giaceansi i miseri mortali:

 E ’l buon popol fedel, già disperato

Di vittoria, temea gli ultimi mali:

 E risonar s’udia per ogni lato

 Universal lamento in voci tali:

 Che più spera Goffredo? o che più bada?

Sinchè tutto il suo campo a morte vada?

LXV.

      Deh con quai forze superar si crede

 Gli alti ripari de’ nemici nostri?

 Onde machine attende? ei sol non vede

L’ira del Cielo a tanti segni mostri?

 Della sua mente avversa a noi fan fede

 Mille novi prodigj, e mille mostri:

 Ed arde a noi sì il Sol, che minor uopo

Di refrigerio ha l’Indo e l’Etiópo.

LXVI.

      Dunque stima costui che nulla importe

 Che n’andiam noi, turba negletta indegna,

 Vili ed inutil alme a dura morte,

Purch’ei lo scettro imperial mantegna?

 Cotanto dunque fortunata sorte

 Rassembra quella di colui che regna,

 Che ritener si cerca avidamente

A danno ancor della soggetta gente?

LXVII.

      Or mira d’uom c’ha il titolo di pio,

 Provvidenza pietosa, animo umano;

 La salute de’ suoi porre in oblio,

Per conservarsi onor dannoso e vano.

 E veggendo a noi secchi i fonti e ’l rio,

 Per se l’acque condur fin dal Giordano:

 E fra pochi sedendo a mensa lieta

Mescolar l’onde fresche al vin di Creta.

LXVIII.

      Così i Franchi dicean; ma ’l Duce Greco

 Che il lor vessillo è di seguir già stanco,

 Perchè morir quì, disse, e perchè meco

Far che la schiera mia ne vegna manco?

 Se nella sua follia Goffredo è cieco,

 Siasi in suo danno, e del suo popol Franco:

 A noi che nuoce? E senza tor licenza,

Notturna fece e tacita partenza.

LXIX.

      Mosse l’esempio assai, come al dì chiaro

 Fu noto: e d’imitarlo alcun risolve.

 Quei che seguir Clotareo, ed Ademaro,

E gli altri Duci ch’or son ossa e polve,

 Poi che la fede che a color giuraro,

 Ha disciolto colei che tutto solve,

 Già trattano di fuga: e già qualch’uno

Parte furtivamente all’aer bruno.

LXX.

      Ben se l’ode Goffredo, e ben se ’l vede:

 E i più aspri rimedj avria ben pronti;

 Ma gli schiva ed abborre: e con la fede

Che faria stare i fiumi, e gir i monti,

 Devotamente al Re del mondo chiede

 Che gli apra omai della sua grazia i fonti;

 Giunge le palme, e fiammeggianti in zelo

Gli occhj rivolge e le parole al Cielo.

LXXI.

      Padre e Signor, se al popol tuo piovesti

 Già le dolci rugiade entro al deserto:

 Se a mortal mano già virtù porgesti

Romper le pietre, e trar del monte aperto

 Un vivo fiume; or rinnovella in questi

 Gli stessi esempj: e se ineguale è il merto,

 Adempi di tua grazia i lor difetti:568E giovi lor che tuoi guerrier

sian detti.

LXXII.

      Tarde non furon già queste preghiere,

 Che derivar da giusto umil desio;

 Ma sen volaro al Ciel pronte e leggiere,

572

Come pennuti augelli, innanzi a Dio.

 Le accolse il Padre eterno, ed alle schiere

 Fedeli sue rivolse il guardo pio:

 E di sì gravi lor rischj e fatiche

576

Gl’increbbe, e disse con parole amiche:

LXXIII.

      Abbia sin quì sue dure e perigliose

 Avversità sofferto il campo amato:

 E contra lui, con armi ed arti ascose,

Siasi l’inferno e siasi il mondo armato.

 Or cominci novello ordin di cose,

 E gli si volga prospero e beato:

 Piova, e ritorni il suo Guerriero invitto;

E venga, a gloria sua, l’oste d’Egitto.

LXXIV.

      Così dicendo, il capo mosse: e gli ampj

 Cieli tremaro, e i lumi erranti, e i fissi:

 E tremò l’aria riverente, e i campi

Dell’Oceano, e i monti, e i ciechi abissi.

 Fiammeggiare a sinistra accesi lampi

 Fur visti, e chiaro tuono insieme udissi.

 Accompagnan le genti il lampo e ’l tuono

Con allegro di voci ed alto suono.

LXXV.

      Ecco subite nubi; e non di terra

 Già, per virtù del Sole, in alto ascese;

 Ma giù dal Ciel, che tutte apre e disserra

Le porte sue, veloci in giù discese.

 Ecco notte improvvisa il giorno serra

 Nell’ombre sue, che d’ogni intorno ha stese.

 Segue la pioggia impetuosa, e cresce

Il rio così, che fuor del letto n’esce.

LXXVI.

      Come talor nella stagione estiva,

 Se dal Ciel pioggia desiata scende,

 Stuol d’anitre loquaci in secca riva

Con rauco mormorar lieto l’attende:

 E spiega l’ali al freddo umor, nè schiva

 Alcuna di bagnarsi in lui si rende:

 E là ’ve in maggior copia ei si raccoglia,

Si tuffa, e spegne l’assetata voglia;

LXXVII.

