CONSEGUENZE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

CONSEGUENZE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

CONSEGUENZE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE


La storia della seconda metà del ventesimo secolo è in gran parte dominata dal confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, le due uniche grandi potenze emerse dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Le relazioni internazionali furono caratterizzate dalla divisione dell’Europa in due blocchi di stati sotto l’egemonia delle due superpotenze nucleari, le cui sfere d’influenza si allargarono fino a comprendere quasi tutte le nazioni del mondo.

La sostanziale stabilità di questo nuovo sistema bipolare di relazioni internazionali si fondò in gran parte sull’equilibrio del terrore, la paura che un conflitto aperto tra i due grandi si sarebbe trasformato in una guerra nucleare senza vincitori.

Questo equilibrio armato garantì un’epoca di pace strategica, ma trasferì le tensioni tra le potenze sui conflitti locali, spesso acuendoli, e distorse lo sviluppo degli eventi per quasi cinquant’anni, dall’immediato dopoguerra fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991.

La seconda guerra mondiale non ebbe solo l’effetto di ridistribuire il potere tra vincitori e vinti.

Essa stravolse tutta la geografia politica delle relazioni tra gli stati, ponendo fine a un’epoca plurisecolare di supremazia europea, e completando un processo iniziato nei decenni precedenti.

Il vecchio sistema del “concerto delle potenze” europee fu sostituito da un assetto del tutto nuovo.

Il baricentro del potere mondiale si spostò oltre l’Atlantico, dove la ricchezza economica, la potenza militare e la capacità della società statunitense di alimentare miti collettivi sembrarono giustificare appieno il concetto che il ventesimo fosse il “secolo americano”.

Dall’altra parte, l’Unione Sovietica, duramente provata dalla guerra sul piano materiale, mantenne un enorme prestigio militare, guadagnato a caro prezzo con la vittoria sulla Germania nazista e, agli occhi di vaste masse di popolazioni, continuò a incarnare la speranza in un ordinamento sociale più equo.

La seconda guerra mondiale causò perdite e distruzioni senza precedenti nella storia dei conflitti umani. I caduti militari furono circa 27 milioni, quelli tra la popolazione civile quasi 30 milioni. L’Unione Sovietica, con circa 20 milioni di morti, fu il paese più colpito, seguito dalla Cina (12 milioni), dalla Germania (7 milioni) e dalla Polonia (6 milioni, tra i quali quasi tutta la popolazione di religione ebraica). La pace così sanguinosamente raggiunta lasciò devastazioni e macerie in gran parte dell’Europa e del Giappone e in larghe aree della Cina, e la base produttiva dei paesi più colpiti dalle operazioni militari e dal passaggio dei fronti di guerra subì danni enormi. Nella sola Unione Sovietica, durante il periodo bellico la produzione industriale scese del 42% e, nel 1945, l’agricoltura versava in condizioni gravissime, così come le economie di Polonia e Iugoslavia. Nonostante i bombardamenti, l’industria tedesca si trovava in uno stato migliore, ma le maggiori città della Germania erano ridotte a un cumulo di macerie. Circa 30 milioni di europei (dei quali il 60% tedeschi) dovettero abbandonare le loro terre durante il conflitto e, in seguito alle modificazioni delle frontiere nel dopoguerra, le condizioni di vita della popolazione nelle aree più devastate erano estremamente difficili. La situazione degli Stati Uniti era completamente diversa. Gli anni di guerra coincisero con una fase di fortissima espansione economica, stimolata da una spesa pubblica più che decuplicata. Tra il 1939 e il 1945, la produzione industriale e il prodotto interno lordo erano pressoché raddoppiati e, all’indomani della guerra, con il 6% della popolazione mondiale, gli USA producevano quasi la metà di tutte le merci su scala globale.

La seconda guerra mondiale segnò una svolta cruciale nella storia degli Stati Uniti che, all’indomani del conflitto, si trovarono proiettati sulla scena mondiale in posizione di netto predominio. Alla forza militare e alla vastità degli arsenali dispiegati contro il nazifascismo, si affiancava una supremazia economica indiscussa, e il monopolio assoluto degli armamenti atomici, mantenuto fino al 1949, conferì inizialmente agli USA uno status unico di superpotenza. Queste condizioni materiali, insieme alla forte capacità di proiettare verso l’esterno la propria leadership politica e ideale, costituì la base sulla quale le élites della nazione articolarono un progetto ambizioso di egemonia, in un sistema mondiale fondato sul multilateralismo degli scambi e la libertà economica. La secolare ascesa americana al rango di grande potenza trovava così una nuova sintesi, che affiancava alla consolidata penetrazione commerciale e finanziaria sui mercati mondiali, incarnata nella tradizionale politica della “porta aperta”, l’assunzione diretta di responsabilità internazionali.

