FRANZ KAFKA LETTERA AL PADRE

FRANZ KAFKA LETTERA AL PADRE

Il conflitto con il padre è uno dei temi principali della narrativa primonovecentesca. Esso assume particolare rilievo in Kafka e in Tozzi, ma è presente anche in Pirandello e in Svevo. La figura prepotente, aggressiva, sicura di sé del padre ha una funzione castrante per il figlio: l’inettitudine di quest’ultimo nasce anche dalla violenza del padre e dall’impossibilità di assumerne a modello la figura. Di qui anche la difficoltà di diventare adulti e di sposarsi. In questa lettera al padre, Kafka spiega le ragioni del fallimento dei suoi due tentativi matrimoniali, riportandole all’influenza psicologica negativa esercitata dal genitore. L’unico terreno che il giovane Franz Kafka avverte come proprio, in quanto inaccessibile al padre, è quello della scrittura letteraria, vissuta come compensazione e segreto riscatto. In ogni altro campo, invece, non può che essere schiacciato dalla invadente personalità paterna.

“Ricordo che una sera stavo passeggiando con te e la mamma sulla Josephp Platz[1], vicino all’attuale sede della Landerbank, e con aria da spaccone, in un tono di stupida superiorità, altezzoso, indifferente (non era vero), freddo (lo era), balbettando come solitamente mi accadeva parlando con te, cominciai a discorrere di «quelle» cose[2]. Vi rimproverai per avermi lasciato nell’ignoranza, dissi che sulla questione mi avevano dovuto illuminare i compagni di scuola, che avevo corso gravi pericoli (e qui mentivo sfacciatamente, com’era mia consuetudine, per mostrarmi coraggioso, mentre evo talmente codardo che di quei «gravi pericoli» avevo solo una vaga idea); alla fine lasciai capire che ora fortunatamente sapevo tutto, che non mi servivano consigli e tutto era risolto. Avevo cominciato a parlare dell’argomento soprattutto perché desideravo affrontarlo almeno a parole, poi anche per curiosità e infine per vendicarmi di voi, mosso da un qualche oscuro motivo. La tua reazione fu di grande semplicità, com’era nel tuo carattere: dicesti solo, all’incirca, che potevi consigliarmi su come sbrigare quelle cose senza pericolo[3] Forse volevo provocare proprio ma risposta dei genere, adeguata alla lascivia[4]  dei ragazzo ipernutrito di carne e d’ogni tipo di leccornie, fisicamente impacciato, sempre concentrato su di sé, ma il mio apparente pudore ne fu a tal punto ferito, o ritenni dovesse esserlo a tal punto, che contro la mia volontà non riuscii più a parlarne con te e interruppi il colloquio con insolente altezzosità.

Non è facile dare un giudizio sulla tua risposta di allora: da un lato ha qualcosa di brutalmente esplicito, quasi primordiale; dall’altro, per l’insegnamento che contiene, è spregiudicatamente moderna. Non ricordo quanti anni avessi allora, certo non più di sedici. Per il ragazzo che ero, si trattava comunque di una risposta singolare, e il distacco esistente tra noi è dimostrato anche dal fatto che questo fu il primo insegnamento diretto sui problemi della vita impartitomi da te. Ma il suo vero senso – già allora mi rimase impresso, e solo molto più tardi riaffiorò semincoscio alla mente – era il seguente: tu mi consigliavi, secondo la tua opinione e ancor più secondo la mia di allora, la cosa più sporca che esistesse.[5] …

Vent’anni dopo si è verificato tra noi uno scontro analogo in circostanze del tutto diverse, un fatto di per sé atroce e tuttavia molto meno dannoso, non essendoci ormai più molto da danneggiare in me, a trentasei anni. Mi riferisco a una breve discussione in uno dei giorni tempestosi seguiti alla notizia del mio ultimo progetto matrimoniale. Tu mi hai detto press’a poco: «Quella si dev’essere messa addosso una camicetta elegante, le ebree di Praga ci sanno fare, e tu naturalmente hai deciso subito di sposarla. E al più presto possibile, la settimana prossima, domani, oggi. lo non ti capisco, insomma, sei un uomo maturo, vivi in città e non sai far di meglio che sposare la prima arrivata. Non credi che ci siano altre soluzioni? Se hai paura, vengo io con te». Hai parlato più dettagliatamente e in modo più chiaro, ma non riesco a ricordare i particolari. Forse la vista mi si era un po’ annebbiata, quasi badavo più alla mamma che, pur essendo pienamente d’accordo con te, tuttavia prese qualcosa dal tavolo e usci dalla stanza.

