GABRIELE D’ANNUNZIO LA VITA

GABRIELE D’ANNUNZIO

LA VITA

Nato nel 1863 a Pescara da una famiglia agiata, esordì nel 1879 con un libretto di versi, Primo vere, che ottenne benevola attenzione. Raggiunta la licenza liceale, si trasferì a Roma per frequentare l’università. Avendo abbandonato gli studi, acquistò notorietà, sia attraverso una vasta produzione in versi, opere, articoli ecc., sia attraverso una vita scandalosa, fatta di avventure galanti o duelli; sono gli anni in cui d’Annunzio si crea la maschera dell’esteta, considerando la propria vita un’”opera d’arte”. Dopo la crisi della fase estetizzata della sua vita, D’Annunzio cerca nuove soluzioni, e le trovò in un nuovo mito, quello del superuomo; ispirato a Nietzsche, questa nuova figura si carica oltre che della bellezza, anche di un’energia eroica e attiva. D’Annunzio puntava a creare l’immagine di una vita eccezionale (il “vivere inimitabile”), sottratta alle norme di vivere comune, che attirò l’attenzione di molti contemporanei tanto da alimentare un vero e proprio mito (cosiddetto dannunzianesimo). Attorno al suo mito si possono accostare i suoi amori, in particolare quello che la legò all’attrice Eleonora Duse.

Egli era molto legato alle esigenze economiche del suo Paese e per attirare l’attenzione pubblica si copriva di esibizioni clamorose e scandali. Gli editori lo pagavano molto bene, ma la sua vita lussuosa non era compensata dal denaro, che disprezzava, anche se era una contraddizione molto forte. D’Annunzio sognava di entrare in politica. Nel 1897 tentò l’avventura parlamentare come deputato dell’estrema destra, ma nel 1900, passò allo schieramento di sinistra (“Vado verso la vita!”). Per agire sulle folle, D’Annunzio utilizzò come strumento di diffusione delle sue idee il teatro, con la rappresentazione della Città morta, raggiungendo, così, un pubblico più vasto. A causa, però, dei suoi debiti, nel 1910 fu costretto a fuggire in Francia, in cui si adattò al nuovo ambiente letterario.

Allo scoppio della 1° guerra mondiale, D’Annunzio tornò in Italia e iniziò una forte campagna interventista, arruolandosi volontariamente. Riuscì nuovamente ad attirare a sé l’attenzione, con imprese come il volo su Vienna. Nel dopoguerra egli si fece interprete dei rancori della cosiddetta “vittoria mutilata” e si mise a capo di un battaglione di volontari e marciarono su Fiume. Scacciato con le armi nel 1920, sperò di proporsi come “duce” di una “rivoluzione” reazionari, ma fu battuto da Benito Mussolini. Il fascismo esaltò le doti di D’Annunzio, ma lo si guardava anche con sospetto e fu praticamente confinato in una villa del Gardone, dove trascorse lunghi anni, pubblicando alcune opere, e vi morì nel 1938.

 

GLI ESORDI

D’Annunzio esordisce giovanissimo sulla scena letteraria, con raccolte di liriche che riprendono la metrica barbara e il vitalismo “pagano” di Carducci, come Prime Vere e Canto Novo; trovi anche spunti diversi, come il fascino ambiguo della morte. La raccolta di novelle Terra vergine (1882, corrispettivo in prosa del Canto Novo) è inspirata alla Vita dei campi di Verga, ma sia la tecnica narrativa, sia la rappresentazione della realtà rurale appaiono lontane dal Verismo.

L’ESTETISMO E LA SIA CRISI

Le liriche dannunziane degli anni ’80 mostrano una tendenza estetizzante nella quale si coglie l’influsso dei poeti decadenti francesi e inglesi. In questa fase il poeta concepisce l’arte come valore supremo cui devono essere subordinati tutti gli altri valori, ivi compresi quelli morali. Sul piano letterario, si ha il culto religioso dell’arte e della bellezza; la poesia non sembra nascere dall’esperienza vissuta, ma da altra letteratura. D’Annunzio non si accontenta si sognare, rifugiandosi nella letteratura, ma vuole vivere l’artista risanato anche nella realtà. L’estetismo d’annunziano entra in crisi verso la fine degli anni ’80 , quando lo scrittore avverte che l’isolamento dell’artista dal mondo in rapida evoluzione finisce per diventare impotenza. Tale crisi si rispecchia nel romanzo “Il Piacere” (1889), il cui protagonista, Andrea Sperelli, raffinato cultore del bello, va incontro a una dura sconfitta esistenziale, causatagli dalla donna fatale. Ma questo romanzo non rappresenta il definitivo distacco dalla figure dell’esteta da parte di D’Annunzio. L’opera si concentra sui processi interiori del protagonista, configurandosi come romanzo psicologico, ed è percorsa da una sottile trama di allusioni simboliche, secondo una tendenza che si consoliderà nella successiva produzione. Al Piacere succede una fase di stanchezza e di ripiegamento su sentimenti e affetti intimi (fase della “bontà”), documentate dalla raccolta di liriche Poema Paradisiaco ( desiderio di recuperare l’innocenza dell’infanzia), e dai romanzi ispirati alla narrativa russa, come l’Innocente (1892, esigenza di rigenerazione e purezza). La “bontà” è solo una fase provvisoria.