Il progetto di un sistema globale fondato sull’ONU e sugli accordi economici di Bretton Woods, però, lasciò ben presto il posto alla creazione di alleanze militari e zone economiche su base regionale. Ciò accadde tanto in funzione antisovietica quanto per l’impossibilità di reinserire rapidamente in un sistema economico aperto le economie di paesi, quali quelli dell’Europa occidentale, duramente colpite dalla guerra e troppo squilibrate rispetto a quella americana. Tali fatti, tuttavia, non intaccarono il significato della storica svolta degli USA, che divennero la nuova potenza egemone di un “impero del consenso” ,segnato da ombre e illiberalità ma sostanzialmente anticoloniale e fondato sulle istituzioni della democrazia rappresentativa.

Durante il primo decennio postbellico, gli Stati Uniti furono attraversati da un’ondata di isteria anticomunista che generò una vera e propria “caccia alle streghe”. Questo periodo è generalmente noto come “maccartismo”, dal nome del senatore Joseph McCarthy, esponente della destra repubblicana più retriva, particolarmente attivo dal 1950 al 1954 nella crociata anticomunista. In realtà, il fenomeno fu assai più vasto delle campagne guidate da McCarthy, e abbracciò un arco di tempo più lungo. Il Congresso, infatti, aveva approvato misure di repressione anticomunista già nel 1940, a dimostrazione che queste non riflettevano solo il clima aspro dello scontro postbellico con l’Unione Sovietica. La cultura anticomunista, in realtà, rispose a molti scopi diversi. Fu utilizzata come strumento di lotta politica fra i due partiti maggiori (che cercarono di scavalcarsi vicendevolmente a destra), per alimentare un clima da mobilitazione permanente e per costringere il movimento sindacale sulla difensiva, erodendone le conquiste del decennio precedente, e per tenere sotto controllo qualsiasi rivendicazione sociale. Si calcola che, tra 1947 e 1954, le indagini statali interessarono più di 13 milioni di americani, portando al licenziamento di circa 12 mila dipendenti pubblici, mentre un numero imprecisato di persone fu emarginato in vario modo dalla collettività. Più in generale, le campagne anticomuniste portarono ad una significativa limitazione delle libertà civili, e alimentarono un clima di intimidazione e di conformismo culturale esasperato, che pesarono sulla società americana per molti anni a venire.

L’URSS uscì dalla guerra duramente provata sul piano materiale e umano. La grande potenza dell’Armata rossa, principale artefice sui campi di battaglia della sconfitta del nazismo, costituiva il punto di maggiore forza del regime di Stalin, rinsaldato dalla vittoria nella “Grande guerra patriottica”, che aveva salvato la nazione dalla catastrofe hitleriana. I vertici dell’URSS, però, erano consci della profonda vulnerabilità del paese sul piano dell’economia e del suo sostanziale isolamento. Nel dopoguerra, perciò, la politica estera sovietica fu guidata dall’imperativo di controllare a ovest una fascia territoriale di difesa, che garantisse la sicurezza necessaria a colmare il distacco economico e tecnologico nei confronti degli Stati Uniti. Analogamente, la politica interna del regime continuò ad essere basata sulla priorità prebellica dello sviluppo forzato dell’apparato industriale. La concentrazione delle risorse nel campo dell’industria pesante e le forti spese militari (che assorbivano quasi un quarto del bilancio dello stato) ottennero l’espansione della produzione industriale del 70% circa sui livelli di anteguerra e consentì all’URSS di diventare una potenza atomica nel 1949. Il costo fu quello di una forte penalizzazione dell’agricoltura e dei beni di consumo primari (portando a un notevole deterioramento dei livelli di vita della popolazione), e la rigorosa centralizzazione di tutte le decisioni accrebbe la rigidità del sistema economico sovietico. Inoltre, la mobilitazione del consenso necessario al raggiungimento degli obiettivi prefissati accentuò il clima di scontro ideologico con l’occidente, e fu accompagnata da un drammatico inasprimento delle “purghe” staliniane e della repressione poliziesca.

