DESCRIZIONE LA COSCIENZA DI ZENO
DESCRIZIONE LA COSCIENZA DI ZENO
Narratore e autore
Sappiamo che il narratore (Zeno stesso, che scrive la propria autobiografia, su consiglio del dottor S.) è inattendibile, che mescola verità e bugie (ce lo dice lo stesso dottor S. nella Prefazione, ma del resto sappiamo che l’inetto sveviano mente a se stesso, pur di non ammettere la propria debolezza; vieppiù lo farà il nevrotico Zeno, che porrà in atto ogni resistenza per non lasciare emergere dal passato verità scomode). E dunque tocca al lettore una faticosa opera di decifrazione (a differenza di quel che succedeva in Senilità, dove il narratore svelava, in vari modi, le menzogne del protagonista).
Ma nella Coscienza mi pare che si ponga anche il problema della distanza (dello scarto) non avvertibile fra autore e narratore (quello scarto che invece è evidente, ad esempio, in Manzoni e Verga). In altre parole, qual è il punto di vista dell’autore rispetto a quello del narratore? Non è possibile capirlo, talché il romanzo sembra essere autobiografico (malgrado quel che dice Svevo stesso in una lettera a Montale; ma Svevo ha vissuto un problema del fumo come quello di Zeno, Svevo ha espresso la stessa sfiducia di Zeno nei confronti della psicanalisi, ecc.). A questo proposito, mi pare che si possa addurre un argomento decisivo: la famosa prefazione del dottor S. (che, in quanto pre-testo, è precedente ed esterna rispetto alla narrazione di Zeno, dunque attribuibile esclusivamente all’autore) tradisce, inaspettatamente, lo stesso punto di vista di Zeno, di decisa antipatia, nei confronti dei medici. Il dottor S. è uno dei tanti medici messi alla berlina nel romanzo, ma che si ridicolizzi da solo (la pubblicazione fatta “per vendetta”, i “lauti onorari” che si prefigge di ottenere) è incredibile: l’autore si è tradito (è lui che ha inventato la finzione della prefazione), quell’antipatia è la sua, e dunque lui, almeno in questo, si identifica con Zeno. E in questa ambiguità (dove finisce l’autobiografia di Svevo e comincia l’invenzione letteraria?) risiede molto del fascino del romanzo, perché il lettore si sente sollecitato a decifrare non tanto le menzogne del narratore Zeno, quanto quelle dell’autore Svevo (come se ci fossero cose che l’autore vuole nascondere anche a se stesso: vedi con che insistenza, e buone argomentazioni, si difende dalla colpa, presunta, di aver voluto la morte del padre).
Il vizio del fumo
Alla ricerca dell’origine del vizio del fumo, Zeno risale a quando era bambino e rubava i soldi e i mezzi sigari al padre. Dapprima sembra essere un modo di gareggiare, di farsi bello, con i coetanei, poi sempre più chiaramente diventa rifiuto di obbedire sia al medico che al padre (a quest’ultimo soprattutto, che, col sigaro in bocca, lo esorta ad attenersi alle prescrizioni del medico se vuole guarire dal mal di gola). Dunque anche il fumo è una manifestazione dell’odio verso il padre, secondo il modello freudiano del complesso edipico. E questo sembra essere confermato dall’episodio della clinica in cui, già adulto e sposato, Zeno si fa rinchiudere per guarire dal vizio del fumo: l’odio (e il sentimento di rivalità) che Zeno concepisce per il dottore, bello ed elegante, è ancora una volta odio contro il padre, visto che nella sua fantasia immagina che il dottore gli sottragga la moglie (cosiccome il padre gli sottraeva la madre). Nell’occasione, di grande comicità è la vicenda della seduzione di Giovanna, l’infermiera che dovrebbe fargli da guardiana: non solo la ubriaca con del cognac, ma la convince che, se fuma una decina di sigarette, diventa incontenibile con le donne; quindi Giovanna si ritira nella sua stanza, lasciandogli la porta aperta e un pacchetto con dieci sigarette; naturalmente Zeno ne approfitterà per fuggire (non resiste alla cura della reclusione, ma anche vuole accertarsi che la moglie non lo stia tradendo con il dottore). Tornando al vizio del fumo, a ben guardare si tratta anche di altro, e cioè dell’alibi con cui Zeno può giustificare la sua incapacità di affrontare la vita (la sua inettitudine): pensa di essere inetto perché avvelenato dalla nicotina, e dunque, contro tutti i propositi, continua a fumare (altrimenti dovrebbe constatare di essere inetto a prescindere dalla nicotina). Accetta di farsi rinchiudere in clinica perché l’Olivi, l’amministratore dei suoi beni, gli ha detto che intende smettere di lavorare per ragioni di salute; ma, a parte il fallimento della terapia, Zeno è ben contento di non avere smesso di fumare, visto che l’Olivi si è ripreso (quindi lui non è costretto a dar prova delle proprie “attitudini” lavorative).
