Galileo e la caduta dei gravi dalla Torre di Pisa

Galileo e la caduta dei gravi dalla Torre di Pisa

FONTE:https://digilander.libero.it/roberto20129/index.html


Secondo la leggenda, l’esperimento di caduta dei gravi dalla Torre di Pisa stabili per la prima volta in modo convincente che oggetti di peso diverso cadono alla stessa velocità, rovesciando in tal modo l’autorità di Aristotele. Questa leggenda è associata a una singola persona (il matematico, fisico e astronomo italiano Galileo Galilei), a un singolo luogo (il campanile pendente del Duomo di Pisa) e a un singolo episodio. Quanta verità c’è in questa leggenda, e quali sono i misteri che rimangono?

Galileo (1564-1642) nacque a Pisa in una famiglia amante della musica. Il padre, Vincenzio, era un famoso liutista e aveva una passione per esperimenti controversi, conducendo ricerche su intonazioni, intervalli e accordi in un modo che privilegiava l’orecchio contro l’autorità degli antichi dotti. Il figlio di Vincenzio dimostrò una volontà ugualmente forte. Il suo biografo Stillman Drake individuò due caratteri della sua personalità che furono essenziali per il suo successo scientifico. Il primo fu il suo « carattere pugnace », che non gli permise mai di arretrare e che lo rese ogni volta pronto a impegnarsi in battaglie « per rovesciare la tradizione e difendere la sua posizione scientifica ». Il secondo fu che la personalità di Galileo era ben equilibrata fra due estremi di temperamento. L’uno « trae piacere dall’osservazione delle cose, nota somìglianze e relazioni fra loro e forma generalizzazioni senza lasciarsi disturbare più di tanto da apparenti eccezioni e anomalie »; l’altro « si cruccia e preoccupa per qualsìasi deviazione inspiegata dalla norma [e] potrebbe preferire addirittura l’assenza di ogni regola a una regola che non funzionasse sempre con precisione matematica». Entrambi i caratteri sono importanti nella scienza, e tutti gli scienziati ne posseggono una combinazione, anche se di solito è uno di essi a prevalere. Ma il temperamento di Galileo, dice Drake, era equilibrato perfettamente verso questi due estremi. Per l’influenza esercitata da Galileo sul mondo fu essenziale anche l’abilità letteraria con la quale seppe rivolgersi al suo pubblico e convìncerlo.

Galileo si iscrisse all’Università di Pisa probabilmente nell’autunno del 1580 con l’intento di studiare medicina, ma a un certo punto fu affascinato dalla matematica. Nel 1589 riuscì a procurarsi un incarico di docente di matematica nella stessa università e cominciò a fare ricerche sulla caduta dei gravi. Insegnò nello Studio di Pisa per tre anni; se l’esperimento del campanile pendente ebbe mai luogo, dovrebbe essersi verifìcato in questo periodo. Verso la fine del 1592 Galileo si trasferì a Padova, dove visse per diciotto anni e fece gran parte dei suoi lavori scientifici più importanti, fra cui la costruzione di un cannocchiale. Quel « cannone occhiale », poi chiamato telescopio, gli permise di compiere osservazioni astronomiche importanti; Galileo fu per esempio il primo a osservare i quattro satelliti maggiori di Giove.

Il nuovo strumento fornì inoltre a Galileo la prima opportunità di suscitare grandi controversie, dato che le sue scoperte astronomiche contraddicevano il sistema geocentrico di Tolomeo (in cui il Sole, i pianeti e persino le stelle fisse si muovono intorno alla Terra), come pure la spiegazione aristotelica del moto, sostenendo invece il sistema eliocentrico copernicano (in cui la Terra e i pianeti orbitano intorno al Sole). A Padova Galileo divenne famoso anche per le sue complesse dimostrazioni dì leggi fìsiche, e tenne lezioni in un’aula che poteva contenere duemila persone. Nel 1610 tornò in Toscana, alla corte del granduca. Nel 1616 gli fu rivolta dalla Santa Inquisizione l’ingiunzione di non « difendere né tenere » la dottrina copernicana, ma sedici anni dopo, nel 1632, egli pubblicò un libro molto brillante, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano^ che, pur essendo stato licenziato dai censori, fu poi riconosciuto come una forte argomentazione a sostegno del sistema copernicano.

