DIVINA COMMEDIA PARAFRASI PARADISO CANTO 4

DIVINA COMMEDIA PARAFRASI PARADISO CANTO 4

 PARAFRASI PARADISO CANTO 4

FONTE: https://www.studentville.it/appunti/paradiso-iv-canto-2/


Posto fra due cibi, ugualmente distanti e ugualmente allettanti, l’uomo dotato di libero arbitrio morirebbe di fame prima di portarne uno ai denti;

allo stesso modo starebbe immobile un agnello tra due lupi affamati e feroci, temendo nella stessa misura l’uno e l’altro; Cosi se ne starebbe un cane tra due daini ( senza inseguirne alcuno):

perciò, per il fatto che io tacessi, non mi biasimo, né mi vanto, perché non potevo farne a meno. essendo io premuto in ugual misura dai miei dubbi (e impedito di fare una libera scelta).

lo me ne stavo zitto, ma il mio desiderio mi era dipinto in volto. e con il desiderio la domanda assai più efficace che non se l’avessi espressa esplicitamente .

Beatrice agì con me come fece Daniele con Nabucodonosor, quando lo liberò dall’ira, che l’aveva reso ingiustamente crudele:

Il profeta Daniele, per ispirazione divina, indovinò ed interpretò un sogno che il re Nabucodonosor aveva fatto e dimenticato, e che i sapienti babilonesi non riuscivano a indovinare, per cui il re, adirato, aveva dato ordine di ucciderli (Daniele II, 1-45). Come Daniele aveva ricevuto da Dio la rivelazione necessaria, così Beatrice può leggere in Dio i dubbi che angustiano Dante.
L’aver incontrato Piccarda, Costanza e altre anime nel cielo della Luna sembra a Dante una conferma della tesi sostenuta da Platone (Timeo 41 d sgg.), secondo la quale l’anima preesiste al corpo e dimora in una stella prima di essere inviata a vivíficare la materia corporea; dopo la morte dell’individuo ritorna alla sua stella, se nuove colpe non la condannano a reincarnarsi in un corpo inferiore. Poiché questa posizione è assolutamente contraria alla dottrina cattolica, la quale afferma che l’anima è creata da Dio quando viene infusa nel corpo, dal quale si separa con la morte per andare al premio o al castigo meritato, Beatrice la discute per prima (versi 26-27), esponendo l’ordinamento morale del Paradiso.

e disse: “ lo vedo chiaramente come due dubbi (di ugual forza) ti stimolano a chiedere, in modo che la tua ansia ( di risolverli entrambi ) impaccia se stessa così che non riesce a manifestarsi .

Tu ragioni così: “Se la buona volontà persevera nel proposito fatto, per quale motivo la violenza altrui (impedendomi di osservarlo) mi diminuisce la quantità del merito?”

Ti dà motivo di ulteriore dubbio il fatto che le anime, secondo l’opinione di Platone, sembrano ritornare ( dopo la morte del corpo) nei cieli.

Questi sono i dubbi che premono con uguale forza sulla tua volontà; e pertanto risponderò prima a quello che è più pericoloso.

Le parole di Beatrice – queste son le question e pria tratterò quella… – autorizzano il lettore ad aspettare una sottile indagine filosofico-morale intorno ai due dubbi di Dante. E in effetti il contenuto del canto IV è squisitamente dottrinale, così che la trepida figura di Piccarda e la luce della gran Costanza sembrano davvero svanite come per acqua cupa cosa grave, senza lasciare traccia. Anche l’immagine folgorante di luce e di amore di Beatrice, con la quale si era chiusa il canto precedente, lascia il posto a una figura rigidamente chiusa nelle sue argomentazioni, che affronta per Dante il problema delle anime che hanno mancato nell’adempimento dei voti. Tuttavia questa impressione di austerità dottrinale, che neppure le tre metafore iniziali, di accentuato vigore drammatico, riescono ad ammorbidire, è destinata a scomparire nelle terzine seguenti, le quali, se rícorderanno appena Piccarda e Costanza, riproporranno tuttavia la luminosa figura di Beatrice (versi 118-120 e 139-140) e lo smarrimento contemplativo di Dante (versi 141-142): due elementi di sicura vìbrazìone lirica tutte le volte che appaiono nella trama del Paradiso. Non è una poesia di sicura presa, che svolga con decisione e continuità il motivo sentimentale-psicologico-affettivo che Dante ha presentato in tante pagine dell’Inferno e del Purgatorio, e che è tornato a riproporre nel canto III del Paradiso, e nemmeno una poesia che faccia perno su una figura monografica o su un intenso svolgimento dell’azione. I due interlocutori appaiono immobili, non c’è intorno danza o canto di beati, i loro interventi si susseguono nel ritmo della domanda e risposta, eppure le loro parole rivelano una disposizione interiore eccezionale: Dante tutto teso alla conquista della suprema verità, Beatrice trasfigurata dalla gioia di chi sa di comunicare la verità. A un’altra manifestazione – diversa da quella di Piccarda, meno adatta a toccare le corde del cuore, ma non per questo meno valida – del senso e dell’ansia del divino che strutturano la cantica. Questa tensione spirituale, per cui la conquista della verità è presentata come lotta, come drammatico «rampollare» di dubbi (cfr. versi 130-132), spiega il linguaggio attivo che caratterizza il canto, il procedere immediato e sicuro, la chiarezza e la forza del singolo termine, capace di racchiudere, nel suo breve giro, il significato di un intero concetto. Infatti, nella misura in cui nei beati i lineamenti del corpo si assottigliano, i ricordi terreni si dissolvono, e la presenza del tema filosofico e mistico diventa predominante, subentra nel Poeta la preoccupazione di sostenere con la materialità e la concretezza del linguaggio un mondo che altrimenti diverrebbe troppo sfumato o troppo astratto.

