DAL LATINO AL VOLGARE

DAL LATINO AL VOLGARE


Introduzione
Dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente all’anno Mille, un nuovo concetto di unità integra e sostituisce la cultura classica e i modelli politici del mondo antico.
L’unità dei valori cristiani tende a inglobare ogni aspetto della vita collettiva e a porsi come punto di riferimento della civiltà europea, che ha assistito, nel giro di pochi secoli, alle invasioni barbariche, alla crisi economica, allo spopolamento delle città.
Il modo di produzione feudale, caratterizzato dal vassallaggio e dalla servitù, modifica il tessuto economico e sociale e contribuisce alla formazione di un ordine politico fondato sull’obbedienza e sugli ideali cavallereschi.
Il momento culturalmente più significativo coincide invece tra il V e il IX secolo con il processo di trasformazione della lingua latina nelle lingue romanze.

Latino e lingue romanze
Non esiste nella storia dell’Occidente una vicenda che per intensità drammatica, dimensioni e conseguenze sia paragonabile al declino e alla caduta dell’impero romano. Tuttavia, questa immensa catastrofe, proprio a causa delle sue dimensioni, non ebbe i caratteri di un crollo repentino, ma fu piuttosto un processo che si protrasse per secoli, raggiungendo il suo culmine con la data canonica del 476 d.C. (deposizione di Romolo Augustolo) senza però che questo evento segnasse la fine assoluta e definitiva di una civiltà. Anzi, nel momento in cui si verificò, la deposizione dell’ultimo imperatore ebbe un’eco irrilevante, e nessuno dette all’evento il significato simbolico che poi avrebbe assunto per i posteri: esso in realtà si inseriva, come un episodio fra i tanti, nella lunga crisi che travagliava il mondo antico e che ebbe nelle invasioni barbariche la sua manifestazione più appariscente, ma non certo la prima né l’ultima. Secondo alcuni studiosi, infatti, il periodo storico che noi chiamiamo “Medioevo” e che facciamo convenzionalmente cominciare dal 476 d.C. andrebbe addirittura retrodatato di almeno due secoli, poiché già al volgere del III secolo d.C. non sarebbe più possibile parlare in senso proprio di “età classica” per la quantità e la qualità delle trasformazioni sociali, economiche e culturali intervenute a modificare profondamente il quadro del mondo antico. Certo è che, dal punto di vista linguistico, che è poi quello che qui ci interessa più da vicino, i sintomi del fenomeno sono vistosi e segnalano l’esistenza di una crisi profonda del latino classico e, di conseguenza, della civiltà che lo aveva espresso, in epoche ben precedenti al 476 d.C.
Ne rendono testimonianza numerosi documenti, a cominciare dalla celebre Appendix Probi, operetta risalente appunto al III secolo d.C., nella quale un anonimo grammatico cercò di ricondurre alla norma classica forme che se ne erano allontanate lungo una traiettoria che avrebbe infine condotto alla nascita dei volgari neolatini.
Naturalmente, il processo di disgregazione del latino classico si accentua e si accelera con il precipitare della crisi dell’impero romano. Non si deve tuttavia pensare a una frattura netta e collocabile temporalmente: anche le lingue, come la natura, non “fanno salti”, e la loro evoluzione è sempre il frutto di processi di lunga durata, in cui una serie di cause opera in parallelo producendo interazioni ed effetti di feedback sempre di estrema complessità e non di rado contraddittori. Ciò è tanto più vero nel caso dei volgari neolatini, la cui nascita non è determinata da un evento traumatico, ma deriva da una gestazione secolare in cui, attraverso spostamenti progressivi e spesso impercettibili, le lingue nuove si formano senza che questo voglia dire l’abbandono e la scomparsa di quella antica.
In realtà, per un lungo arco di tempo il latino e il volgare sono convissuti l’uno a fianco dell’altro nella coscienza e nella pratica degli intellettuali e del loro pubblico: ancora fra il XIV e il XV secolo vediamo per esempio scrittori come Angelo Poliziano, Jacopo Sannazzaro e Ludovico Ariosto ricorrere indifferentemente ai due idiomi, senza contare l’uso del latino giuridico, scientifico ed ecclesiastico continuato fino quasi ai giorni nostri.
Anche per i volgari non romanzi, segnatamente quelli di area germanica e slava, l’influenza del latino fu decisiva: pur non avendo conosciuto direttamente la civilizzazione romana, o avendola sperimentata in modo superficiale e per periodi limitati, gran parte dell’Occidente non romanizzato si era incontrato con il latino attraverso l’evangelizzazione cristiana, adottandolo come lingua della religione e della cultura dall’Irlanda alla Scandinavia, dalla Germania alla Polonia, e facendone un modello di riferimento fondamentale. Avvenne così che l’Europa intera si riconobbe in questo patrimonio comune, in cui affondano le loro radici non solo le civiltà romanze, ma l’intera tradizione del mondo occidentale: alla metà del IX secolo Odofredo di Weissemburg, uno dei primi protagonisti della letteratura in volgare tedesco, osservava meravigliato come “tanti uomini illustri per saggezza, sapienza, santità, abbiano utilizzato tutte queste virtù a gloria di una lingua straniera, senza fare uso nella scrittura della loro propria lingua”.