L’anno seguente, 1633, Galileo fu convocato a Roma dalla Chiesa cattolica e costretto ad abiurare («abiuro, maledico e detesto ») le sue eresie. Fu condannato agli arresti domiciliari, e trascorse gli ultimi anni nella sua villa di Arcetrì, sopra Firenze. Poco tempo prima della sua morte, divenuto cieco, potè servirsi dell’aiuto di un promettente giovane matematico, Vincenzio Vi-vìani, che divenne il suo discepolo e fedele segretario, e ne ascoltò pazientemente i ricordi, le elucubrazioni e gli sfoghi polemici. Dedicandosi alla conservazione della memoria di Galileo, Viviani scrisse infine la prima biografia di Galileo.

Noi dobbiamo alla appassionata biografia di Viviani molte famose leggende galileiane. Una è la storia del pendolo di Abramo: Viviani racconta come Galileo, quando era ancora uno studente di medicina nel 1581, misurò con la frequenza del polso le oscillazioni dì una lampada nel Duomo dì Pisa, scoprendo l’isocronismo del pendolo. Gli storici sanno che la lampada indicata oggi come la lampada di Galileo non può essere quella originaria, essendo stata installata nel 1587. Ciò non basta però a smentire il racconto di Viviani, poiché anche la lampada precedentemente appesa nello stesso luogo doveva sicuramente obbedire anch’essa alle leggi della fìsica. La più famosa fra le leggende narrate da Viviani racconta che Galileo salì sulla cima del campanile pendente dì Pisa e, « con l’intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca » e «con replicate esperienze», mostrò che «le velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravita loro, assegnatagli da Aristotele, anzi che si muovon tutti con pari velocità».

Nei suoi libri Galileo propone argomentazioni di vario genere, usando logica, esperimenti mentali e analogie per descrivere perché due oggetti di peso diverso cadranno nel vuoto con la stessa velocità. Senza menzionare esplicitamente Ìl campanile pendente del Duomo di Pisa, Galileo riferisce dì avere fatto esperimenti all’aperto con una palla da cannone e con una palla da moschetto, trovando come regola generale che esse cadono a terra quasi nello stesso tempo. La sua meticolosa menzione dì questo discostamento da quella che sembrava la generalizzazione appropriata, come pure l’omissione di questo fatto da parte di Viviani – più il fatto che lo stesso Viviani è la nostra unica fonte dell’episodio della torre pendente — alimentano lo scetticismo di molti storici sulla verità storica di questo evento. Ma qualunque giudizio si ritenga di dover dare sulla realtà storica o meno dell’esperimento del campanile pendente, molto più importante fu la rivoluzione concettuale che condusse Galileo dall’iniziale cornice aristotelica alle sue posteriori analisi del moto. La filosofìa naturale di Aristotele – che comprendeva la sua spiegazione del moto e che noi chiameremmo oggi la sua fìsica — forniva un sistema coerente e pienamente articolato, fondato sull’idea di una Terra centrale stazionaria e un mondo celeste in cui gli oggetti si comportano in un modo molto diverso che sulla Terra. Per Galileo dubitare del sistema aristotelico, e poi sfidarlo, significava mettere in discussione entrambi questi aspetti: l’idea di una Terra immobile al centro dell’universo, e la spiegazione dei moti sulla Terra.

Un carattere centrale della concezione aristotelica dell’universo era che cìelo e Terra erano due ambiti sostanzialmente distinti composti da tipi diversi di sostanze e governati da leggi diverse. I moti dei corpi celesti erano ordinati, precisi, regolari e matematici, mentre i moti sulla Terra erano disordinati e irregolari, e potevano essere descritti solo qualitativamente. Inoltre i moti dei corpi terrestri erano governati dalla loro tendenza a cercare il loro « luogo naturale »; per i corpi gravi questo era in basso verso Ìl centro della Terra. Aristotele distingueva così fra un moto innaturale o « violento » dei corpi gravi verso l’alto e il loro « moto naturale » verso il basso.