Quello dei Serafini che sta più vicino a Dio, Mosè, Samuele, e quello dei due Giovanni che preferisci, e neppure, dico, la Vergine Maria,

hanno la loro sede in un cielo diverso da quello dove risiedono questi spiriti che ti sono apparsi or ora, né è stato assegnato alla loro beatitudine un numero maggiore o minore di anni ;

ma tutti quanti i beati adornano l’Empireo, il primo cielo, e godono della beatitudine in misura diversa secondo la loro capacità di sentire più o meno intensamente l’amore divino.

I Serafini sono il coro angelico più vicino a Dio e presiedono alla guida del Primo Mobile.
Mosè fu il più grande condottiero e legislatore del popolo eletto, e Samuele il profeta ispirato da Dio a istituire la monarchia tra gli Ebrei.
Giovanni può essere o il Battista, che preparò la strada alla venuta di Cristo, o l’Evangelista, il prediletto fra gli apostoli.
Tutte le anime – afferma Beatrice – hanno la loro sede effettiva nell’Empireo, il grande anfiteatro celeste che Dante presenterà negli ultimi canti, e sulle cui scalinate siedono, in contemplazione eterna di Dio, i beati. Nel paradiso non possono, infatti, esistere le corrispondenze e le simmetrie che hanno caratterizzato, sotto il profilo morale e geografico, i due regni precedenti, “e così doveva essere, data la concezione cristiana della salvazione. Per salvarsi basta esser morto in pentimento sincero dei propri peccati”(Porena). Tuttavia il Poeta ha già affermato che se le anime beate, soggettivamente parlando, godono di un uguale grado di beatitudine, da un punto di vista oggettivo la loro beatitudine, a seconda dei meriti, è diversa (canto III, versi 70-90): nell’Empireo essa sarà rappresentata dalla distribuzione dei beati nelle scalinate degradanti dell’anfiteatro. “Ma se con ciò era a posto il teologo, non altrettanto era sodisfatto l’artista: a cui troppo doveva dolere che la terza cantica avesse a discordare tanto dalla bella varietà articolata delle prime due. A ristabilire una certa somiglianza, ricorse allo espediente d’immaginare che via via che egli e Beatrice, nella loro ascesa all’Empíreo, attraversano una delle sfere celesti, un gruppo di beati si parta dal paradiso e vada a incontrarli. In tal modo le sfere si popolano anch’esse, e poiché il poeta immagina che le anime che scendono nei vari cieli siano quelle che in terra hanno subìto l’influsso del cielo corrispondente, ecco che le schiere che successivamente egli incontra vengono a costituire aggruppamenti psicologici simili in certo modo a quelli dei primi due regni. E con questo espediente otteneva un altro grande vantaggio. In quel suo paradiso teologicamente concepito, ove le anime, tutte in presenza di Dio, sono interamente assorbite nella eterna contemplazione divina, sarebbe stato assai sconveniente che egli potesse. come nei primi due regni,. intrecciare colloqui coi singoli spiriti, parlando di persone e cose terrene; e gli sarebbe mancata anche la possibilità materiale di andarsi aggirando per quei circoli e per quelle scalee. Distaccando successivamente dall’Empireo i vari gruppi d’anime che gli scendono incontro, con quei gruppi staccati e in regioni celesti separate può invece aver luogo quel contatto e quello scambio di discorsi che avviene nei cerchi infernali e in quelli del purgatorio; e anche una certa varietà scenografica di presentazione e d’ambiente. Così, dunque, rientra nella terza cantica quella simmetria con le due prime che la pura concezione teologica escludeva; e Dante ottiene l’effetto di appagare col suo Empireo le esigenze teologiche, e con gli altri cieli le esigenze poetiche. Il primo è il vero paradiso teologico, ed è quello che dura eternamente e ci rappresenta la vera condizione delle anime beate; il secondo è meramente transitorio ed eccezionale… La discesa dei vari gruppi di anime nei vari cieli ha un altro vantaggio: quello di poterci rappresentare una forma di psicologia e di beatitudine paradisiaca meno trascendentale di quella dei beati dell’Empireo.” (Porena)