La compressione della società sovietica, nel secondo dopoguerra, trovò espressione anche in un conformismo culturale estremamente soffocante e non privo di accenti grotteschi, noto come zdanovismo, dal nome del responsabile staliniano per l’ideologia e la propaganda, Andrej Zdanov. Già principale ideologo delle epurazioni di massa nell’anteguerra, Zdanov inaugurò, nel 1946, una campagna di rigida osservanza dei dogmi del marxismo leninismo in campo scientifico e artistico, portando, per esempio, alla messa al bando della sociologia in quanto “scienza borghese”, e glorificando la “superiorità del socialismo”, millantando teorie e scoperte scientifiche inesistenti. Le arti figurative e la cultura in genere dovettero uniformarsi al “realismo socialista”, che imponeva l’esaltazione delle imprese del proletariato e della “patria del socialismo”, secondo canoni espressivi convenzionali improntati a un elementare naturalismo glorioso. La repressione della libertà intellettuale, estesa alle “democrazie popolari” sotto il controllo di Mosca, si allentò dopo la morte di Stalin nel 1953, ma riprese vigore negli anni Settanta, senza riuscire ad arginare un vasto movimento di “dissenso” intellettuale in URSS e nelle “democrazie popolari”.

L’ONU, nelle intenzioni originarie, doveva formare la struttura di garanzia del nuovo assetto internazionale postbellico. Essa era stata concepita come un nuovo sistema di sicurezza collettiva, retto dall’accordo tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, dotati di diritto di veto (Cina, Francia, Gran Bretagna, USA e URSS). In sostanza, l’organizzazione doveva fornire uno strumento di intervento, solo quando non fossero in gioco interessi vitali dei “cinque grandi”. Ciò divenne praticamente impossibile con la globalizzazione del bipolarismo e la tendenza ad affrontare ogni crisi internazionale, nell’ottica di uno scontro diretto tra i due blocchi. La guerra fredda impedì così di creare la forza militare sotto controllo ONU, che costituiva l’elemento più innovativo rispetto alla vecchia Società delle Nazioni.

Ma accanto alla paralisi causata dallo scontro tra USA e URSS e allo svuotamento di contenuti, conseguente all’utilizzazione strumentale dell’ONU come cassa di risonanza propagandistica (soprattutto da parte occidentale), le Nazioni Unite scontarono anche limiti propri, legati a fattori strutturali. Concepite quando il mondo era ancora controllato dalle sole potenze occidentali, esse si rivelarono incapaci di adattarsi ai rapidi cambiamenti portati dalla dissoluzione degli imperi coloniali, e all’emergere di nuovi conflitti legati ai problemi dello sviluppo.

Una breve fase iniziata alla metà degli anni Cinquanta durante la quale l’inizio della distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica consentì l’ingresso di nuovi stati membri e sembrò conferire nuova efficacia all’azione dell’organizzazione in alcune aree di crisi (come in medio oriente) è stata, perciò, seguita da una lunga fase di declino, prolungatasi fino agli anni ’90, durante la quale l’ONU ha avuto un ruolo di scarso rilievo.

Sostanzialmente incapace di giocare un ruolo attivo nel mantenimento dell’ordine internazionale, l’ONU, tuttavia, ha svolto una funzione importante sul piano dei principi generali del diritto dei popoli. Il primo passo in questa direzione è stato l’approvazione, nel 1948, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, seppure non vincolante, riconobbe, per la prima volta nell’ambito delle relazioni internazionali, l’importanza della salvaguardia delle libertà e dei diritti individuali a prescindere da sesso, razza, lingua e religione. Negli anni successivi, la dichiarazione è stata affiancata da accordi internazionali sui diritti civili e politici e su quelli sociali, economici e culturali (1976) e da accordi più circoscritti di condanna del genocidio (1951), dell’apartheid (1976) e della discriminazione sessuale (1981).

All’alba del dopoguerra, le speranze di un futuro di pace erano legate al grande progetto rooseveltiano di un sistema di sicurezza collettiva, fondato sull’alleanza tra le grandi potenze vincitrici, in grado di garantire l’autogoverno dei popoli e la pace mondiale.

Esso doveva assecondare un’era di benessere economico, che abbracciasse anche l’Unione Sovietica e i continenti extraeuropei.