Aristotele aveva osservato il moto dei corpi in caduta libera e aveva notato che la loro velocità sembrava variare in mezzi diversi a seconda che questi fossero « più sottili », come l’aria, o « più densi », come i liquidi. Egli notò che nel moto di caduta i corpi raggiungono una determinata velocità, proporzionale al loro peso. Queste idee si conciliano con la nostra esperienza quotidiana. Se noi lasciamo cadere simultaneamente da una finestra una palla da golf e una pallina da pingpong, la palla da golf cadrà più velocemente e colpirà il suolo distintamente prima. Se lasciamo cadere la palla da golf in una piscina, essa scenderà nell’acqua più lentamente che nell’aria, e sarà preceduta nella sua discesa verso il fondo da una palla d’acciaio lasciata cadere nell’acqua contemporaneamente. Similmente, i martelli cadono più velocemente delle piume. Aristotele aveva codificato queste nozioni in una cornice — ossia in quello che i filosofi della scienza avrebbero chiamato in seguito un « paradigma » — al cui interno cercava di spiegare i fenomeni quotidiani. Per esempio, un agente (come un cavallo) per mantenere un corpo (un carro) in movimento doveva superare degli impedimenti (come l’attrito e altri tipi di resistenza). In queste circostanze familiari, un moto rappresenta quasi sempre un equilibrio fra forza e resistenza. Aristotele affrontò perciò il problema dei corpi in caduta come un problema in cui una forza (una tendenza naturale, come la vedeva lui, a muoversi verso Ìl centro dell’universo) era controbilanciata da una resistenza (la densità o tenuità – noi diremmo « viscosità » – del mezzo in cui si muovono). Concluse anche che, in assenza di un mezzo resistente, la velocità dei corpi in caduta libera sarebbe infinita.

In termini moderni, l’approccio di Aristotele non spiega in modo adeguato l’accelerazione. Gli studiosi avevano cominciato a sospettarlo molto tempo prima di Galileo. Già nel VI secolo d.C, il dotto bizantino Giovanni Filopono scrisse di esperimenti che contraddicevano Aristotele: « Poiché se lasci cadere dalla stessa altezza due pesi, di cui uno molte volte più pesante dell’altro, vedrai che il rapporto dei tempi richiesti per il moto non dipende dal rapporto dei pesi, ma che la differenza di tempo è molto piccola». E così, continuò Filopono, se un corpo pesasse il doppio dell’altro, « non ci sarà differenza, o solo una differenza impercettibile, di tempo».

Nel 1586, sei anni prima che Galileo andasse a insegnare matematiche a Padova, il fisico e ingegnere fiammingo Simon Stevìn scrisse di esperimenti i quali dimostravano che Aristotele era in errore. Stevin lasciò cadere due palle di piombo, una delle quali era dieci volte più pesante dell’altra, da un’altezza di circa nove metri su un’asse di legno, così che le due palle cadendo facessero dei rumori udibili. « GÌ si accorgerà che la più leggera non impiegherà un tempo dieci volte maggiore di quello impiegato dalla più pesante, ma che esse cadono insieme sull’asse, così contemporaneamente che i loro suoni sembrano essere uno solo e un solo colpo. »5 Aristotele, in breve, era in errore su questo punto.

Durante la vita di Galileo, anche vari studiosi italiani del Cinquecento riferirono su esperimenti di caduta libera che contraddicevano Aristotele. Fra di essi c’era un professore che insegnò allo Studio di Pisa quando Galileo vi studiava medicina: l’aretino Girolamo Borro. Questi scrisse di avere « lanciato » ripetutamente — il verbo da lui usato è ambiguo — degli oggetti di ugual peso ma di diversa grandezza e densità, trovando curiosamente ogni volta che i corpi più densi cadevano più lentamente degli altri.

Come le opere di tutti i grandi scienziati che spaziarono su orizzonti molto vasti, le ricerche di Aristotele sono costellate di errori e pecche. Fino a Galileo, però, i pensatori europei non considerarono molto gravi tali errori. La grande impresa di Galileo consistette nell’avere dimostrato che la teoria dei moti locali di Aristoteie era connessa inestricabilmente con un’intera cornice scientifica implicante molto di più dei corpi in caduta libera, e che una spiegazione del moto che spiegasse adeguatamente il moto dei corpi in caduta libera doveva includere anche il fenomeno dell’accelerazione, che richiedeva la costruzione di un sistema di riferimento intellettuale del tutto nuovo. Aristotele sapeva che i corpi lasciati liberi di cadere acquistano velocità (accelerano il loro moto) durante la caduta, ma pensava che questo dato non fosse essenziale alla caduta libera, ma fosse piuttosto un carattere accidentale e privo di importanza che si manifestava fra il tempo in cui un corpo veniva lasciato Ubero di cadere e quello in cui acquisiva la sua velocità naturale uniforme. All’inizio Galileo condivise quest’opinione, ma ben presto si rese conto non solo dell’importanza dell’accelerazione ma anche del fatto che essa non poteva essere semplicemente «aggiunta» al sistema aristotelico. Se Aristotele era in errore sul modo in cui i corpi cadevano, la sua opera non poteva essere corretta ma doveva essere ricostruita completamente.

