FEDERICO DE ROBERTO

FEDERICO DE ROBERTO


-Nacque a Napoli nel 1861, da un ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie e dalla nobildonna di origini catanesi.
Dopo la morte del padre nel 1870, si trasferì con la famiglia a Catania. Da allora, salvo una lunga parentesi milanese e una più breve a Roma, Federico visse all’ombra gelosa e possessiva di donna Marianna Asmundo.
Ebbe una prima formazione scientifica, alla quale affiancò presto l’interesse per gli studi classici e letterari, allargando la sua cultura al latino.
Il suo esordio letterario avvenne con il saggio Giosuè Carducci e Mario Rapisardi. Polemica, pubblicato a Catania dall’editore Giannotta nel 1881. Fu presto conosciuto negli ambienti intellettuali per la sua attività di consulente editoriale, critico e giornalista sulle pagine del Don Chisciotte e del Fanfulla della domenica.
Ebbe modo di conoscere Capuana e Verga con i quali strinse una salda amicizia.
Nel 1883 raccolse in un volume dal titolo Arabeschi, tutti i suoi scritti di arte e letteratura .
Decisivo fu per De Roberto il trasferimento a Milano nel 1888 dove fu introdotto da Verga nella cerchia degli Scapigliati, e conobbe Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa e Giovanni Camerana. Nel periodo del suo soggiorno milanese collaborò al Corriere della Sera e pubblicò diverse raccolte di novelle e romanzi, fra i quali quello che è considerato il suo capolavoro, I Viceré, nel 1894.
Nel 1897 ritornò a Catania dove rimase fino alla morte, salvo brevi viaggi nel continente. A Catania ebbe un incarico come bibliotecario e visse sostanzialmente appartato e deluso per l’insuccesso della sua opera narrativa.
Alla morte di Verga, nel 1922, De Roberto ne riordinò in modo accurato e iniziò uno studio biografico e critico che però rimase interrotto per la sua prematura morte avvenuta a Catania per un attacco di flebite il 26 luglio 1927.

I Vicerè è un romanzo storico nel quale si racconta la storia di un’antica famiglia catanese d’origine spagnola, gli Uzeda di Francalanza, sullo sfondo di un’Italia a cavallo tra il Risorgimento e l’unificazione. La narrazione comincia a metà dell’Ottocento, negli ultimi anni della dominazione borbonica in Sicilia. Il lettore è subito introdotto in un mondo di splendore, ma anche di prepotenza e di miseria, che appare, agli occhi contemporanei, familiare ed estraneo al tempo stesso. E’ questo uno dei punti di forza della storia: il mescolarsi del favoloso con il reale in un impasto di profondo fascino narrativo. Attraverso abili resoconti e descrizioni, si svelano i misteri, gli intrighi e le complesse personalità degli appartenenti alla famiglia, tutti dominati da grandi ossessioni e passioni. Le vicende degli Uzeda e le loro brighe, raccontati da un narratore onnisciente, rappresentano la società dell’epoca in rapido divenire, in cui “sopravvivere” significa essere schiavo di regole e tradizioni. In lotta l’un con l’altro, gli uomini della casata combattono per l’eredità della principessa defunta e per i desideri contrastanti di ognuno di loro. Il piccolo Consalvo, figlio del principe Giacomo XIV e della principessa Margherita, cresce così in una famiglia in perpetua guerra. E’ confortato nei suoi primi anni dall’amore della madre e dall’affetto della sorellina Teresa, ma si trova in conflitto, sin da bambino, con un padre superstizioso e tirannico, più interessato al patrimonio di famiglia che all’amore per i propri cari.  Il principe Giacomo, primogenito del casato, è vittima del potere della madre, e diventa, a sua volta, oppressore dei fratelli e delle sorelle. Si scontra con tutti coloro che non si piegano ai suoi desideri. La famiglia, lo Stato e la Chiesa, motori attorno ai quali gira il racconto, sono uniti in un solo credo: la sopraffazione. E’ la prevaricazione dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri e dei potenti sul popolo. Il messaggio che ci viene trasmesso è quello che, allora come oggi, sono spesso l’avidità, la sete di potere, la meschinità e gli odii privati a muovere gli uomini.  E’ un ciclo di situazioni che si ripetono sempre nell’arco degli anni; è una monotona reiterazione, in cui gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Così lo scrittore vuole rappresentare la civiltà di ieri e paragonarla ad oggi. La sua visione non è del tutto pessimista: l’amara presa di coscienza è il primo passo verso il cambiamento.

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