ENEIDE TRADUZIONE LIBRO XII VERSI 887-952

ENEIDE TRADUZIONE LIBRO XII VERSI 887-952

ENEIDE TRADUZIONE LIBRO XII VERSI 887-952


(Eneide, XII, 887-952)

Enea incombe e palleggia l’asta grande, simile a un albero e parla così, con cuore crudele: “Che indugio, adesso? Perché, Turno, esiti? Non bisogna combattere correndo, ma con armi crudeli, da vicino.  Trasformati pure in ogni forma, metti insieme quanto sei capace di fare, vuoi con il coraggio, vuoi con l’inganno; prova a seguire in volo le stelle irraggiungibili, o a nasconderti chiuso nella cava terra”. Quello, scuotendo il capo: “Non mi fanno paura le tue parole di fuoco, feroce: mi fanno paura gli dei, e Giove nemico”.

Senza dire di più, dopo aver rivolto intorno lo sguardo, vede un sasso enorme, un antico enorme sasso, che giaceva per caso nel terreno, pietra di confine posta al campo, per potere discernere le contese relative ai terreni: a stento dodici uomini scelti l’avrebbero sollevato sul collo , corpi d’uomini come quelli che la terra genera ora. Quell’eroe, ergendosi più alto e dato impulso alla corsa, cercava di scagliarlo contro il nemico, dopo averlo sollevato con mano tremante.  Ma non riconosce se stesso al correre, all’andare, né al sollevare il sasso né allo smuoverlo; le ginocchia cedono, il sangue gelido di freddo si si rapprende. Allora la pietra gettata dall’eroe, scagliata nel vuoto, non percorse tutto lo spazio e non colpì l’avversario. Come nei sogni, quando di notte una languida quiete preme sugli occhi, ci sembra di volere allungare una corsa bramosa, e, stremati, in mezzo ai tentativi veniamo meno: la lingua non ha vigore, non ritroviamo le forze del corpo che ci sono solite, la voce, le parole non escono; così la dea nefasta nega a Turno il successo, per qualunque strada egli tenti la via con il valore. Allora nel petto si muovono variamente le sensazioni; guarda i Rutuli, e la città, e indugia per il terrore, e trema al pensiero che la morte gli è addosso, e  non vede né dove potersi sottrarre (alla morte), né con quale forza scagliarsi contro il nemico, né carri, da nessuna parte, né la sorella auriga. Enea palleggia, verso di lui che sta esitando, l’asta fatale, dopo essersi procurato la fortuna con gli occhi, e con tutto il corpo la scaglia da lontano. Pietre, scagliate da una macchina da guerra per abbattere le mura, non sibilano mai così, né così violenti balzano i tuoni dal fulmine. L’asta vola come un nero turbine, portando funesta distruzione e squarcia il bordo della corazza e dello scudo a sette strati; stridendo trapassa a mezzo la coscia. Il grande Turno, colpito, cade a terra, piegate le ginocchia. Con un grido i Rutuli si alzano tutti insieme e tutto il monte intorno muggisce e i profondi boschi fanno eco per largo tratto. Lui, a terra, supplice, levando gli occhi e la destra in preghiera, disse: “certo. L’ho meritato e non ti imploro; usa il tuo destino. Ti prego, se una qualche preoccupazione per un padre può toccarti, abbi pietà delle vecchiaia di Dauno (anche tu hai avuto un padre così, Anchise) e restituisci ai miei me o, se preferisci, il mio corpo spogliato della vita: hai vinto, e gli Ausoni mi hanno visto vinto, tendere le mani; Lavinia è tua moglie. Basta con l’odio”. Enea si fermò, infiammato in armi, girando gli occhi e trattenne la mano. E ormai, ormai le parole di Turno cominciavano a piegare lui che esitava, quand’ecco che apparve, in cima alla spalla di Turno, il triste balteo del giovane Pallante, e le cinghie risplendettero nelle borchie ben note, Pallante che Turno aveva abbattuto, vinto dalla ferita, e ora portava sulle spalle il trofeo nemico. Quello, dopo che bevve con gli occhi le spoglie, ricordo di un dolore crudele, acceso di furore e terribile d’ira, disse: tu, vestito delle spoglie dei miei, dovresti sfuggirmi ?  E’ Pallante a immolarti con questa ferita, Pallante a vendicare il sangue scaturito da una violenza scellerata”. Dicendo questo affonda, ribollente d’ira, la spada proprio nel petto; a quello invece è nel freddo che si sciolgono le membra, e la vita, con un gemito, fugge sdegnosa sotto le ombre.

ENEIDE TRADUZIONE LIBRO XII VERSI 887-952