Galileo non pervenne però immediatamente a questa conclusione, e prese l’avvio dall’assunto allora normale che la teoria di Aristotele fosse corretta. E nessuna prova contraria fu abbastanza convincente da fargli cambiare idea. Egli pervenne infine ai suoi risultati rivoluzionari attraverso la somma delle sue ricerche: quelle astronomiche e quelle del mondo sublunare implicanti pendoli e gravi cadenti.

Nella sua prima discussione sul comportamento dei gravi in caduta libera, in un manoscritto inedito intitolato De motu (scritto quando era all’Università di Pisa), Galileo si mantenne fedele alla nozione di Aristoteie che Ì corpi cadano con una velocità uniforme dipendente dalla loro densità, una delle « regole universali delle proporzioni dei mobili naturali », come si esprime Galileo. Una palla d’oro dovrebbe cadere con una velocità doppia rispetto a una di ugual volume fatta d’argento, poiché la prima ha una densità quasi doppia della seconda. Galileo evidentemente tentò dì verifìcare quest’asserzione, ma l’esperimento non funzionò. « Se infatti si prendono due corpi diversi, i quali abbiano proprietà tali che l’uno dovrebbe muoversi con velocità doppia rispetto all’altro, e li si lascia cadere da una torre », riferì, « il primo non toccherà il suolo con velocità sicuramente maggiore, con velocità doppia». Nello stesso capitolo del De motu Galileo fece anche la bizzarra asserzione che all’inizio del movimento di caduta il corpo più leggero precede il grave ed è più veloce.

Quest’affermazione ha suscitato qualche dubbio sulla sincerità di Galileo o sulle sue capacità di sperimentatore.

In capo a qualche anno Galileo aveva cambiato opinione sulla caduta dei corpi e aveva completamente abbandonato il sistema aristotelico. Il processo di ricerca che lo condusse a questi risultati fu complesso e implicò molte forme di osservazione e di pensiero, e non limitate ai moti terrestri. Gli studiosi di Galileo hanno ricostruito molte cose attraverso un’analisi minuziosa, pagina dopo pagina, dei suoi taccuini. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632) e nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), Galileo presenta una serie di argomentazioni sul comportamento dei corpi in caduta libera. Stranamente, ai nostri occhi, queste due opere espongono le idee di Galileo nella forma di un’ampia conversazione che si svolge nel corso di varie giornate fra tre uomini: Salviati, che rappresenta le idee di Galileo; Simplicio (il nome di un commentatore di Aristotele), che esprìme la posizione del filosofo e probabilmente anche la posizione iniziale di Galileo (e che, come lascia intendere il suo nome, è sostanzialmente un sempliciotto); e Sagredo, un gentiluomo colto che rappresenta la voce del buon senso educato. Questa forma letteraria permise a Galileo molta libertà nel discutere problemi politicamente e teologicamente delicati, e specialmente il sistema copernicano, senza aver l’aria di impegnarsi personalmente. Se Salviati esponeva un’argomentazione « eretica », Galileo poteva sempre difendersi dicendo che era un carattere immaginario, le cui opinioni non erano necessariamente approvate da lui. La forma dialogica permetteva inoltre a Galileo di esplorare vari modi di presentazione dei suoi argomenti. Gli argomenti di Salviati, quindi, non colgono necessariamente il vero processo mentale di Galileo, ma piuttosto ne ricapitolano le conclusioni.

In entrambi i libri Salviati e Sagredo discutono vari esperimenti che sostengono di avere compiuto con corpi di diverso peso e composizione. Nel corso della discussione presentata nella Prima giornata dei Discorsi, Salviati rifiuta l’affermazione dì Aristotele di avere sperimentato se i corpi pesanti cadono più velocemente di quelli leggeri. Poi Sagredo dice:

Ma io, Sig. Simplicio, che n’ho fatto la prova, vi assicuro che una palla d’artiglieria, che pesi cento, dugento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo solamente l’arrivo ìn terra della palla d’un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di dugento braccia […].