È importante sottolineare come le considerazioni svolte fin qui smentiscano la tesi cara alla critica romantica, secondo cui la nascita delle lingue volgari fu il frutto di un’autonoma e spontanea elaborazione “dal basso”, sorta dal profondo della coscienza popolare senza la mediazione della cultura classica e degli intellettuali di professione: insomma, una specie di slancio vitale che spazzò via una tradizione ormai fiacca e isterilita, sostituendola con forme più libere e pronte ad accogliere la sensibilità di un mondo nuovo. Al contrario, la mediazione e il filtraggio ci furono, fino a produrre, soprattutto nell’area romanza, un bilinguismo in cui latino e volgare non si configuravano come opzioni alternative, ma come soluzioni complementari e integrate da utilizzare di volta in volta a seconda dei contesti, dei generi e dei destinatari.
È evidente come un approccio di questo genere al problema delle origini renda estremamente difficile, e anzi, a rigore impossibile, stendere il certificato di nascita delle lingue neo- e postlatine, indicando con precisione “quando” e “dove” si è verificata la frattura tra latino e volgare: perché, semplicemente, questa frattura non c’è. Tuttavia, se è assurdo mettersi alla ricerca di qualcosa che non esiste, resta comunque importante individuare e studiare le prime testimonianze che documentano l’affermazione del volgare: avremo così la possibilità di fissare alcuni concreti riferimenti cronologici, geografici e linguistici che ci permetteranno di comprendere meglio il percorso compiuto da queste nuove esperienze della comunicazione e le tappe della loro successiva evoluzione.

I primi documenti in lingua romanza
Restringendo il campo di indagine al settore dei volgari neolatini, il primo documento conosciuto in una lingua “romanza”, ossia derivata dal latino, sono i cosiddetti Giuramenti di Strasburgo, che risalgono all’842. Si tratta di un testo ufficiale riportato dallo storico franco Nitardo nella sua Storia dei figli di Ludovico il Pio: con esso Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, sovrani il primo delle regioni occidentali, il secondo di quelle orientali dell’Impero carolingio, sanciscono la loro alleanza contro il fratello Lotario, con cui erano in lotta per la spartizione delle terre. I due sovrani con gli eserciti schierati pronunciarono la formula del giuramento dapprima in latino, e poi nelle lingue dei rispettivi popoli, ossia in franco e in tedesco. La testimonianza è di estremo interesse perché ci dimostra in maniera inoppugnabile due diverse realtà: che il latino classico era divenuto ormai incomprensibile a livello popolare; che non per questo esso era stato abbandonato, ma continuava a costituire la lingua ufficiale del potere e delle classi dirigenti. Ci sembra significativo riportare qui il testo del giuramento in lingua franca (“romana lingua”, come la definisce Nitardo) pronunciato da Ludovico il Germanico perché il confronto diretto tra l’antico francese e gli altri volgari neolatini (soprattutto italiano e spagnolo) farà capire come queste lingue fossero in origine vicine e come, quindi, sia stata possibile la circolazione dei primi testi letterari in lingua d’oc e in lingua d’oïl anche al di fuori dei confini francesi. Ecco il testo: “Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d’ist di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo, et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra salvar dift, in o quid il mi altresi fazet, et ab Ludher nul plaid numquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit” (“Per l’amore verso Dio e per la salvezza del popolo cristiano e nostra comune, da questo giorno in poi, per quanta saggezza e potere Dio mi donerà, così io sosterrò questo mio fratello Carlo, e con l’aiuto e con ogni cosa, così come secondo giustizia si deve sostenere il proprio fratello, a patto che egli faccia altrettanto verso di me, e con Lotario non prenderò mai nessun accordo che, per mia volontà, sia di danno a questo mio fratello Carlo”).