( Gli spiriti che hai visto ) ti apparvero nel cielo della Luna, non perché sia loro assegnata in sorte questa sfera, ma per darti un segno sensibile del loro grado di beatitudine che è 1’ultimo nel cielo Empireo.

Con segni sensibili occorre parlare alla vostra intelligenza, perché solo dalla percezione sensibile essa apprende le immagini che poi trasforma in concetti.

In questa affermazione è implicito uno dei fondamentali e più luminosi principi dell’arte di Dante: basare cioè il mondo della fantasia sul concreto, sul reale (cfr. Paradiso, XVII, 139 sgg.); il che egli ha fatto mirabilmente nella Commedia in cui è riuscito a dare definita concretezza, e con una stupefacente levità, anche al regno del puro spirito.” (Grabber)

Per questo la Sacra Scrittura s’adatta alla vostra capacita, e attribuisce a Dio piedi e mani, intendendo alludere ad altro ( cioè agli attributi spirituali della divinità );

e la Santa Chiesa vi rappresenta con figura umana Gabriele e Michele, e l’altro arcangelo, Raffaele, che guari Tobia.

Dante accenna, nel verso 48, all’arcangelo Raffaele, che accompagnò il giovane Tobia in un lungo viaggio, lo protesse, e al ritorno fece guarire dalla cecità il vecchio Tobìa (cfr. Tobia III, 16-17; V, 4 sgg.; VI, 1 sgg.).

Ciò che (Platone) dice nel Timeo intorno alla sorte delle anime non è conforme a ciò che si vede nel cielo della Luna, poiché pare che intenda proprio in senso letterale (quello che afferma).

Platone sostiene che l’anima (dopo la morte ) ritorna alla sua stella, poiché crede che essa sia stata staccata da li quando la natura l’assegnò al corpo come principio informatore;

ma forse la sua opinione è diversa da quello che significano, letteralmente, le sue parole, e può darsi che egli sostenga un principio che non meriti di essere deriso.

Se egli intende far risalire a questi cieli il merito e il biasimo degli influssi buoni e cattivi sulle anime, forse il suo pensiero coglie in parte la verità.

In quattro concise terzine, nelle quali la forza didascalica del discorso di Beatrice assume un tono suasivo più che polemico, Dante respinge la dottrina platonica della presenza delle anime nei singoli cieli: infatti quello che appare nella sfera della Luna è finzione, mentre sembra che le affermazioni contenute nel dialogo platonico Timeo debbano essere intese alla lettera. Tuttavia, anche qui, come già nel Convivio (IV, XXI, 2-3), il Poeta opera un tentativo di conciliazione con il pensiero di Platone, avanzando l’ipotesi che le espressioni del Timeo non intendano riferirsi a un vero e proprio ritorno dell’anima al cielo da cui era discesa, ma agli influssi, benefici o malefici, esercitati dai corpi celesti sulle anime. Riguardo a questa dottrina Dante (cfr. Purgatorio XVI, 73-78) rìconosce, come del resto tutto il Medioevo, che le influenze astrali determinano nell’uomo le inclinazioni naturali.

Questa dottrina degli influssi celesti, male intesa nel suo significato, un tempo fece errare quasi tutto il mondo, tanto che questo giunse a chiamare gli astri col nome di Giove, Mercurio e Marte.

L’altro dubbio che ti turba è meno pericoloso, poiché l’errore che può derivare da esso non ti potrebbe allontanare da me (cioè dalla vera fede).

Che la giustizia divina possa sembrare ingiusta agli occhi dei mortali, è motivo di fede e non di iniquo atteggiamento di eresia.

Ma poiché il vostro intelletto può ben giungere a comprendere questa verità (sui voti inadempiuti), ti accontenterò, dandoti la spiegazione che tu desideri.