Salviati aggiunge poi che: « parmi che ben potremo con molto probabil coniettura credere che nel vacuo sarebbero le velocità loro del tutto eguali». In seguito, nella Quarta giornata, osserva: … Ìl mostrarci l’esperienza che due palle di grandezza eguale, ma di peso l’una 10 o 12 volte più grave dell’altra, quali sarebbero, per esempio, una di piombo e l’altra di rovere, scendendo dall’altezza di 150 o 200 braccia, con pochissimo differente velocità arrivano in terra, ci rende sicuri che l’impedimento e ritardamento dell’aria in amendue è poco.

Salviati può ben essere stato un personaggio di comodo, ma stava chiaramente riferendo sulle ricerche di Galileo. La sua affermazione di avere compiuto un esperimento dimostra, secondo la maggior parte degli storici, che Galileo lasciò effettivamente cadere oggetti di vario peso per poter verifìcare i risultati riferiti da Aristotele e contestarne la spiegazione dei moto. Lo fece da qualche torre — forse proprio dal campanile pendente di Pisa — e con confusione dei suoi colleghi aristotelici, i quali riconobbero da altri argomenti di Galileo che le sue ricerche facevano presagire gravi conseguenze: non solo per la spiegazione aristotelica dei moti sublunari, ma anche per il resto del suo sistema. E vero che anche alcuni predecessori dì Galileo avevano dimostrato carenze nella spiegazione aristotelica del moto, ma Galileo fece qualcosa di più, mostrando quanto fosse cruciale questa parte del sistema di Aristotele, sviluppando una spiegazione alternativa del moto, sviluppando il pensiero astratto corrispondente e illustrandone l’importanza. Abbia o no fatto esperimenti di caduta dei gravi dal campanile pendente, Galileo fu la figura principale nella formulazione di un’alternativa alla teoria aristotelica del moto naturale di caduta.

Viviani lavorò bene presso il maestro. «Se non è vero è ben trovato », come dicono gli italiani, e noi abbiamo buone ragioni per conservare la tradizione dell’esperimento del campanile pendente di Galileo. Ma come e perché questo esperimento si affermò così saldamente nel folklore come punto di svolta nella transizione verso la scienza moderna?

Una ragione è la forza del racconto di Viviani, che nonostante la sua brevità è una scena di grande effetto. Pur essendo in generale accurato e preciso, Viviani stava anche scrivendo per un pubblico particolare — accademici umanisti, ecclesiastici, uomini politici e altri eminenti non scienziati — che non si curava tanto della matematica e dei dettagli tecnici, e che avrebbe invece concepito un grande interesse per una storia avvincente. « Si può supporre », scrisse lo storico della scienza Mìchael Segre, « che Viviani non immaginò mai che fra i suoi lettori ci sarebbero stati un giorno storici della scienza increduli».

Una seconda ragione è la tendenza della letteratura popolare e anche storica a concentrarsi su un singolo episodio per compendiare una serie complessa di eventi importanti. Nel caso del passaggio dalla teoria aristotelica del moto locale alla moderna scienza del moto, la leggenda degli esperimenti dal campanile pendente svolge egregiamente il suo compito, pur avendo l’effetto negativo di oscurare il contesto, lasciando intendere che quest’esperimento sìa stato all’origine della comprensione scientifica del moto da parte di Galileo e che le considerazioni sul moto abbiano avuto un’importanza preminente nell’urto fra le due visioni del mondo.

Un’ultima ragione è il nostro amore per storie come quelle dì Davide e di Golia (almeno se Davide è uno dei nostri), in cui una qualche autorità regnante viene denunciata come illegittima, umiliata ed eliminata con un abile trucco. Queste storie sembrano esaltare il nostro sapere.