Il periodo nel quale si collocano i primi documenti in volgare italiano è quello che va dalla metà del IX alla metà del X secolo. Per avere un documento analogo ai Giuramenti di Strasburgo in volgare italiano, in cui cioè sia chiara la coscienza e deliberata la volontà di esprimersi in una lingua alternativa a quella latina, dovremo aspettare oltre un secolo: risale infatti al 960 il Placito Capuano, una “sentenza” emessa a chiusura di una causa intentata da un privato contro il monastero benedettino di Montecassino circa il possesso di alcune terre. Le ragioni di questo ritardo sono molteplici: in primo luogo, va segnalato il disordine politico e il frazionamento particolaristico in cui versava la penisola nei secoli precedenti il Mille, con le difficoltà conseguenti a individuare una soluzione unitaria alle sparse esperienze in volgare, che pure esistevano ma non riuscivano a trovare le strutture politico-sociali necessarie per una aggregazione. Per di più, l’unica autorità in grado di svolgere una funzione centralizzatrice, e cioè la Chiesa, adottava come sua lingua ufficiale il latino e non aveva quindi nessun interesse a favorire l’affermazione e l’ufficializzazione di una letteratura in volgare. La tradizione classica era inoltre da noi più profondamente radicata che nelle altre parti d’Europa, e più difficile risultava quindi il suo superamento. Infine, e questo è forse il dato fondamentale, la relativa vicinanza fra il latino e le diverse forme che il volgare andava assumendo nelle regioni italiane, vicinanza assai più marcata che in qualsiasi altra lingua romanza, rendeva superfluo nella coscienza collettiva un impegno a costruire, affinare e usare una lingua alternativa: insomma, l’italiano è nato in ritardo semplicemente perché, per molto tempo, non se ne è sentito il bisogno.

Letteratura in lingua d’oïl
La letteratura d’oïl è costituita, per la gran parte, dalle chansons de geste (“canzoni di gesta”), raccolte nei cicli carolingio e bretone.
Nel ciclo carolingio spicca la Chanson de Roland (Canzone di Orlando), che risale alla prima metà dell’XI secolo. Nel ciclo bretone (la designazione abbraccia sia l’Inghilterra del Sud-Ovest, sia la penisola nel Nord-Ovest della Francia) si narrano invece le gesta dei cavalieri della Tavola Rotonda e del loro re, Artù. Fra le loro imprese leggendarie occupa un posto preminente la ricerca del Santo Graal, la coppa dove Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo crocifisso. Le forme in cui sono raccontate le gesta dei cavalieri sono varie: canti con accompagnamento musicale, poemetti, romanzi in prosa.
Idealità cavalleresche, audacia e spirito di sacrificio ricorrono anche nel ciclo bretone, come in quello carolingio, con in più la presenza di altri elementi, tra i quali spiccano in particolare il soprannaturale e il magico. Ma, soprattutto, il ciclo bretone è contraddistinto da un fortissimo senso dell’avventura. I protagonisti s’impegnano in azioni nelle quali l’alto rischio personale permette di misurare le proprie capacità e di raggiungere la gloria individuale, per lo più con lo scopo di conquistare la donna amata. Nel ciclo bretone comincia a prender forma il modello del cavaliere errante, che avrà una larga diffusione nelle letterature dei secoli successivi in tutt’Europa. L’autore più noto del ciclo è Chrétien de Troyes, vissuto tra il 1135 circa e il 1190 circa, cui sono attribuiti cinque romanzi cavallereschi, tra i quali Lancelot e Perceval, che hanno per protagonisti i due celeberrimi eroi della Tavola Rotonda.
Meno noto, ma di discreta diffusione, è anche un terzo ciclo di ispirazione classica, che si riallaccia ai poemi epici di autori latini (Virgilio, Lucano, Stazio). In esso, i protagonisti sono gli eroi della letteratura antica, come Enea, celati sotto vesti medievali.
I fabliaux (“favolelli”) sono invece brevi racconti in versi che affrontano temi più realistici, talora con intento satirico. La loro massima espressione si ha, nel corso del XIII secolo, con Le roman de la Rose (Il romanzo della Rosa) di Guillaume de Lorris e Jean Clopinel de Meung-sur-Loire, e con il Roman de Renart (Romanzo di Renart). Nel primo, precetti amorosi in forma allegorica si mischiano a nozioni di filosofia e di scienze naturali; nel secondo, animali parlanti (tra i quali la volpe, “renard”, in francese) incarnano vari caratteri umani, spesso con spirito ironico.

Chansons de geste
Le Chansons de geste sono componimenti in strofe assonanzate o rimate, con lunghezza variabile, e rielaborano in veste letteraria le res gestae (le imprese militari) di alcuni grandi condottieri. Sono articolate sulle imprese eroiche di alcuni personaggi (anche storici) come Carlo Magno e i suoi paladini. Alle origini della chanson de geste c’è in sostanza il “passato epico nazionale”, un mondo arcaico che cosituisce le basi della storia nazionale, insomma la memoria del popolo che riscatta se stesso attraverso le avventure gloriose di un uomo diventato modello di vita. La più celebre delle chansons de geste è senza dubbio la Chanson de Roland, la cui originaria stesura dovrebbe risalire probabilmente alla seconda metà del secolo XI. Il testo ci è giunto soltanto attraverso copie successive, come ad esempio il manoscritto di Oxford, composto in lingua anglo-normanna, e datato tra il 1125 e il 1150; oppure quello in francoveneto conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia, della metà del XIV secolo.