Se si ha vera violenza solo quando chi la subisce non asseconda minimamente colui che la compie, queste anime non possono essere giustificate completamente a causa di tale violenza,

perché, se non vuole, la volontà non si piega, ma si comporta come fa la natura nella fiamma ( che tende sempre ad andare verso l’alto), anche se una forza violenta cerca di piegarla verso il basso.

Per cui, se la volontà cede, o di molto o di poco, asseconda la violenza; e così fecero queste anime ( cioè si piegarono alla violenza), mentre avrebbero potuto ritornare nel chiostro.

Prima di spiegare il dubbio dei suo discepolo di fronte al problema della volontà umana che soggiace alla violenza, Beatrice premette che alcune volte le decisìoni divine appaìono frutto di ingiustizia, più che di giustizia e di amore, perché la mente umana non riesce a penetrare il mistero delle disposizioni di Dío.
La volontà dell’uomo ha in sé la possibilità di opporsi, in ogni momento, alla violenza, la quale è tale solo, quando chi la subisce non collabora per nulla all’azione di chi la compie, non arrendendosi mai: questa volontà è la salda forza interiore dei martiri e degli eroi (versi 83-84). Invece le anime del cielo della Luna, che avrebbero potuto opporsi alla violenza compíuta su di loro, ritornando alla vita del chiostro (versi 85-86), non trovarono il coraggio sufficiente per farlo.
Nella lucidissima spìegazione di Beatrice non sono rari i momenti di vigore poetico, soprattutto quando l’argomento è di quelli che impegnano in modo tutto particolare il mondo morale del Poeta. Il momento di maggiore accensione lirica del canto, oltre che nelle terzine finali, dove limpido ed efficace si alza il canto di ringraziamento a Beatrice, è nei versi 76-78, dove “tutto è volontà e fiamma… sì che, mentre trionfale splende l’immagine del foco anelante di salire, una forza dura martella certe parole in cui più in particolare s’incide l’incoercibile potenza del volere: ché volontà, se non vuol, non s’ammorza… se mille volte violenza, il torza. Il primo verso, col suo ritmo cadenzato e spostato sulla settima [sillaba], è il pìù fieramente battuto e in esso due volte torna l’immagine del volere: volontà… vuol. E’ questa la più alta e fiera celebrazione della umana volontà: adeguata all’anima di chi sentì la vita e ogni suo ideale come lotta ed eroismo di fede” (Grabber).

Se la loro volontà fosse stata salda, come quella che tenne San Lorenzo immobile sulla graticola, e quella che rese Muzio Scevola inesorabile con la propria mano ( tenendola sul fuoco),

certamente le avrebbe spinte a ripercorrere la strada dalla quale erano state sviate, non appena furono libere (dalla violenza materiale); ma una volontà così salda è molto rara.

Lorenzo è il santo diacono romano martirizzato nel 258. Posto su una graticola, ebbe la forza di chiedere ai suoi carnefici di essere girato dall’altra parte, poiché su un fianco il fuoco aveva compiuto la sua opera.
All’esempio cristiano segue quello pagano di Muzio Scevola, il leggendario soldato romano che lasciò bruciare sul fuoco la mano destra, per punirla di aver fallito nel colpire il re etrusco Porsenna, che cingeva d’assedio Roma.

E da queste parole, se le hai assimilate dentro di te come devi, risulta annullato il tuo ragionamento che ti avrebbe procurato turbamento molte altre volte ancora.

Ma ora ti si pone davanti alla mente un’altra difficoltà, tale, che con le tue sole forze non saresti in grado di superare: ti stancheresti prima.

Io ti ho fatto capire come cosa certa che un anima beata non può mentire, poiché essa è sempre vicina a Dio, la verità suprema;

e dopo questo hai potuto udire da Piccarda che Costanza mantenne salda la volontà di osservare il voto; cosi che sembra che le sue parole in questo punto siano in contraddizione con le mie.

Fratello, è già accaduto molte volte che, per fuggire un danno, si sia fatto a malincuore qualche cosa che non si sarebbe dovuto fare;

come Almeone, il quale, pregato di questo dal padre, uccise la propria madre, e così, per non mancare all’obbligo della pietà filiale (verso il padre), divenne spietato (verso la madre).

Quando: si giunge a questo punto (cioè al punto di commettere il male per fuggire un altro male! voglio che tu comprenda che la violenza altrui si mescola alla volontà (di chi la subisce), e (così unite) fanno si che non si possano scusare (come involontarie) le offese a Dio.

La volontà assoluta non acconsente al male; ma vi acconsente solo in quanto teme, se si trae indietro, di provocare un male peggiore.