Gli esperimenti, come altri tipi di attività, hanno una storia della creazione o della nascita che culmina nei primi risultati, e una storia della maturazione che comincia solo allora e copre tutto ciò che accade dopo: una biografìa, se così vi pare. Come la misurazione della circonferenza terrestre da parte di Erato-stene, la sperimentazione di Galileo sul moto dei corpi in caduta libera fu sia qualcosa che egli fece in un certo tempo e in un certo luogo, sia un modello per qualcosa che potrebbe essere rifatto in modi diversi con diversi oggetti, tecnologie e gradi di precisione. Nel corso del tempo la sperimentazione di caduta dei gravi da parte di Galileo partorì un genere di esperimenti e dimostrazioni che si possono considerare figli degli esperimenti del campanile pendente. Per esempio, l’invenzione, una dozzina dì anni dopo la morte di Galileo, della pompa pneumatica – che estrae aria da una camera a tenuta stagna, rendendo possibile la creazione di un vuoto (imperfetto) – permise ad altri scienziati, fra cui l’inglese Robert Boyle e l’olandese Willem ‘sGravesande, di verifìcare la tesi di Galileo che corpi di peso diverso cadono nel vuoto con ugual velocità.

Dimostrazioni scientificamente meno rigorose sulla caduta dei corpi nel vuoto continuarono a essere popolari anche nel Settecento, quando la nuova fisica iniziata da Galileo aveva sostituito quella dì Aristotele. Il re d’Inghilterra Giorgio III, per esempio, chiese con insistenza ai suoi costruttori di strumenti di realizzare una dimostrazione della caduta simultanea di una piuma e di una ghinea all’interno di un tubo svuotato. Un osservatore scrisse: Il signor Mlller […] amava raccontare di quando gli fu chiesto di spiegare l’esperimento con la pompa pneumatica della ghinea e della piuma al re Giorgio III. Nell’esecuzione dell’esperimento il giovane ottico fornì la piuma, ìl re fornì la ghinea e alla fine dell’esperimento il re si complimentò col giovane per la sua abilità come sperimentatore ma rimise frugalmente la ghinea nella tasca del suo panciotto.

Ancora nel Novecento qualche scienziato continuò a sperimentare con gravi in caduta libera, misurando i tempi di caduta esatti per verifìcare le equazioni per corpi in movimento con moto accelerato in un mezzo resistente. Uno di tali esperimenti fu compiuto ancora negli anni ’60 del Novecento, dalla torre meteorologica del Brookhaven National Laboratory a Long Island, a opera del fisico teorico Gerald Feinberg. « La ragione principale per rimettere in discussione un problema che è stato risolto da così lungo tempo », scrisse Feinberg, « è che i risultati della teorìa sono piuttosto contrari all’intuizione, o almeno all’intuizione di uno che è stato educato attraverso lo studio della legge di Galileo ». Le equazioni in uso da secoli avevano ancora bisogno di correzioni.13 L’esperimento del campanile pendente, evidentemente, può ancora sorprenderci.

L’esperimento della torre pendente affronta qualcosa di fondamentale: come si comportano i corpi gravi – dalle palle di cannone alle piume – sotto l’influenza di una forza che influisce su tutti noi. Il progetto dell’esperimento è sorprendentemente semplice, senza alcun fattore di adattamento misterioso: non occorre nemmeno un orologio. Ed è definitivo, lasciandoci con un tipo particolare di piacere, che si potrebbe chiamare l’«effetto sorpresa». Mentre comprendiamo la verità della cornice galileiana, viviamo in quella aristotelica. Se vivessimo sulla Luna, dove non c’è la resistenza dell’aria al moto di caduta dei gravi, il comportamento dei corpi in caduta nel vuoto ci sarebbe familiare e il risultato dell’esperimento non ci rivelerebbe nulla di inatteso. La nostra esperienza quotidiana ci conduce invece ad attenderci che gli oggetti si comportino nella maniera aristotelica, e ci ricompensa quando progettiamo l’esperimento in modo conforme. Quando prendiamo degli oggetti pesanti, essi premono sulle nostre mani più di quelli leggeri, dandoci l’impressione che dovrebbero cadere più velocemente, come se volessero tornare al luogo naturale a cui appartengono. Per questa ragione noi possiamo ancora provare piacere nella visualizzazione della cornice concettuale che viene violata, un’esperienza che rinforza ciò che conosciamo intellettualmente. Il piacere connesso a questa esperienza ricorda il gioco del fonda descritto da Freud, in cui il bambino fa sparire un piccolo oggetto e poi lo riporta subito dopo alla vista; qualcosa fa sempre divertire il bambino al ritorno dell’oggetto, anche se egli « sapeva » che l’oggetto era sempre stato presente.