L’origine delle chansons de geste ha provocato alcune perplessità tra gli studiosi: un tempo ritenute patrimonio di una cultura popolare e prodotte da una lunga sedimentazione collettiva, ora si è invece propensi ad accettarle come testi relativamente più tardi e nati con ambizioni letterarie ricalcando le imprese dei crociati e delle vite dei santi. Dunque un’origine elevata, salvo poi il ridimensionamento per un pubblico laico. Tipico prodotto della letteratura cortese è il romanzo cavalleresco non più finalizzato o incentrato esclusivamente sulle imprese militari di un eroe, ma accompagnato da altre tematiche: il fascino per l’esotismo, l’incantesimo e la magia, l’amore inteso come rituale sociale di comportamento, come rapporto raffinato e complesso, ma anche trasgressione e adulterio. Rispetto alla chanson de geste il romanzo cavalleresco inserisce come elemento di novità proprio la tematica amorosa, autentico fatto nuovo e fattore di enorme rilevanza per il poema epico italiano (Boiardo, Ariosto e Tasso). Nel genere cavalleresco si segnalano per la loro importanza i romanzi del ciclo bretone, ispirati alla figura del mitico Re Artù, vissuto alla fine del VI secolo. I romanzi di Chrétien de Troyes, attivo tra il 1160 e il 1191), sono forse l’esempio più significativo del romanzo cavalleresco: articolati intorno alle vicende di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, le opere di questo scrittore (Erèc et Enide, Cligès, Lancelot, Perceval, Tristan) cominciarono a circolare in Italia già dai primi anni del XII secolo. Comunque è dalla prima metà del Duecento che questi materiali si diffondono più frequentemente, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, dando luogo non soltanto a letture ma a vere e proprie imitazioni. Si ricordi il Meliadus di Rustichello da Pisa (un poema d’argomento bretone), oppure tutta una serie di poemi d’ispirazione carolingia per lo più anonimi (Geste Francor, Entrée d’Espagne, Huon d’Auvergne), tutti testi scritti in volgare francese (lingua d’oïl). Altri componimenti in lingua volgare italiana sono ad esempio il Tristano Riccardiano (chiamato così perché conservato nella Biblioteca Riccardiana di Firenze) o altre opere come il Gismirante, Brito de Brettagna, Ponzela Gaia ecc. tutti di ispirazione bretone e diffusi in una cerchia ristretta e aristocratica di lettori.

Chanson de Roland
Opera di autore ignoto che racconta le eroiche imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i saraceni. Composta in strofe (dette lasse), di decasillabi in assonanza (e non in vera e propria rima), ebbe un successo vastissimo, che favorì numerose imitazioni. L’episodio più celebre della Chanson de Roland è la sconfitta dell’esercito franco a Roncisvalle e l’eroica morte del paladino Orlando, rimasto vittima del tradimento di Gano di Maganza. Vi si esaltano il coraggio, l’eroismo in guerra, l’amore verso la patria e la lealtà nei confronti del sovrano, e vi si respira un’atmosfera di forte tensione ideale e spirituale.

I volgarizzamenti
I volgarizzamenti sono traduzioni e adattamenti in volgare di testi latini e francesi, soprattutto del ciclo imperniato su antiche gesta di eroi classici, e del ciclo bretone. Molti di essi hanno scarso valore letterario, ma il loro peso culturale è fortissimo per il vasto successo che ebbero presso un pubblico composito, di varia estrazione sociale.
La Istorietta troiana è una riduzione del colossale romanzo di Benoît de Sainte-Maure (XII secolo), intitolato Le roman de Troie (Il romanzo di Troia), che narra le vicende della guerra tra Achei e Troiani. I Fatti di Cesare, di anonimo, rielaborano in forma di lettura gradevole, ma priva di approfondimento, Li faits des Romains (I fatti dei Romani), che raccolgono leggende su eroi romani. Alla stessa materia s’ispira l’opera I conti di antichi cavalieri, anch’essa di anonimo, che invita i governanti ad imitare le azioni esemplari dei grandi uomini, mossi da ideali di giustizia e di buongoverno. Tra questi vi sono eroi dell’epica classica, come Ettore, e personaggi della storia romana, come Scipione e Cesare, ma anche figure più recenti, quali il Soldano ed Enrico II Plantageneto, primo re d’Inghilterra.
Anche le riduzioni in prosa delle avventure degli eroi della Tavola Rotonda sono più d’una. Rustichello da Pisa, al quale Marco Polo dettò in carcere Il Milione, è autore del Meliadus, che racconta le gesta del padre di Tristano. Lo stesso Tristano e il suo amore per Isotta offrono lo spunto per molte varianti, le più celebri delle quali sono il Tristano Veneto, il Tristano Riccardiano e una sezione della Tavola Rotonda. Del resto, il tema di Tristano è comune alla letteratura medievale di tutta Europa.
