CHI SONO I CICLOPI

CHI SONO I CICLOPI


“All’inizio di tutte le cose, la Madre Terra emerse dal Caos e generò nel sonno suo figlio Urano. Dall’alto delle montagne Urano guardò la dea con occhio amoroso e versò piogge feconde nelle sue pieghe segrete, ed essa generò erba, alberi e fiori, unitamente alle belve e agli uccelli. Queste stesse piogge fecero poi scorrere fiumi e colmarono d’acqua i bacini, e così si formarono laghi e mari. I primi figli della dea con aspetto quasi umano furono i giganti dalle cento braccia. Poi apparvero i tre ciclopi monocoli “. Così nel suo testo fondamentale “I miti greci”, Robert Graves, spiegando “Il mito olimpico della creazione”, inserisce i ciclopi nel mito patriarcale di Urano, mito che fu accettato ufficialmente con l’avvento della religione olimpica e raccontato da Apollodoro(I 1-2), Euripide (Crisippo citato da Sesto Empirico) e Lucrezio (I 250eII 991).
Esiodo nella Teogonia (133-87 e 616-23) e Apollodoro(I 1 4-5) raccontano che Urano generò i Titani dalla Madre Terra dopo aver cacciato i Ciclopi, suoi figli ribelli, nel remoto Tartaro, un luogo sinistro che dista dalla Terra quanto la Terra dista dal cielo. Per vendicarsi, la Madre Terra indusse i Titani ad assalire il padre loro; e così lo evirarono, guidati da Crono, il più giovane dei sette. I Titani in seguito liberarono i Ciclopi dal Tartaro e affidarono a Crono la sovranità della Terra. Non appena ebbe il supremo potere, tuttavia Crono esiliò nel Tartaro Ciclopi e Titani, insieme ai giganti dalle cento braccia.
Nel mito della “Detronizzazione di Crono” citato da Esiodo (Teogonia), Iginio (Fabula 118), Apollodoro ( I 1 7 e I 2 1), Callimaco (Inno a Zeus 52), Diodoro Siculo (v. 70), Eratostene (Catasterismi 27), Pausania (VIII 8 2) e Plutarco (Perché gli oracoli tacciono, 16) si racconta che la Madre Terra profetizzò la vittoria di suo nipote Zeus, se egli si fosse alleato a coloro che Crono aveva esiliato nel Tartaro. Zeus si avvicinò silenziosamente a Campe, la vecchia carceriera del Tartaro, la uccise, le tolse le chiavi e, dopo aver liberato i Ciclopi e i giganti centimani, li rianimò col cibo e le bevande degli dei. I Ciclopi in cambio diedero a Zeus la folgore, arma infallibile; ad Ade un elmo che rende invisibile e a Poseidone un tridente. Con questi “oggetti magici” i tre fratelli sconfissero Crono. Nel racconto mitologico sono tre i Ciclopi, feroci e monocoli, costruttori di mura e fabbri ferrai, che si stabilirono prima in Tracia poi a Creta e in Lidia.
Odisseo, come si narra in Omero (Odissea IX 106-566) e in Apollodoro (III 10 4), incontrò i loro figli in Sicilia. I loro nomi erano Bronte, Sterope ed Arge e le loro ombre vagano nelle caverne del vulcano Etna da quando Apollo li uccise per vendicare la morte di Asclepio. Apollodoro (III 10 4) narra, appunto, che Zeus uccise Asclepio con una folgore e Apollo, per vendicarsi, uccise i Ciclopi. Zeus, furibondo al vedere sterminata la sua guardia del corpo, avrebbe esiliato per sempre Apollo nel Tartaro se Latona non ne avesse implorato il perdono.


I CICLOPI SONO REALMENTE ESISTITI? 