Il rapporto con il padre
La morte del padre è l’evento centrale, piscanaliticamente, perché determina un forte sentimento di colpa: Zeno si porta dietro (nel subconscio, perché al livello conscio della memoria e della scrittura difende ostinatamente la propria assoluta innocenza e buona fede) il pensiero di aver desiderato la morte del padre, ed odia il dottor Coprosich perché costui, nell’episodio delle mignatte, lo ha “smascherato”, rimproverandolo di non volere il prolungamento della vita del padre. Ed è una colpa fortemente rilevata, in conclusione, dall’episodio dello schiaffo, che Zeno sente come una meritata e terribile punizione (in obbedienza agli ordini del medico, Zeno non vuole che il padre si alzi dal letto; lo trattiene con una mano, ma il padre si alza lo stesso e, trovandosi davanti il figlio che gli toglie l’aria e la luce, alza il braccio forse solo per scansarlo; ma il braccio ricade pesantemente sulla guancia del figlio e sembra uno schiaffo intenzionale).
Ma più che sulla morte, l’accento va messo sul motivo della incomprensione fra padre e figlio, incomprensione che si manifesta in varie occasioni, particolarmente in quella della cena la sera precedente l’entrata in coma. La morte chiude definitivamente la possibilità di sanare quella incomprensione, quella mancanza di comunicazione. Il padre vorrebbe il figlio forte e sicuro, costui si rivela invece debole e insicuro (inetto, lo dimostrano i continui cambiamenti di facoltà universitaria); pensa che il figlio sia “pazzo”, perché non sa prendere sul serio le cose concrete della vita, e costui, con poca serietà, gli porta un certificato medico di sanità mentale; il padre ha pensieri sulla morte e sul dopo, chiede un parere al figlio, e questi gli paragona la morte al piacere sessuale; il padre, infine, pensa al conforto della religione, e cerca l’appoggio del figlio, ma questi gli dice che per lui la religione è solo un oggetto di studio. La sera che precede la catastrofe, il padre vorrebbe dire al figlio una parola decisiva, ma quella parola non gli viene e non gli verrà mai più: resta dunque un non detto fra di loro, un fallimento di comunicazione. E’ questa la vera colpa che Zeno sente, e la volontà di espiarla si rivela alla fine, laddove ammette di essere tornato alla religione (intesa come pratica interiore e non pubblica), di far pregare per il padre e di pregare anche lui qualche volta (adesso, ma è troppo tardi, potrebbe intendersi con il padre).