Dopo aver affermato, in un verso che ha la saldezza di una sentenza morale (verso 87), che pochi sono capaci di giungere a quella volontà eroica che mai s’ammorza, Beatrice spiega la apparente contraddizione fra le parole di Piccarda (Costanza, anche uscita dal chiostro, conservò nel suo intimo il voto fatto) e le sue (le anime del primo cielo non si opposero completamente alla violenza). Ancora una volta le sue affermazioni sono desunte dalla Scolastica: esiste una volontà assoluta, che di per sé non vuole il male, e una volontà relativa o respettiva, la quale può piegarsi a un male per evitarne uno maggiore: “può l’uomo volere con volontà respettiva quel che non vorrebbe secondo la volontà assoluta” (Buti). Così le anime del cìelo della Luna, per timore della violenza, che giudicavano il maggior danno per sé, si piegarono al male, consentendo ad abbandonare i voti fatti. Piccarda, allorché sostiene che Costanza restò legata al suo voto per tutta la vita, intende parlare di volontà assoluta, mentre Beatrice si riferisce solo a quella relativa.

Perciò, quando Piccarda afferma quello, intende riferirsi alla volontà assoluta, e io invece all’altra; cosicché entrambe diciamo la verità ”.

Questo fu lo svolgimento del santo discorso ( paragonato a un ruscello, rio) che uscì dalla sorgente (Dio) dalla quale deriva ogni verità; ed esso risolse entrambi i miei dubbi.

Io poi dissi: “O amata da Dio, primo amore, o creatura divina, le cui parole mi attraversano e mi riscaldano con tale intensità, che mi vivificano sempre di più,

il mio sentimento di gratitudine (per quanto grande) non può bastare a ringraziarvi del dono da voi ricevuto; ma Colui che tutto vede e tutto può vi ricompensi .

Io ben comprendo che mai la nostra mente può saziarsi, se non è illuminata da quella verità al di fuori della quale non può esistere nessun altro vero.

Appena ha raggiunto questa verità, la nostra mente si riposa in essa come la fiera (si riposa, sazia) nella sua tana; e la può raggiungere: altrimenti (se non), ogni nostro desiderio (di possedere la verità) sarebbe vano.

Per questo desiderio il dubbio spunta ai piedi della verità, come un germoglio alla radice della pianta; ed e un impulso naturale quello che ci spinge a salire di colle in colle fino alla vetta suprema.

Questo fatto (il dubbio come impulso per la conquista del vero ) mi invita, questo mi dà coraggio, o donna, a chiedervi umilmente la spiegazione di un’altra verità che mi è oscura.

Mentre il verso 118 rivela il gusto, tipicamente medievale, di accostare parole simili (amanza… amante), quelli seguenti sono costruiti secondo il più vigoroso e schietto stile dantesco, ricco di metafore dall’ampio valore espressivo, nelle quali il discorso sul problema del sapere si trasforma in senso visivo: le parole di Beatrice «inondano» l’animo del Poeta, la verità suprema lo illustra, « spaziando » ovunque, facendo nascere un desiderio insaziato di conoscenza, per cui da ogni singola verità raggiunta « rampolla » il desiderio di procedere ulteriormente. In questi versi, traduzione poetica di un passo del Convivio (IV, XIII, 1-2: “lo desiderio de la scienza non è sempre uno, ma è molti, e finito l’uno, viene l’altro; sì che, propriamente parlando. non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa… e questo cotale dilatare non è cagione d’imperfezione, ma di perfezione maggiore”), Dante trasfonde “il fecondo processo dello spirito; il quale, attraverso errori e dubbi, si tormenta per raggiungere la vera sapienza che, e qui l’immagine ci leva dalla terra verso il cielo richiamando anche si spazia (verso 126), non conosce bassure bensì vette sempre più ardue ed eccelse, fino al sommo dove l’uomo anela di congiungersi a Dio. Abbiamo visto prima la volontà come fiamma saliente e incoercibile (versi 73-78) e qui, in una profonda austerità di meditazione, abbiamo la verità e l’intelletto drammatizzati in potentissime immagini; poicbé anche il vero e l’assidua lotta per raggiungerlo, sono per Dante passione viva e motivo della più alta poesia: quella stessa che accende, in tanta parte, la presunta astrattezza del Paradiso” (Grablier).

Desidero sapere se l’uomo può compensare al vostro cospetto i voti inadempiuti commutandoli con altre opere buone, tali che, pesate sulla bilancia della vostra giustizia, non sembrino piccole”.

Beatrice mi guardò con gli occhi così divinamente pieni di sfavillante amore, che la mia facoltà visiva, vinta, dovette distogliersi da lei,

e chinando i miei occhi quasi venni meno.