FILIPPO TOMMASO MARINETTI
Fu scritto e pubblicato per la prima volta in francese nel 1909, presso la casa editrice parigina Sansot. Marinetti ne aveva preannunciato l’uscita dal 1902, con il titolo Les porteurs du soleit, poi cambiato in Le roi des chaudes e, infine, in Mafarka le futuriste, roman africain. Venne poi tradotto in italiano da Decio Cinti. Per alcune descrizioni, l’autore subì nel 1910 un processo; difeso da Luigi Capuana (intervenuto in qualità di “esperto”), fu assolto in giudizio di primo grado, ma poi condannato in Cassazione.
L’opera è dedicata ai «grandi poeti incendiari» (Gian Pietro Lucini, Paolo Buzzi, Federico De Maria, Enrico Cavacchioli, Corrado Govoni, Libero Altomare, Aldo Palazzeschi) e si compone di dodici capitoli titolati. Marinetti ripropone, con il medesimo tono dei suoi celebri manifesti, il richiamo all'”ordine” futurista, alla polifonia stilistica, al disprezzo per il sentimentalismo, alla glorificazione della guerra «sola igiene del mondo». Nel «paesaggio africano di deserti infuocati e palmizi in cui si spandono intensi gli odori di corpi e piante», è facile riconoscere lo sfondo dei racconti appassionati dei griot, i cantastorie arabi che l’autore aveva ascoltato durante l’infanzia. La storia di questo «romanzo africano» è quella di Mafarka-el-Bar, re di Tell-el-Kibir: un sovrano che ama la guerra, disprezza le donne e ha come consigliere il sole. Egli è l’eroe emblematico della dimensione mistico-filosofica del Futurismo.
E proprio grazie a questa sorta di Golgota marino, infatti, che il re (e con lui lo stesso Marinetti) può redimersi, insieme, dal proprio sentimento di colpa e dal proprio passato. Per il protagonista è ora di pensare al futuro. Dopo aver attraversato misteriosamente una montagna, a causa di uno strano vento che lo spinge verso una caverna per farlo poi uscire dal lato opposto, vive una sorta di rinascita. La generazione di un nuovo io presuppone la morte del vecchio, e Mafarka, nell’ultimo discorso rivolto ai soldati, rivela il suo grande progetto: creare, grazie al solo concorso della propria possente volontà, e anche a costo della propria morte, un figlio: «io trasfonderò la mia volontà nel corpo nuovo di mio figlio! Egli sarà forte di tutta la sua bellezza, che non fu mai torturata dallo spettacolo della morte! E sappiate che io ho generato mio figlio senza il concorso della vulva!». La sua nuova religione uccide quella dell’amore per imporre la «Volontà estrinsecata», la «voluttà dell’eroismo», «dell’Unico». Questo «superuomo alato» è Gazurmah, l’«eroe senza sonno e perciò immortale». Egli è, ad un tempo, il figlio e la sublimazione di Mafarka, finalmente spoglio della sua imperfetta umanità. Gazourmah rappresenta l’archetipo dell’immaginario marinettiano: costruito in acciaio è dotato di ali, è perciò simbolo della forza e del movimento; è proiettato verso il futuro in quanto immortale e, soprattutto, è capace di trionfare sulla natura. Infatti, alzandosi in volo verso il cielo, Gazourmah riuscirà infine a prendere il posto del sole, corripiendo così l’ideale «deizzazione» dell’uomo futurista.
Il libro, che Marinetti definì un «grande romanzo esplosivo», rientra nel genere romanzesco solo per convenzione, perché – sempre secondo le parole dell’autore – «è, insieme, un canto lirico, un’epopea, un romanzo d’avventure e un dramma».