Un secondo padre
L’idea del matrimonio è associata all’idea di un rinnovamento, di una svolta, quindi di una guarigione. Di fatto, non è altro che un modo per diventare figlio di colui che Zeno ha scelto come nuovo padre, cioè Giovanni Malfenti, commerciante di poca cultura ma di grande determinazione, della specie dei lottatori, della specie insomma che Svevo ammira e a cui vorrebbe appartenere. Ma in maniera contraddittoria, perché il vecchio Malfenti è anche il solito rivale dell’inetto, invidiato e odiato, il rivale che deride l’inetto con argomenti simili a quelli usati da Macario in Una vita (“Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!”). L’odio si manifesta, ad esempio, nell’episodio del pranzo in onore degli sposi Guido e Ada, quando Zeno, con scandalo generale, sfida il suocero (cui il medico ha impedito rigorosamente di bere) a vuotare il bicchiere che gli ha riempito (anche se è vero che Zeno era stato provocato dal suocero, che gli aveva dato del maiale perché beveva e mangiava senza ritegno). Ma nell’ultimo capitolo ci verrà detto che lo stesso psicanalista ha visto nel vecchio Malfenti un secondo padre per Zeno, talché quest’ultimo ha cercato di “sfregiarne” la casa (cercando di sedurne le figlie e tradendo la figlia sposata).
Zeno fra Ada e Augusta
La fanciulla scelta per il matrimonio, Ada, non è solo quella ritenuta più bella fra le figlie di Malfenti, ma anche quella che sembra somigliare di più al padre. Questo è il punto di partenza, ma il desiderio di avere Ada diventa sempre più forte man mano che Zeno si accorge che la ragazza non ne vuol sapere di lui (se ne accorge, anche se mette in atto una serie di autoinganni per nasconderselo, dilaziona continuamente il proposito di dichiararsi, perché ha paura della verità). Del resto in quel salotto tutti si accorgono della sua inettitudine (le gaffes sono continue, anche se solo la piccola Anna ha il coraggio innocente di dargli ripetutamente del pazzo), e la mamma Malfenti ne approfitta per indurlo a chiedere la mano della maggiore, e più brutta, delle figlie, Augusta, proprio quella che Zeno aveva escluso di poter scegliere sin dal primo incontro. E così succederà quando Zeno (prima addolorato perché invitato dalla madre a frequentare di meno il salotto Malfenti, in quanto sta “compromettendo” Augusta, poi umiliato da Guido Speier che in quel salotto miete successi di simpatia, soprattutto in quanto abilissimo a suonare il violino, ed è chiaramente prediletto da Ada) chiederà la mano di Ada; rifiutato, ci proverà con la diciassettenne Alberta; quindi, terrorizzato dall’idea di non poter più frequentare quel salotto, si butta su Augusta; costei, che pure sa del suo amore per Ada (Zeno le si era dichiarato al buio, pensando che fosse Ada, la sera in cui Guido aveva organizzato una seduta spiritica), accetta e la vicenda si conclude secondo quelli che erano, sin dall’inizio, i progetti della signora Malfenti.
Le diagnosi sulla malattia
Guardarsi vivere (riflettere sulla vita, invece di vivere abolendo il pensiero sulla vita) paralizza. Emblematico l’episodio dell’incontro con Tullio, in cui questi, malato di reumatismi, spiega a Zeno che per fare un singolo passo in mettono in moto ben cinquantaquattro muscoli. Allora Zeno comincia a zoppicare, perché, pensando alla “macchina mostruosa” che si mette in moto, non riesce più a camminare; pensare al meccanismo che consente l’atto del camminare, invece di lasciare che l’atto fluisca naturalmente, inibisce l’atto stesso (dopo di allora, lo zoppicamento diventa il sintomo fisico della sua nevrosi, la somatizzazione del disagio: zoppicherà tutte le volte che si sentirà umiliato e sconfitto, in particolare da Guido nel suo rapporto con Ada). Ma ancora più chiara è la riflessione che Zeno fa sulla propria incapacità di suonare il violino. Dice che in lui le note, invece di succedersi distinguendosi l’una dall’altra, si “appiccicano” in modo che la precedente “sforma” la successiva; e questo è il segno della sua malattia, talché imparare a suonare equivale a guarire. Nella vita, significherà che il passato si appiccica al presente, impedendogli di fluire liberamente.