Mai le tue parole mi hanno così profondamente umiliato e mai mi hai dimostrato in maniera più chiara il tuo disprezzo. Quando vent’anni prima mi avevi fatto un discorso analogo, vi si sarebbe potuto intravvedere, dal tuo punto di vista, persino un certo rispetto per quel precoce adolescente di città già maturo, a tuo avviso, per esser iniziato alla vita senza tanti giri viziosi. Oggi quel ricordo potrebbe solo aumentare il tuo disprezzo, perché l’adolescente che allora stava prendendo lo slancio si è bloccato e oggi non ti sembra arricchito di nessuna esperienza, è solo più penoso con quei suoi vent’anni in aggiunta. …

L’intenzione che sosteneva i due tentativi [matrimoniali] era assolutamente corretta: fondare una famiglia, diventare indipendente. Un’intenzione che approvi, ma nella realtà accade poi come in quel gioco infantile in cui uno prende la mano dell’altro, la tiene stretta e continua a dire: «Ma vattene insomma, vattene, perché non te ne vai?». Il nostro caso era ulteriormente complicato dal fatto che tu hai sempre inteso quel «vattene» in buona fede, perché senza saperlo mi hai sempre tenuto stretto, o meglio tenuto soggiogato, solo grazie alla forza del tuo carattere.

Entrambe le ragazze erano state scelte a caso, certo, ma la scelta si era rivelata straordinariamente felice. …

Nessuna delle due ragazze mi ha deluso, io invece ho deluso entrambe. Il mio giudizio su di loro è oggi esattamente lo stesso di allora, quando volevo sposarle. …

Perché dunque non mi sono sposato? C’erano alcuni ostacoli, come sempre accade, ma la vita consiste proprio nell’accettare tali ostacoli. Però l’ostacolo di fondo, purtroppo indipendente dal caso singolo, era la mia dichiarata inabilità spirituale al matrimonio. Lo dimostra il fatto che dal momento in cui decido di sposarmi, non riesco più a dormire, ho la testa in fiamme giorno e notte, non vivo più, giro disperato, barcollando. E non sono le preoccupazioni in sé a ridurmi in questo stato, anche se vi concorrono a migliaia favorite dalla mia malinconia e pedanteria. Eppure non sono l’elemento decisivo: portano sì a compimento il loro lavoro sul cadavere, come vermi, ma ciò che mi frena in maniera determinante non è questo. E’ la morsa simultanea dell’angoscia, della debolezza, del disprezzo di me stesso.

Voglio cercare di essere più chiaro: in questi miei tentativi cozzano tra loro, con una forza non rilevabile altrove, due elementi apparentemente opposti, interni al rapporto tra noi. Il matrimonio è certo una garanzia di liberazione assoluta e di indipendenza. lo avrei una famiglia, vale a dire la meta più alta che a mio avviso si possa raggiungere, una meta che tu hai raggiunto, e quindi saremmo alla pari, l’antica e sempre nuova vergogna e tirannia apparterrebbero al passato. Sarebbe meraviglioso, ma proprio qui sta la radice dei problema. E una meta troppo alta, così in alto non si può arrivare. E come se uno fosse prigioniero e avesse non solo l’intenzione di fuggire, cosa forse possibile, ma anche e contemporaneamente l’intenzione di trasformare il carcere nel suo castello di campagna. Però se fugge non può trasformare, e se trasforma non può fuggire. Se voglio liberarmi dal rapporto particolarmente infelice che ho con te, devo intraprendere qualcosa che tronchi il più nettamente possibile ogni legame. Il matrimonio sarebbe la soluzione ottimale, procurerebbe l’indipendenza più rispettabile, ma al tempo stesso è troppo strettamente legato a te. Cercare una via d’uscita ha qualcosa di folle, e la follia minaccia di punire ogni mio tentativo.

In parte, però, è proprio questo stretto legame a spingermi verso il matrimonio. lo vagheggio la parità che si instaurerebbe tra noi e che tu potresti capire come nessun altro, e sarebbe così bella proprio perché allora io diventerei un figlio libero, riconoscente, incolpevole, sincero, e tu un padre rasserenato, non dispotico, comprensivo, soddisfatto. Ma bisognerebbe che tutto quanto è accaduto non fosse accaduto: il che equivale a cancellare noi stessi.

Così come siamo, invece, quel legame mi preclude[6] il matrimonio, perché rimane un tuo ambito esclusivo, A volte immagino la carta della Terra spiegata e tu sopra, disteso di traverso. Ed è come se, per la mia vita, potessi prendere in considerazione solo le zone che tu non copri o che sono fuori dalla tua portata. E in conformità all’immagine che mi sono fatta della tua grandezza, non sono molte, queste regioni, né molto confortanti, e il matrimonio non vi è compreso. …

Ma l’ostacolo maggiore al matrimonio è la convinzione ormai profondissima che per mantenere una famiglia e poterla guidare occorre necessariamente tutto ciò che io ho individuato in te, e tutto insieme, buono e cattivo, come è fisiologicamente riunito in te, quindi forza e disprezzo del prossimo, buona salute e una certa smodatezza, talento oratorio e inadeguatezza, fiducia in sé e insoddisfazione verso gli altri, senso del dominio e tirannia, conoscenza degli uomini e diffidenza verso la maggior parte di essi; e infine anche qualità prive di difetti come solerzia, tenacia, presenza di spirito, imperturbabilità.”

[1] sulla Josephplatz… a Praga

[2] “quelle cose”: il sesso

[3] come sbrigare…pericoli: cioè come avere rapporti sessuali senza correre il rischio di prendere qualche malattia infettiva

[4] lascivia: sensualità

[5] la cosa…esistesse: frequentare le prostitute

[6] preclude: impedisce

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