Un testo assai interessante è il Libro dei sette savi. Si tratta del volgarizzamento di una raccolta di novelle francesi, la cui materia proviene dall’India. Ciò che lo rende degno di nota è la sistemazione delle novelle. Esse, infatti, sono narrate all’interno di una “cornice”, vale a dire di un filo conduttore, che coordina e giustifica il susseguirsi dei vari racconti. Questo espediente letterario, ripreso più tardi da altri, diventerà un elemento essenziale nel Decameron di Giovanni Boccaccio.
Tra i volgarizzamenti di Brunetto Latini spicca La rettorica; accanto al maestro vanno ricordati Guidotto da Bologna, nonché Bono Giamboni, traduttore del Trésor e di varie opere del tardo periodo classico e medievale.

Letteratura in lingua d’oc
La letteratura in lingua d’oc è composta prevalentemente di opere in poesia. Essa si sviluppa nelle zone della Francia meridionale: Provenza, Aquitania, Limosino, Alvernia, ed avrà una profonda influenza sulla poesia lirica italiana. In lingua d’oc scrivono infatti direttamente alcuni trovatori (il termine equivale a “poeta”) italiani. Inoltre temi e soluzioni stilistiche provenzali si trasmettono alle scuole poetiche siciliana e stilnovistica, per giungere fino al Petrarca.
Le corti feudali, centri di un munifico mecenatismo, sono le sedi privilegiate della lirica trobadorica, che per questo è detta anche “poesia cortese”: addirittura si ritiene che il primo poeta cortese sia stato proprio un feudatario, Guglielmo IX, duca d’Aquitania (1071-1126 o 1127).
La lirica cortese ha prevalentemente carattere amoroso, ma trae modelli di comportamento e di linguaggio dall’ambiente feudale. Il poeta è un “vassallo” che si sottomette alla donna amata, la serve e attende da lei il beneficio. I suoi ideali sono ancora la fedeltà, il coraggio, l’eroismo, ma altra diventa la loro destinazione: il poeta si consacra alla dama, la onora e le è devoto fino al sacrificio. Questo sentimento abbraccia ogni aspetto della sua personalità, lo coinvolge profondamente e si traduce in un continuo impegno a migliorare se stesso. In tal modo il poeta ingentilisce il suo animo e lo guida verso la conquista della perfezione morale.
I princìpi di questa concezione dell’amore sono tanto precisi che si trovano definiti in veri e propri trattati (come il De Amore del francese Andrea Cappellano): l’amore può vivere solo in animi nobili, esenti da meschinità o vizi, e deve restare “segreto”; l’innamorato ha il dovere di nasconderlo, di “schermarlo”, così l’identità della donna viene celata con un nome fittizio (il cosiddetto senhal); il matrimonio è inconciliabile con l’amore, che si nutre di ostacoli e riceve maggior forza dall’impossibilità di possedere la donna amata. Su questi motivi di fondo si sviluppa una vastissima gamma di ramificazioni tematiche e formali. Alla lode della donna e alle riflessioni del poeta sui propri turbamenti amorosi si accompagna l’uso metaforico del linguaggio feudale, l’insistenza su allusioni oscure, che rivelano l’identità dell’amata solo a chi è in grado di decifrarle.
I trovatori appartengono a ceti diversi, ma la comunanza di vita nella corte e i riconoscimenti ottenuti grazie alla fama poetica finiscono col minimizzare le differenze dovute alla nascita, creando una specie di integrazione sociale.
Lo stile della poesia trobadorica mostra un sorprendente livello di raffinatezza: è evidente la capacità di dominare la materia narrata, ricorrendo alle più ardite sperimentazioni linguistiche e retoriche. Esse, talvolta, si arricchiscono di tali rimandi e sottintesi che la lettura e la comprensione immediata del testo diventano ardue: si parla allora di trobar clus (“poetare oscuro, chiuso”), in opposizione al trobar leu (“poetare chiaro, aperto”).
La produzione cortese è ricchissima, e non è esclusivamente maschile: si contano infatti almeno diciassette poetesse in lingua d’oc.
Risultati di altissimo valore poetico furono conseguiti, tra gli altri, da Bernart de Ventadorn, Jaufré Rudel, Arnaut Daniel e Bertran de Born (gli ultimi due ricordati anche da Dante). In loro, l’abilità formale giunge ad una straordinaria perfezione tecnica, grazie alla quale lo schematismo delle situazioni passa in secondo piano, e il riferimento al rituale di vassallaggio perde di concretezza e si trasforma in uno spunto per raffinate sperimentazioni di stile.
L’amore non è il tema esclusivo trattato dai provenzali; ad esso si aggiungono motivi di ispirazione politica e civile, spunti di satira, più raramente temi religiosi.