Il trattamento del tempo
E’ evidente l’adozione del cosiddetto “tempo misto”, sia perché più volte c’è il ritorno al presente del narratore che valuta i comportamenti passati, sia perché ci sono riferimenti a tempi passati rispetto allo stesso passato di cui si narra (ad esempio, quando Zeno racconta di una donna corteggiata precedentemente all’ingresso in casa Malfenti, ed è un racconto che arriva fino al presente, perché Zeno dice di averla incontrata ed avere parlato con lei recentemente; o quando racconta alle ragazze Malfenti le storie di “scapigliatura studentesca”, cioè del proprio passato di studente universitario) ed a tempi intermedi fra il passato di cui si narra e il presente (ad esempio, sempre a proposito delle proprie avventure goliardiche, dice di avere saputo successivamente da Augusta che nessuna delle sorelle le aveva ritenute vere). Ma, di più, è lo stesso Zeno che riflette sulla nozione di tempo. Dice, ancora in merito alle storie di “scapigliatura studentesca” che raccontava alle sorelle Malfenti (episodio dunque esemplare), di non sapere nemmeno lui quale e quanta fosse la verità e quale e quanta la menzogna, perché le ha raccontate altre volte e ormai anche a lui sembrano più vere che false. Dice inoltre che per lui il tempo avrebbe ripreso a camminare regolarmente solo quando avesse avuto una risposta chiara da Ada: prima di allora, il tempo è angosciante attesa, non passa mai, è deformato (dunque non è un’entità oggettivamente misurabile, ma è un vissuto soggettivamente nella coscienza, come per Bergson).
La salute di Augusta
Augusta, la donna non voluta, si rivela poi un’ottima moglie, la moglie “sana” che può finalmente mettere ordine nella vita di Zeno, guarire la sua malattia. Senonché, quella salute, analizzata, si “converte in malattia”: sia perché, come sappiamo, la salute è un vivere immediato, senza riflessione, ed ogni riflessione, in quanto diventa un “guardarsi vivere”, inibisce la naturalezza della vita; sia perché quella salute si fonda su sicurezze superficiali, sull’accettazione a-critica delle tradizioni, delle convenzioni e dell’autorità (civile, religiosa, medica: si indossa l’abito da casa e quello da passeggio, si va alla messa la domenica, ci si fida della scienza dei medici, ecc.): tutte cose che invece rendono problematica la vita dell’inetto, portatore, dunque, di una coscienza critica superiore.
L’adulterio
L’adulterio è perseguito da Zeno secondo una logica simile a quella dell’ultima sigaretta. Carla gli piace, ma non la stima, la maltratta, ha sempre il sospetto che lo faccia per denaro (anche se, con uno dei tipici giudizi dati a posteriori dal narratore, riconosce che la ragazza era fondamentalmente onesta e sincera con lui). Vive il rapporto con grandi sensi di colpa, sempre, dall’inizio alla fine, ha sempre in mente il proposito di chiudere e in tasca la busta con i soldi per liquidarla. Ma ogni volta si vuole godere il piacere dell’ultimo amplesso (cosiccome si gode il piacere dell’ultima sigaretta; analogamente, in un certo giorno, ha scritto sul vocabolario alla lettera C “ultimo tradimento”), dopo di che sente la repulsione e il pentimento, ciò che gli consente di ritornare a casa sereno, rigenerato dal proposito di essere un marito fedele. Ma il giorno dopo siamo daccapo, al punto che, quando è proprio Carla a chiudere il rapporto (commossa alla vista della bella e triste moglie di Zeno, che peraltro le ha indicato Ada e non Augusta, decide di accettare la proposta di matrimonio del maestro di canto), Zeno si ostina a volere un ultimo incontro, che, ovviamente, non sarebbe mai l’ultimo.