IL SUPEROMISMO

La lettura di Nietzsche (1892) imprime una svolta in un senso vitalistico, eroico e aggressivo al pensiero dannunziano. Egli si scaglia violentemente contro la realtà borghese. Il motivo del superuomo è infatti interpretato dallo scrittore come senso del diritto di pochi essere eccezionali a dominare le masse, ponendosi al di sopra di ogni legge morale. A livello politico, l’artista-superuomo assume una funzione di “vate”, un élite, attribuendosi il compito di strappare la nazione alla sua mediocrità e di avviarla verso il futuro imperialista e colonialista.

Come nel caso dell’estetismo, anche il superomismo rappresenta una reazione all’emarginazione dell’intellettuale nella società moderna: se l’esteta si isola dalla realtà, il superuomo cerca di dominarla in nome di una superiorità fondata sul culto del bello.

I ROMANZI DEL SUPERUOMO

Il superomismo caratterizza i 4 romanzi pubblicati tra il 1894 e il 1910:

Trionfo della Morte, rappresenta una fase di transizione, dove l’eroe, Giorgio Aurispa, è ancora un’esteta, non diverso da Andrea Sperelli. Il suicidio del protagonista aiuta D’Annunzio a fare quel passo avanti per affrontare un nuovo cammino, quello del superuomo.

Le Vergini delle Rocce, segna una svolta ideologica radicale, in cui l’eroe, Claudio Cantelmo, forte e sicuro, va senza esitazioni verso la sua metà. Il romanzo si conclude, però, con la perplessità di scegliere la donna ideale, rimanendo sconfitto e incapace di tradurre l’aspirazione in azione.

Il Fuoco si propone come “manifesto artistico del superuomo”, ma anche qui l’eroe, Stelio Effrena deve affrontare forze oscure, che prendono, come sempre, forma in una donna. Il romanzo si conclude con il sacrificio di questa donna e non si assiste alla realizzazione del progetto dell’eroe.

Forse che si forse che no, in cui il protagonista, Paolo Tarsis, realizza la sua volontà nel volo aereo. Ma anche questa volta si oppone al superuomo una “Nemica”, una donna fatale. Il romanzo, comunque, finisce con la ritrovata vitalità del personaggio.

Si tratta però di un superomismo problematico, accompagnato da tensioni di segno opposto: i protagonisti restano quasi sempre deboli e sconfitti perché fatalmente attratti dalla decadenza e dalla morte, rappresentata da figure femminili dal fascino oscuro e perverso. Dal punto di vista formale, questi romanzi confermano e potenziano l’imposizione psicologica e simbolica già emersa nel Piacere e si assume un protagonista “inetto“, malato e corroso nelle sue forze vitali.

LE OPERE DRAMMATICHE

La concezione superomistica ha un peso determinante nell’approdo di D’Annunzio al teatro (1896), che offre al poeta-vate un efficace strumento di diffusione di idee presso un vasto pubblico. Egli si avvicina anche al teatro per la suggestione della grande attrice Eleonora Duse, con cui intrattiene una lunga relazione. Rifiutando le forme borghesi e realistiche del dramma contemporaneo, lo scrittore elabora un “teatro di poesia”, che mostra ed elogia la realtà moderna oppure riporta in vita l’antico spirito tragico. Un caso a sé è rappresentato dalla “tragedia pastorale”. La Figlia di Iorio (1904), ambientata in Abruzzo, mitico e fuori dal tempo, nel quale si scatenano le pulsioni irrazionali dell’eros e della violenza e si riproducono le forme del linguaggio popolare.

LE LAUDI

D’Annunzio progetta di affidare la summa della sua visione a sette libri di liriche dal titolo Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Il 1° volume, Maia (1903), è un lungo poema pervaso dallo slancio vitalistico, dal desiderio di sperimentare ogni aspetto della realtà, ivi compresa quella moderna e industriale (masse operaie possono essere un docile strumento nelle mani del superuomo) , celebrata nella sezione della “città terribile”. Dal punto di vista formale, il poema segna l’abbandono della metrica “barbara” a favore del verso libero, adottato anche nelle Laudi successive. La retorica politica caratterizza il 2° volume, Elettra (1904), che rievoca il glorioso passato italiano, indicandolo come modello su cui costruire il presente e il futuro. Nel 3° libro, Alcyone (1904), al discorso ideologico si sostituisce il tema lirico della fusione panica (da panismo, cioè la realtà individuata dall’uomo)  e “dionistica” con la natura. Le liriche si ordinano come le stagioni (quella estiva è vista come quella più propizia). “Solo la parola magica del poeta-superuomo può cogliere l’armonia e la segretezza della natura”; la più importante lirica e La Pioggia nel pineto. L’opera può essere considerata tra le principali manifestazioni della poetica simbolica-decadente in Italia. I libri successivi Merope e Asterope sono dedicati rispettivamente all’impresa in Libia e alla 1° guerra mondiale. Gli ultimi 2 libri delle Laudi non furono mai scritti.

 

IL PERIODO “NOTTURNO”

Nell’ultima fase della sua produzione, definita comunemente “notturna”, a causa dell’improvvisa cecità e dal titolo dell’opera più significativa, Notturno (1921), D’Annunzio abbandona il romanzo e si avvicina alla prosa lirica, frammentaria, (cioè facendo delle libere associazioni, fondendo passato e presente, attraverso la memoria), di argomento autobiografico e dal registro stilistico più misurato.


LA PIOGGIA NEL PINETO

 

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell’aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, Ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani

ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

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