Dalla Provenza, la lirica trobadorica si diffonde soprattutto in Spagna e in Italia, dove poetano in provenzale autori come il genovese Lanfranco Cigala e il mantovano Sordello. Ma gli argomenti e le tecniche di derivazione provenzale raggiungono anche l’area germanica, dove si sviluppa il movimento definito Minnesang (da Minne, “amore ideale”, e Sang, “canto”), tra i cui rappresentanti si ricorda Walther von der Vogelweide (1170 ca-1230 ca).

I primi documenti in volgare italiano
Quando si può cominciare propriamente a parlare dell’esistenza di un “volgare italiano”? La questione è di estrema complessità, e non è certo possibile pretendere di dare qui una risposta definitiva. Possiamo però fissare alcune coordinate che aiutino quanto meno a stabilire con precisione i termini del problema. In primo luogo, bisogna intendersi su che cosa definiamo con l’espressione “volgare italiano”: se essa indica la presenza organica e consapevole di una lingua letteraria in grado di produrre testi maturi, allora non c’è dubbio che si debba attendere il XIII secolo, con Francesco d’Assisi e la scuola poetica siciliana. Se invece ci si riferisce a una lingua d’uso, a una parlata comune che abbia ormai esplicitamente superato i confini della tradizione latina, bisognerà arretrare notevolmente i termini cronologici: già infatti fra il III e il IV secolo d.C. i documenti disponibili ci mostrano una crisi e un processo di disgregazione del latino classico che fanno intravedere l’emergere delle lingue neolatine. Bisogna peraltro aggiungere che, anche nel pieno dell’età classica, la lingua letteraria latina fu sempre ben distinta da quella popolare e quotidiana: lo stesso termine “classico” nasce dalla radice di “classe”, con cui si indicavano i cittadini appartenenti agli ordini sociali superiori, e che quindi parlavano una lingua diversa, più elaborata e colta, rispetto a quella popolare. La nascita del volgare non va vista insomma come una rottura rispetto al latino classico, ma come un processo di evoluzione del latino popolare, che si trasforma in una lingua nuova attraverso mutazioni lente e spesso impercettibili (un interessante esempio è offerto dalla cosiddetta Appendix Probi, con cui apriamo le pagine antologiche).
Essendo questa la natura del fenomeno, ne deriva una pratica impossibilità di determinarne con precisione i limiti cronologici. Possiamo tuttavia affermare con sicurezza che il volgare italiano era già di uso corrente fra il X e l’XI secolo in documenti di carattere giuridico, ecclesiastico e mercantile, ossia in quegli ambiti nei quali era necessario che il contenuto del testo fosse compreso anche dagli illetterati che avevano ormai perduto ogni familiarità con il latino (contratti, testamenti, formule legali, transazioni commerciali, professioni di fede, ecc.). Al secolo successivo, il XII, risalgono i primi esempi di volgare definibile in senso lato “letterario”, svincolato da precise finalità pratiche e rispettoso invece di obblighi ritmici, metrici e fonetici. Si tratta di testi giullareschi, composti cioè da cantastorie e poeti di corte o di piazza in un linguaggio fortemente impregnato di forme dialettali, latinismi, francesismi, e quindi ancora lontano da una fisionomia coerente e unitaria.

Il libro manoscritto
Il libro è stato considerato, nella sua lunga storia, come uno specifico contenitore della conoscenza. Nato molti secoli dopo la comparsa della scrittura, esso ha subìto in primo luogo un’evoluzione di tipo tecnico, ma la funzione che si è accompagnata allo studio del libro, alla conservazione, alla tutela di un immenso patrimonio culturale, hanno ben presto assunto un valore paradigmatico. In molti casi, ad esempio, il libro ha raccolto attorno alla propria immagine una serie di significati metaforici ed è stato utilizzato come figura del mondo e della vita. Allo stesso tempo, il luogo adibito alla sua conservazione, la biblioteca, è diventata il simbolo della condizione labirintica dell’uomo e della ricerca della verità: l’attività della scrittura, il possesso dei libri, la scoperta dei codici dell’antichità, la formazione di una biblioteca personale, hanno avuto nella professione intellettuale, un’importanza decisiva dovuta al fatto che soltanto attraverso il confronto con la cultura scritta l’uomo di lettere può svolgere fino in fondo il proprio ruolo sociale e morale.
Soprattutto nell’antichità, prima cioè del XII secolo, il libro era prevalentemente uno strumento per la conservazione e l’assimilazione del sapere: soltanto con l’emergere di una cultura laica, in alternativa a quella ecclesiastica dei monasteri, esso ha acquisito anche la funzione della diffusione della conoscenza presso un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo.
Prima dell’avvento della stampa a caratteri mobili, inventata da Gutenberg verso la metà del ‘400, i testi erano unicamente manoscritti, redatti da amanuensi specializzati nell’uso della scrittura, e spesso arricchiti con finissime e preziose miniature che illustravano l’opera, destinata in questo caso a una fruizione ristretta e a una circolazione assai limitata.