La società con Guido
E’ il capitolo della rivincita. Zeno si affanna a spiegare, in tutte le occasioni in cui il suo comportamento poteva sembrare colpevole, che lui ha sempre voluto bene a Guido e che lo ha sempre consigliato per il meglio. Anzitutto fa notare che lui non aveva responsabilità nell’azienda, aiutava Guido come contabile per puro affetto, senza compenso, dunque tutti gli errori furono colpa esclusiva di Guido. Poi, in occasione del disastroso acquisto di sessanta tonnellate di solfato di rame, dice di essere stato assente dall’ufficio e quindi di non avere visto la lettera con cui gli inglesi concedevano la possibilità di revocare l’ordine. Quando chiude il bilancio di fine anno e scopre la gravità della situazione, dà il consiglio giusto (chiudere l’azienda e magari riaprirla “su nuove basi”), ma Guido vuole fare di testa sua (e infatti la sua iniziativa sarà quella di convincere Ada, tramite un finto suicidio, a prestargli parte della somma perduta). Consiglia Guido di prendere come direttore il giovane Olivi, ma Guido rifiuta sdegnato. Quando Guido comincia a giocare in borsa, lui era l’unico a sconsigliarlo, mentre la famiglia lo appoggiava. E quando si arriva alla catastrofe della perdita in borsa, è lui che mette a disposizione di Guido un quarto della somma, ma sono le Malfenti (Ada e la madre) che non vogliono sostenerlo (può fallire senza andare in prigione, secondo la loro morale borghese). Ma tutto questo non vale niente, se è vero che Ada lo smaschera quando Zeno la va a trovare dopo la mancata partecipazione al funerale di Guido (ha seguito un funerale sbagliato): “Tu non gli hai mai voluto bene”, gli dice con durezza, quando lui si aspetterebbe complimenti e ringraziamenti, perché, giocando in borsa, ha ridotto di tre quarti la perdita di Guido.
Del resto, Zeno continua anche a negare di provare ancora amore per Ada, che, malatasi del morbo di Basedow, ha perso la sua bellezza; ma continua a cercare i suoi elogi, vuole apparire ai suoi occhi migliore di Guido, anzi, tutto quello che fa ha questo fine (fine, peraltro, apparentemente raggiunto: “sei il migliore uomo della famiglia”, gli dice Ada quando gli chiede di vigilare su Guido, dopo il primo tentativo di suicidio). A proposito del morbo di Basedow, Zeno dichiara di averlo studiato e di avere scoperto il segreto della vita: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea che ha ad una estremità il morbo suddetto (è una malattia della tiroide che provoca il cosiddetto “gozzo”, una sporgenza del globo oculare ed un aumento notevole delle pulsazioni cardiache), che implica una vitalità eccessiva, un consumo sfrenato di energia; all’altra estremità stanno gli organismi apatici, poveri di vitalità (una malattia che si manifesta con l’edema); in mezzo dovrebbe starci la salute, in realtà il mezzo è soltanto un punto di passaggio, perché si va o verso il gozzo o verso l’edema. Tali considerazioni ricordano chiaramente la teoria espressa nel racconto Lo specifico del dottor Menghi.
Tornando al rapporto con Guido, certo è che l’inetto ha qui la sua rivincita, visto che sia nella vita privata, dei rapporti famigliari, che in quella lavorativa, degli affari, è il rivale a soccombere. Ma come per la scelta di Augusta (che, non voluta da Zeno, si rivela poi un’ottima moglie), così per il successo commerciale si può dire che non è lui che determina la realtà, ma è la realtà che gira a suo favore. Gioca in borsa (contrariamente a quello che suggeriva a Guido) e vince, ma non per particolare accortezza, ma perché segue i consigli del Filini (proprio quello che aveva indicato come il cattivo consigliere di Guido) e ha fortuna.. Ma infine, che Guido non fosse del tutto un incapace e che Zeno ci abbia nascosto qualcosa, lo si capisce nel capitolo successivo, quando ci viene detto che il dottore ha scoperto che esisteva un “grandioso deposito di legnami” di proprietà di Guido. Dunque c’era un magazzino (sulla cui assenza Zeno aveva ironizzato) e c’erano degli acquisti ben fatti (risibile il modo in cui Zeno giustifica il suo silenzio: chi deve scrivere in italiano, avendo più familiarità con il dialetto, è portato a trascurare episodi che richiedono conoscenza di terminologie specifiche: nella fattispecie, dei diversi tipi di legname)