Ma, in soli due anni, il mondo sembrò di nuovo sull’orlo della guerra, e la contrapposizione frontale fra Stati Uniti e Unione Sovietica si sostituì alla collaborazione del periodo bellico.

Iniziava la “guerra fredda”, combattuta sul terreno della politica, dell’economia e dell’ideologia, più che sui campi di battaglia.

Riemergeva così, dopo la parentesi dell’alleanza di guerra, il filo rosso della contrapposizione tra due sistemi sociali antagonisti, quello capitalista e quello sovietico, che ora si intrecciava con lo scontro geopolitico tra due grandi potenze, conferendogli una forte carica ideologica.

La divisione dell’Europa in blocchi contrapposti, divisi da una “cortina di ferro” corrispondente ai confini delle sfere di influenza disegnate dagli accordi di guerra, fu la prima conseguenza del deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Nell’estate 1945, la conferenza interalleata di Potsdam aveva sancito le aree sotto controllo sovietico e occidentale, che ricalcavano, in sostanza, i limiti dell’avanzata militare dei rispettivi eserciti. La Germania, sul cui futuro esistevano incertezze tanto a ovest quanto a Mosca, fu divisa in zone di occupazione distinte (Berlino, che cadeva nella zona di occupazione sovietica, fu spartita), conciliando gli interessi sovietici a spostare quanto più a ovest il confine della “fascia di sicurezza”, con il timore americano che una Germania sotto controllo congiunto avrebbe permesso all’URSS di penetrare politicamente nel cuore dell’Europa occidentale. Ben presto, però, questi accordi interlocutori lasciarono il posto a un clima sempre più teso. La politica di “sovietizzazione” in Europa orientale, che contraddiceva le precedenti garanzie sullo svolgimento di elezioni libere, e procedeva attraverso la creazione di governi sotto diretto controllo di Mosca, corrispose a una chiusura sempre più ostile da parte occidentale, volta a perseguire unilateralmente i propri obiettivi nello scacchiere tedesco, e a garantire la stabilità politica in senso conservatore della ricostruzione delle economie europee. I toni di netta contrapposizione con l’URSS usati dal presidente americano Harry Truman nella sua “dottrina” nel marzo 1947, il programma di massicci aiuti economici sotto condizione lanciato tre mesi dopo dagli Stati Uniti con il Piano Marshall, e la decisione di unificare le zone di occupazione occidentali in Germania agli inizi del 1948, prefigurando la creazione di uno stato separato schierato con l’occidente (formato l’anno dopo), provocarono la rottura definitiva con l’Unione Sovietica. La nascita dell’alleanza atlantica (NATO), nel 1949, e il riarmo della Germania occidentale sei anni dopo, con la conseguente risposta sovietica della formazione di una propria alleanza ad est (il Patto di Varsavia), sancirono definitivamente la contrapposizione tra i due blocchi.

Il discorso pronunciato dal presidente americano Harry S. Truman al Congresso il 12 marzo 1947, noto come “dottrina Truman”, costituì la prima formulazione pubblica della nuova politica statunitense di contrapposizione all’Unione Sovietica. L’occasione fu data dalla necessità di giustificare di fronte all’opinione pubblica americana, ancora restia ad accettare i costi delle nuove responsabilità mondiali della nazione, la necessità di sostituire la Gran Bretagna come potenza garante dei delicati equilibri mediorientali. In particolare, si trattava di ottenere l’approvazione del Congresso (a maggioranza repubblicana) a finanziare massicci aiuti ai regimi reazionari di Grecia e Turchia, collocate in un’area strategica a ridosso della sfera di influenza sovietica. I concetti utilizzati da Truman, che equiparò la minaccia sovietica a quella hitleriana di dieci anni prima, chiamando gli Stati Uniti a difendere ovunque i “popoli liberi” da un nuovo pericolo totalitario, divennero una caratteristica fondamentale della politica estera statunitense.

La mobilitazione dell’opinione pubblica in una lotta tra “due sistemi di vita alternativi”, specularmente a quanto accadeva sotto il regime staliniano, divenne il pilastro ideologico della strategia statunitense fondata sul “contenimento” dell’Unione Sovietica nella propria sfera di influenza, isolandola dal sistema delle economie capitaliste sotto l’egemonia statunitense. La strategia del “contenimento”, suggerita dal diplomatico George F. Kennan nel 1946, restò sostanzialmente alla base della politica estera americana fino al crollo dell’URSS. Concepita inizialmente in termini economici e politici, essa assunse nel tempo una connotazione sempre più militare e divenne un dogma che privò di flessibilità l’azione degli Stati Uniti.