L’attuale struttura del libro a stampa è in sostanza il risultato di una lunga trasformazione tecnica e concettuale di questo prodotto: nell’antichità esso aveva infatti l’aspetto del volumen, consisteva cioè in un rotolo di papiro o di pergamena che durante la lettura veniva appunto srotolato mediante una evolutio della pagina. Alla fine dell’età classica il papiro venne definitivamente soppiantato dalla pergamena, assai più resistente e pratica, e il volumen assunse la forma del codex. Nel IV sec. d.C. nella Biblioteca di Cesarea in Palestina tutti i testi precedentemente realizzati su rotoli di papiro vennero trascritti su codici di pergamena, quasi che i funzionari di quella biblioteca avessero sentito l’urgenza e la preoccupazione di salvaguardare un patrimonio che altrimenti sarebbe andato incontro a un’inevitabile usura.
La sostituzione del volumen con il codex apportò notevoli miglioramenti anche per quanto riguardava la consultazione del testo. Nel codex la scrittura è distribuita nelle singole carte (o pagine) in porzioni limitate, spesso su due colonne con lo stesso numero di righe. La numerazione delle carte a seconda del recto (facciata anteriore della pagina) e del verso (facciata posteriore) e la realizzazione di indici appositi facilitarono un utilizzo più veloce e pratico.
Lo sviluppo del cristianesimo occidentale ha avuto un’importanza capitale per quanto riguarda la riproduzione dei testi. In un periodo come l’Alto Medioevo, caratterizzato dalle invasioni barbariche e dalla dispersione della cultura classica, il monastero ha svolto, oltre alla sua originaria funzione di luogo di preghiera e di vita religiosa, un ruolo decisivo per quanto riguarda l’organizzazione, la produzione, la conservazione e lo studio del patrimonio librario. Al suo interno lo scriptorium agiva come un laboratorio nel quale si riproducevano fedelmente testi religiosi, scientifici, filosofici, letterari, mentre nelle ricche biblioteche questi testi venivano gelosamente conservati.
Dagli scriporia ecclesiastici uscivano principalmente testi sacri. È questa la ragione per cui noi oggi disponiamo prevalentemente di codici relativi alla spiritualità cristiana: la Bibbia in primo luogo, quindi i testi liturgici, ma anche le opere dei Padri della Chiesa (Clemente Alessandrino, Origene, Tertulliano, Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio Magno, ecc.).
Nel caso del monastero, il luogo di produzione del libro coincideva con quello della sua fruizione: i testi circolavano con molta difficoltà e venivano consultati unicamente da coloro che facevano parte degli ordini ecclesiastici nella biblioteca in cui essi erano custoditi. Nelle scuole monastiche studiava non soltanto il clericus, l’uomo di chiesa, ma anche chi apparteneva al popolo secolare e si radunava attorno alla chiesa in cerca di protezione: tuttavia questo fenomeno è piuttosto limitato, circoscritto nel tempo e nello spazio, e pertanto relativo a un pubblico molto esiguo. Mentre la riproduzione di libri religiosi avvenne secondo una frequenza piuttosto regolare, i testi della classicità latina subirono una sorte diversa: la rinascita della filologia latina e dell’attività scrittoria relativa alle grandi opere letterarie, storiche e filosofiche avvenne tra l’VIII e il IX secolo, grazie all’impulso di Carlo Magno, e proseguì fino verso il X e l’XI secolo.
Un notevole impulso alla produzione del libro venne offerto dalle università: nasceva in questo senso un concetto “laico” del libro, inteso cioè come strumento di studio e di apprendimento delle discipline impartite nei grandi centri universitari europei (Bologna, Parigi, Oxford). Il libro diventava in questo modo oggetto di mercato e la realizzazione di questi testi si diffuse nei settori dell’economia artigianale: talvolta erano gli studenti che ricopiavano per loro uso e consumo i testi delle lezioni accademiche, ma più spesso la riproduzione manoscritta era affidata a officine scrittorie e botteghe specializzate.
Tra la fine del XII e i primi del XIII secolo il processo di produzione dei testi manoscritti subiva una sostanziale modifica: aumentò la quantità dei libri disponibili, cambiarono i luoghi stessi della produzione e lo statuto sociale degli operatori, si trasformò soprattutto il pubblico dei fruitori. In sostanza il librò si urbanizzò e si laicizzò in maniera definitiva. Non soltanto, ma nel XIII secolo il libro cominciò a essere trascritto anche in lingue diverse dal latino, in volgare italiano ad esempio, come dimostra la ricca diffusione dei codici della lirica duecentesca.