I dottori
Sulle figure dei medici si appunta particolarmente l’ironia del narratore. E’ un topos letterario (dal Malato immaginario al Mastro don Gesualdo), ma nel caso della Coscienza bisognerà pensare ad un altro travestimento della figura paterna. E dunque, il dottor S. è quell’inattendibile psicanalista che pubblica per vendetta e pensa ai guadagni (v. la Prefazione; ma in questo caso, come s’è visto, l’ironia è dell’autore che, almeno per questo aspetto, non si distingue dal narratore). Il dottor Coprosich (sbeffeggiato già nel nome: dovrebbe lavarsi ben altro che il viso e le mani, diceva Joyce) è il saccente che rimprovera Zeno di volere la morte del padre, inculcandogli un complesso di colpa perenne. Il dottor Muli (il proprietario della clinica dove Zeno dovrebbe essere richiuso per guarire dal vizio del fumo) è troppo bello ed elegante (“la venere dei medici”) per essere professionalmente credibile. Il dottor Mali (forse anche lui sbeffeggiato nel nome) è quello che, quando è chiamato con urgenza dalla fantesca per Guido moribondo, depreca di essere medico e di dovere uscire anche con la pioggia; quando poi sa che Guido ha già simulato un suicidio, non si premura certo di tornare a casa a prendere gli strumenti per una lavanda gastrica, ma rassicura Ada e se ne va. Invece il dottor Paoli, dall’occhio indagatore, fa prognosi sempre attenuate dal dubbio, cosicché non può sbagliare (a pochi giorni dalla morte del vecchio Malfenti, tranquillizza gli sposi Ada e Guido che devono mettersi in viaggio, assicurando che il malato starà meglio, “salvo complicazioni imprevedibili”).
I sogni
sogni del protagonista-narratore sono ricorrenti e sono quasi sempre interpretabili in chiave edipica. Si comincia con quello che Zeno, come racconta nel preambolo, per adeguarsi al metodo psicanalitico, fa nel dormiveglia con tanto di matita in mano (ed è già ridicola la pretesa di forzare e controllare il sogno in questo modo): vede una locomotiva che sbuffa in salita e poi un “fantolino” che dovrebbe essere lui stesso bambino (ma più probabilmente, come suggerisce il narratore stesso che manifesta così sfiducia nella psicanalisi, è il figlio appena nato della cognata, che Zeno, con sottile ironia, compiange perché indifendibile da un futuro nevrotico che si determina già nella culla, e poi perché imparentato con certe “persone ch’io conosco”).
Quando poi narra della morte del padre, racconta di un sogno, fatto nel presente, in cui pretendeva gridando che fossero applicate le mignatte al padre, mentre il dottor Coprosich si rifiutava (il sogno è rivelatore del persistere del complesso di colpa, e dunque anche della menzogna di Zeno che dichiara che ormai non prova alcun rimorso e guarda alla traumatica vicenda con superiore distacco).
Ricorda quindi un sogno fatto al tempo della relazione con Carla: aveva sognato di mangiarle il collo, senza però provocarle dolore; ne soffriva invece Augusta, e Zeno, per tranquillizzarla, le offriva un po’ di quel collo (sembra espressione del desiderio di conservare ambedue le donne, in armonia, eliminando la contraddizione).
C’è poi il sogno fatto quando Ada si era ammalata del morbo di Basedow: lui, Augusta ed Ada (ancora bella) guardavano da una finestra e vedevano un vecchio “timoroso e minaccioso” con la chioma bianca e un mantello stracciato (Basedow, appunto) che fuggiva inseguito dalla folla urlante; quindi si trovava su una scala con Ada (ora imbruttita dalla malattia) che lo invitava a precederlo mentre scendeva; in alto si apriva una botola e si intravedeva il vecchio Basedow, al che Zeno cominciava a fuggire (Basedow sembra dunque essere il padre-rivale che gli sottrae la donna amata; del resto l’associazione con il padre è data non solo dall’aspetto, ma anche da quel suo essere impaurito e minaccioso, come è appunto il vecchio padre nel ricordo di Zeno).