Lo European Recovery Program, noto come Piano Marshall dal nome dell’allora segretario di stato americano George C. Marshall, costituì l’architrave economica dell’intervento statunitense in Europa. Esso mirava a ricostruirne l’economia messa in ginocchio dalla guerra, a reintegrare la Germania occidentale nel nuovo sistema degli scambi, e a favorire una stabilità sociale basata sulla crescita del benessere e dei consumi di massa. Tra 1948 e 1951, i tredici miliardi di dollari di credito e merci fornite gratuitamente dagli USA alle nazioni aderenti al piano sostennero la ricostruzione postbellica, conformemente agli obiettivi americani, anche in conseguenza del controllo mantenuto dagli Stati Uniti sui loro criteri di utilizzo. Inoltre, le condizioni poste da Washington agli alleati per beneficiare degli aiuti favorirono la ripresa degli scambi intraeuropei evitando il ritorno alle zone commerciali chiuse agli accordi bilaterali tipici del periodo prebellico. Il Piano Marshall, proprio per la sua forte connotazione politica, costituì però anche uno dei punti di rottura principale con l’URSS. Formalmente non esclusa dal parteciparvi, questa non poteva però accettare un controllo sulle proprie politiche economiche da parte della grande potenza rivale. Anche i paesi della sfera sovietica che, inizialmente, avevano pensato di aderire al patto, come la Cecoslovacchia e la Polonia, furono così costretti da Mosca a rifiutarlo.

L’inserimento del Giappone sconfitto nel sistema economico e politico occidentale come bastione orientale in funzione anticomunista, pur con alcune specifiche peculiarità, rifletté, nel complesso, dinamiche simili a quelle dell’Europa occidentale. Una prima fase di smantellamento delle strutture feudali, di riforma agraria, di liberalizzazione politica e civile e di drastica epurazione delle caste militari, ma di sostanziale salvaguardia delle strutture sociali della nazione, fu seguita da una fase di consolidamento dell’economia e del quadro politico in senso conservatore, quando il conflitto con l’Unione Sovietica e, in quest’area geografica, con la Cina popolare divenne il centro delle preoccupazioni della politica estera statunitense. La politica di smantellamento delle concentrazioni industriali (gli zaibatsu) fu perciò abbandonata per non indebolire il sistema economico di un alleato di importanza strategica, dopo il passaggio della Cina continentale nel campo socialista e lo scoppio della guerra di Corea. Una buona parte dei notabili epurati negli anni precedenti fu riabilitata, mentre il governo di occupazione, guidato dal generale Douglas McArthur, avviò una purga di segno opposto, espellendo dall’apparato statale e dai sindacati chiunque fosse legato al partito comunista. Questa modernizzazione di segno politicamente contraddittorio, comunque, non intaccò i tratti fondamentali della cultura giapponese, che anzi ne favorirono il corso. La gerarchizzazione della società e il fermo senso della disciplina collettiva, infatti, divennero uno degli elementi fondanti del decollo industriale della nazione che, peraltro, beneficiò largamente anche della posizione di alleato strategico degli Stati Uniti nel teatro del Pacifico.

La catastrofe della vecchia Europa delle nazioni favorì, a ovest, lo sviluppo di una nuova identità, che rifiutava i nazionalismi esasperati, principali istigatori dei popoli alla guerra, e politicamente ancorata alla creazione, sotto l’egida americana, di un asse franco tedesco, che ponesse fine alla rivalità secolare tra i due stati.

Inoltre, la divisione del continente in due blocchi, reciprocamente inaccessibili e politicamente contrapposti, provocò la chiusura delle tradizionali aree di penetrazione commerciale ad est, e spinse le democrazie occidentali verso un’economia basata su un sistema economico regionale, destinato ad attrarre anche la Gran Bretagna, sempre meno legata ai tradizionali mercati d’oltremare.

Mentre, a ovest, l’Europa procedeva verso un’integrazione economica liberamente contrattata, a est, gli stati sotto controllo sovietico, forzatamente inseriti nel sistema produttivo dell’URSS, mutarono la loro fisionomia economica e sociale e la percezione della propria identità

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