      Così gridando, la cadente piova,

 Che la destra del Ciel pietosa versa,

 Lieti salutan questi: a ciascun giova

La chioma averne, non che ’l manto, aspersa.

 Chi bee ne’ vetri, e chi negli elmi a prova:

 Chi tien la man nella fresca onda immersa:

 Chi se ne spruzza il volto, e chi le tempie:

Chi scaltro a miglior uso i vasi n’empie.

LXXVIII.

      Nè pur l’umana gente or si rallegra,

 E de’ suoi danni a ristorar si viene;

 Ma la terra, che dianzi afflitta ed egra

Di fessure le membra avea ripiene,

 La pioggia in se raccoglie, e si rintegra,

 E la comparte alle più interne vene:

 E largamente i nutritivi umori

Alle piante ministra, all’erbe, ai fiori.

LXXIX.

      Ed inferma somiglia, a cui vitale

 Succo l’interne parti arse rinfresca:

 E disgombrando la cagion del male,

A cui le membra sue fur cibo ed esca;

 La rinfranca, e ristora, e rende quale

 Fu nella sua stagion più verde e fresca:

 Tal ch’obliando i suoi passati affanni

Le ghirlande ripiglia, e i lieti panni.

LXXX.

      Cessa la pioggia alfine, e torna il Sole:

 Ma dolce spiega e temperato il raggio,

 Pien di maschio valor, siccome suole

Tra ’l fin d’Aprile, e il cominciar di Maggio.

 Oh fidanza gentil! chi Dio ben cole,

 L’aria sgombrar d’ogni mortale oltraggio:

 Cangiare alle stagioni ordine e stato:

Vincer la rabbia delle stelle, e ’l fato.

Commento

Il protagonista del canto tredicesimo è senza dubbio l’ elemento magico e naturale rappresentato nella prima parte dalla selva di Saron, popolata da incantesimi e presenze maligne, e nella seconda dal paesaggio circostante Gerusalemme, completamente inaridito a causa di un’ improvvisa siccità; entrambi mettono a dura prova i crociati, impossibilitati dapprima a ricostruire le macchine da guerra e successivamente a proseguire del tutto l’ assedio.
Il mago Ismeno è il vero eroe negativo per la sua astuzia e la sua prontezza (peraltro evidenziate anche in altri momenti del poema): costringe in virtù di un suo occulto potere gli spiriti dei caduti all’ interno dei fusti delle piante, tanto che dai rami spezzati sgorga sangue. La situazione ricorda molto il canto XIII dell’Inferno dantesco (nel quale compare Pier della Vigna) dove le anime dei suicidi sono confinate all’ interno di arbusti.  Il solo aspetto sinistro e minaccioso della foresta è sufficiente a sconvolgere gli animi di una squadra di carpentieri inviata dai cristiani, ma il mago ha previsto altri ostacoli per proteggere la selva: quando il prode Alcasto tenta di forzarne le barriere è costretto ad un’ ignominiosa ritirata dal terrore provato alla vista di una muraglia di fiamme, simile a quella incontrata da Dante nel XXVII canto del Purgatorio.  Convinto di sconfiggere gli incanti della selva, Tancredi si cimenta con gli ostacoli di Ismeno; al di là della barriera fiammeggiante che riesce valorosamente a superare trova però l’ atroce rivelazione delle oscure arti del mago. Nel fusto di un’ alto cipresso al centro di una radura è stata imprigionata l’anima di Clorinda, ed egli ancora una volta la colpisce facendone sgorgare il sangue e dandosi ad una precipitosa fuga dopo essersi reso conto del suo gesto.

Il comandante Goffredo di Buglione è sul punto di dedicarsi personalmente al problema quando sopraggiunge inaspettata una devastante siccità che porta all’ esaurimento delle forze in soldati e animali, e presto il malcontento serpeggia tra le truppe con aspre ma infondate critiche ai comandanti. Si verificano le prime defezioni,  alcuni contingenti nottetempo lasciano l’armata cristiana: Goffredo si rivolge con accorate e vibranti preghiere al cielo perché faccia cessare l’ insostenibile situazione.

La risposta non si fa attendere e inizia a scrosciare la pioggia portando benefico ristoro ai crociati e preoccupazione tra i gerosolimitani che, vivendo in una città dotata di giardini ombrosi e profondi pozzi non erano toccati dalla siccità e al tempo stesso si rallegravano delle difficoltà insorte nell’esercito assediante: ora le sorti sono mutate e per i cristiani, che finora hanno avuto la peggio, inizia la riscossa guidata dal favore divino.

Torquato Tasso – Nota Biografica

Torquato Tasso nacque a Sorrento l’ 11 marzo 1544  e morì a Roma il  25 aprile 1595. Dopo gli studi compiuti nella prestigiosa università di Padova entrò al servizio del duca Alfonso d’Este, signore di Ferrara; compose per la corte il dramma pastorale Aminta e iniziò la stesura di un poema sulla prima crociata, dal provvisorio titolo di Gierusilamme.
In questo periodo iniziarono a comparire i sintomi dello squlibrio mentale che colpì il poeta, fino a portarlo alla rinchiusione (durata sette anni) in un ospedale, nel corso della quale fu pubblicata la prima edizione della Gerusalemme Liberata; tra le altre opere si ricordano le Rime, raccolta di componimenti poetici,  il Re Torrismondo, e un completo rifacimento della Gerusalemme Liberataintitolato Gerusalemme Conquistata .