Infine, nel capitolo Psicanalisi, il narratore racconta, con lo scetticismo che lo caratterizza nei confronti della terapia, di sogni o visioni avute su sollecitazione del dottor S.: rivede se stesso bambino, che deve andare a scuola mentre il fratello più piccolo può restare a casa (quindi godere dell’amore della madre); poi vede se stesso in una stanza luminosa, beve caffelatte da una tazza, quindi cerca di prenderne fuori lo zucchero con un cucchiaino, ma non ci riesce; anche il fratellino sta bevendo caffelatte, ma non ha il cucchiaino, quindi lo chiede a Zeno che dice di darglielo in cambio del suo zucchero; arriva Catina(la governante) e lo rimprovera aspramente dandogli dello strozzino (la tazza e il cucchiaino sono elementi tipici della simbologia onirica: il cucchiaio rappresenta la virilità, che però non gli consente di possedere la madre o Ada; e quindi rifiutare lo strumento al fratello – o al padre o a Guido – vuol dire desiderarne la castrazione); quindi vede ancora se stesso bambino che sogna una gabbia ben chiusa sul tetto della casa; il bambino è felice perché sa che quella gabbia giungerà a lui; in essa c’è una donna vestita di nero, bionda e con gli occhi azzurri; il bambino sogna di possederla, ma mangiandone pezzettini (ricorda il sogno in cui mangiava il collo di Carla; qui Zeno sogna l’incesto).
Psico-analisi, ovvero l’ultimo capitolo
Il manoscritto autobiografico è stato consegnato allo psicanalista, ora la narrazione diventa diaristica, sono riflessioni (sulla psicanalisi, sulla malattia, sulla società) fatte nel presente dei giorni che precedono l’entrata in guerra dell’Italia. E’ il capitolo in cui, proprio laddove Zeno esprime tutta la sua diffidenza nei confronti del medico e della terapia (dichiara di avere abbandonato la cura), vengono svelati i significati nascosti (anche se, ovviamente, da Zeno derisi) di ricordi, sogni, eventi. Soprattutto, qui si dà atto di una pratica psicanalitica più ortodossa, perché, su sollecitazione del dottore, vengono rievocati ricordi della lontana infanzia (la rivalità col fratello minore, che può restare a casa quando Zeno deve andare a scuola; ma anche sogni che dimostrano il desiderio di possedere la madre). Si tratta quindi, anzitutto, del complesso di Edipo, e quindi Coprosich aveva avuto ragione, lo schiaffo era meritato, anche il vecchio Malfenti era stato odiato, in quanto sostituto del padre (e quindi Zeno aveva “sfregiato” la sua casa, tradendo la moglie e aspirando a sedurre anche Ada e Alberta) e naturalmente sempre odiato era stato Guido.
Poi la guerra travolge tutto e Zeno dichiara trionfalmente: io sono guarito, senza la psicanalisi, io sono sano e ne è prova il mio successo nel commercio. E infatti ha comprato ed accaparrato in tempo di guerra (oro, anzitutto), quando i prezzi erano bassi, facendo ottimi affari, proprio come i cosiddetti “pescecani”. Dunque la salute è integrazione in quel mondo, con quella morale spregiudicata, del successo economico, del profitto, quel mondo cui invece era estraneo lo Zeno malato. Ma infine (e qui la voce del narratore si confonde con quella dell’autore: si riprendono infatti tesi sostenute nei famosi tre saggi) malata è la vita dell’uomo che, a differenza degli animali che hanno un progresso naturale (la rondine, la talpa), ha inventato gli “ordigni” fuori di sé, gli ordigni che hanno ormai il sopravvento su di lui, impedendogli la naturalità. Da tale malattia solo la catastrofe di una “esplosione enorme che nessuno udrà” potrà liberare la terra.