DISPERAZIONE DELLA REGINA DIDONE 362-392

DISPERAZIONE DELLA REGINA DIDONE 362-392

ENEIDE LIBRO IV


Lei avversa guarda ostilmente lui che dice queste cose ormai girando gli occhi di qua e di là e il suo sguardo vaga con gli occhi muti e, infuocata, scoppia così a parlare: “Non ti fu madre una dea, né Dardano capostipite, o perfido, ma ti ha generato l’orrido Caucaso dalle irte rocce e le tigri ircane (di Lucania) ti hanno porto le loro mammelle (nutrito). Infatti perché fingere riservarmi ad ulteriori oltraggi? Sei forse intenerito per il nostro pianto? Forse che mi ha guardato negli occhi? Forse che, vinto, ha versato una lacrima o ha avuto pietà della sua amante? Cosa posso aspettarmi di peggio? Ormai né la grande Giunone né il padre Saturno possono guardare qui con occhi equi. La fedeltà non è più garantita: l’ho accolto buttato sulla riva e bisognoso di tutto e da pazza gli ho dato parte del mio regno, gli ho salvato la flotta distrutta, ho sottratto i suoi compagni dalla morte. Ah! Sono infiammata e trascinata dalle furie! Ora Apollo augure, ora i responsi della Licia, ora il messaggero degli dei mandato dallo stesso Giove porta per l’aria i comandi. Certamente questa è l’azione degli dei, la sollecitudine muove chi era fermo. Non ti trattengo e non ti propongo altre parole: vattene, segui coi venti l’Italia, cerca regni attraverso le onde. Spero veramente, se le mie preghiere possono qualcosa, che pagherai fino in fondo la pena attraverso gli scogli e invocherai spesso il nome di Didone. Ti seguirò da lontano con fiamme minacciose e quando la fredda morte scinderà le membra dall’anima ti sarò vicina come uno spettro in qualunque luogo. Pagherai il fio, miserabile; questa notizia mi raggiungerà anche laggiù, fra le ombre dei Mani (Inferi).”

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