Nel Medioevo latino, cioè dalla fine dell’Impero Romano (V sec. d.C.) fino all’affermazione delle lingue neolatine (il volgare italiano, la lingua d’oc, la lingua d’oïl, ecc.), il libro ha assunto spesso la fisionomia della trattazione enciclopedica, come le Disciplinae di Marco Terenzio Varrone II-I sec. a.C.), il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (V sec. d.C.) o il Didascalicon del filosofo Ugo di San Vittore (XII sec.). A queste summae (ma vennero anche chiamate con il termine di speculae o di tresors) si affiancarono poi sillogi e antologie di varia natura: il codice medievale stenta cioè ad affermarsi come singola opera di un un solo autore, ma più spesso il libro contiene zibaldoni e selezioni di opere ben più ampie.
Per quanto riguarda la forma-libro del XIII secolo, autonoma sia per quello che concerne la trascrizione che per la sua fruizione, gli esempi più significativi vengono dalla tradizione lirica in volgare italiano.

Chierici e laici
Nell’arco di tempo che va dal VI al X secolo il patrimonio della cultura scritta le attività legate al sapere rimasero circoscritte a un limitato numero di utenti. Si può parlare di veri e propri specialisti della cultura, generalmente individuabili nell’ambiente ecclesiastico: il termine chierico (in latino clericus) indicò indifferentemente sia l’uomo di Chiesa, adibito alle funzioni liturgiche, alla predicazione e ai compiti pastorali, sia l’intellettuale, la cui formazione avvenne sempre all’interno delle strutture della Chiesa (scuole episcopali, monasteri, abbazie).
Il prestigio di cui il clericus venne investito in questa fase storica era destinato ad accrescersi e a stabilizzarsi, tanto all’interno della Chiesa, quanto all’interno dei centri del potere laico. L’intellettuale-ecclesiastico legge e scrive in latino, conosce le Sacre Scritture e le interpreta, occupa un posto di rilievo nelle gerarchie sociali del Medioevo: è, in sostanza, un uomo di potere, e per questa ragione il suo servizio diviene fondamentale anche nelle curiae (cancellerie), dove si amministrano e si gestiscono la politica e l’economia. L’intreccio tra potere ecclesiastico e potere laico costituisce pertanto una delle prerogative fondamentali del clericus: da questo stretto legame si origina anche una visione della politica fortemente influenzata dalle concezioni religiosi. Il clericus ricopre incarichi di varia natura: è adibito alla riproduzione dei testi (il suo ruolo è pertanto quello di un semplice scriptor); talvolta aggiunge al testo qualcosa che comunque non è frutto della sua rielaborazione (in questo caso egli funziona come compilator), oppure introduce nel testo un commento per renderlo intelligibile (svolge allora il compito del commentator); in occasioni particolari, ma siamo allora in presenza di personalità di livello più complesso, egli si comporta come un vero auctor, sviluppando le proprie idee ma attenendosi al pensiero di altre auctoritates.
In tutta l’età alto-medievale gli scrittori non possiedono una rilevante considerazione del proprio ruolo sociale e della propria importanza culturale: gli auctores, in quanto dotati di auctoritas, di autorevolezza intellettuale, sono gli scrittori e i filosofi dell’antichità, mentre i moderni non possono assumersi questo titolo. Anche la distinzione tra opera originale e volgarizzamento è assai labile, con la conseguenza che il traduttore può assumersi facilmente la paternità di un’opera letteraria.
Una cultura laica di grande prestigio si afferma, soprattutto in Francia e in Italia, soltanto dopo il secolo XI, grazie alla struttura politica della corte e al sistema comunale. I giullari e i trovatori provenzali, i poeti siciliani alla corte di Federico II, i rimatori del Duecento italiano prediligono la lingua volgare; promuovono un impegno civile e morale della letteratura; stabiliscono con il potere politico un rapporto di collaborazione basato sulle capacità tecnico-giuridiche della loro formazione; rifiutano il semplice ruolo di “esecutori” per assumere quello di “produttori” dell’opera d’arte; concepiscono la poesia e il sapere come una condizione professionale.

Giullari e istrioni
I primi testi letterari italiani provengono quasi tutti dal mondo giullaresco: il Ritmo Laurenziano, il Ritmo Cassinese, il Ritmo di Sant’Alessio sono collocati tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo in un ambito sociale vicino al mondo ecclesiastico. Tuttavia i giullari (ioculatores in latino, jongleurs in francese) subiscono l’opposizione del clericus a causa della loro instabilità sociale e mobilità in seno al sistema politico cortese. Mentre i chierici sono figure facilmente controllabili e bene inserite nelle strutture religiose dell’epoca, i giullari agiscono nello spazio della anti-istituzionalità e della sottrazione alle regole del sistema. I titoli negativi con cui essi vengono etichettati (histriones, scurrae) mettono in risalto la componente di dissacrazione che è implicita alla loro funzione: il giullare adopera un linguaggio licenzioso e osceno; è piuttosto un esecutore che un produttore; si affida prevalentemente alla trasmissione orale e all’improvvisazione.