Graves, sostenuto da fonti e riferimenti, spiega le radici storiche di queste figure mitologiche. I Ciclopi, secondo la sua ipotesi, furono membri di un’associazione di fabbri durante la civiltà elladica primitiva. Ciclope significa “dall’occhio rotondo” e pare che essi avessero tatuati sulla fronte dei cerchi concentrici in onore del sole, fonte del fuoco che alimentava le loro fornaci. I Traci, infatti, continuarono a tatuarsi fino all’epoca classica. I cerchi concentrici facevano parte del mistero dell’arte del fabbro: per forgiare elmi o maschere rituali, il fabbro si regolava su cerchi, tracciati con il compasso attorno al centro di una lastra piatta. I Ciclopi vengono descritti come monocoli anche perché i fabbri ferrai spesso si coprono un occhio con una benda per ripararlo dalle scintille. In seguito ci si scordò della vera identità dei Ciclopi e i mitografi, lavorando di fantasia, dissero che le loro ombre vagavano nelle caverne dell’Etna, per spiegare così il fenomeno del fuoco e del fumo che uscivano dal suo cratere. Tra la Tracia, Creta e la Licia esisteva uno stretto rapporto culturale; probabilmente i Ciclopi abitavano in tutte e tre le regioni. L’antica cultura elladica si diffuse anche in Sicilia e Graves suppone che l’ Odissea fosse in parte composta in Sicilia e ciò spiegherebbe perché si accenni alla presenza dei Ciclopi nell’isola. I nomi di Bronte, Sterope ed Arge (“Tuono,”Fulmine”,”Chiarore”) sono invenzioni più tarde.
Nell’ Inno di Artemide di Callimaco si narra che la dea, su invito di Efesto, si recò a visitare i Ciclopi nell’isola di Lipari e li trovò intenti a martellare un truogolo per i cavalli di Poseidone. Bronte, cui era stato detto di fare tutto ciò che Artemide volesse, la prese sulle sue ginocchia; ma non apprezzando le sue carezze, la giovane dea gli strappò una manciata di peli dal petto; quei peli non ricrebbero più e Bronte ebbe sempre una macchia bianca sul petto, tanto che chiunque avrebbe potuto crederlo malato di rogna. Le ninfe erano atterrite dall’orrendo aspetto dei Ciclopi e dal fragore della fucina e per questo non è azzardato pensare che esista uno stretto legame tra la figura del Ciclope e l’orco delle fiabe. Ciò è evidente poiché nei racconti degli antichi quando una bimba è disobbediente subito la mamma minaccia di chiamare Bronte, Arge o Sterope. 
Nel mito dei gemelli Preto e Acrisio, figli di Abante re dell’ Argolide raccontato da Pausania (II 16 2) e Stradone (VIII 6 11), si parla di sette giganteschi ciclopi chiamati GASTEROCHIRI (“ventri con mani”) perché si guadagnavano da vivere facendo i muratori. Questi seguirono Preto dalla Licia e fortificarono Tirinto con mura massicce, servendosi di blocchi di pietra enormi. Ma è nel IX canto dell’ Odissea che viene ben delineata la figura di un Ciclope, ed essa è quella che più si fissa nella nostra memoria. Ormai scordata l’arte dei loro avi, che lavoravano come fabbri per Zeus, i Ciclopi che abitavano l’isola toccata da Ulisse e i suoi compagni, erano pastori senza legge che vivevano isolati in caverne profondissime. L’antro dove Ulisse e i suoi compagni si era rifugiato era l’abitazione di Polifemo, il gigantesco figlio di Poseidone e della ninfa Toosa, che era solito nutrirsi di carne umana.
L’episodio è raccontato anche da Igino (Fabula 125), Euripide (I Ciclopi) e Apollodoro (Epitome VII 4-9) e colpisce per la sua crudezza. Ma aldilà dell’effetto catalizzante che il racconto ha sul lettore, Robert Graves vuole darne anche una spiegazione storica. La caverna dei Ciclopi è evidentemente un luogo di morte e il gruppo guidato da Odisseo si componeva di 13 uomini: il numero dei mesi di regno concessi al primitivo re sacro.


POLIFEMO E IL SIGNIFICATO DELL’ OCCHIO 

Il monocolo Polifemo, cui a volte si attribuisce una strega come madre, è un personaggio che appare spesso nei racconti popolari europei e caucasici. Indipendentemente dal significato che la leggenda caucasica possa aver avuto, A.B. Cook nel suo “Zeus” dimostra che l’occhio del ciclope era in Grecia un emblema solare. Tuttavia quando Odisseo accecò Polifemo per non essere divorato con gli altri suoi compagni, il sole continuò a splendere.
Anche Orione, il più bello tra i mortali, accecato, segue – per recuperare la vista -, la strada verso l’oriente. In questo mito, il fragore dei martelli dei Ciclopi serve a spiegare la cecità di Orione: il mito di Odisseo che acceca il Ciclope ubriaco è stato fuso qui con un’allegoria ellenica: il Titano Sole è accecato dai suoi nemici, ma recupera la vista il mattino seguente. L’episodio nell’ Odissea ha conservato, come sostiene Graves, l’atmosfera pastorale della favola caucasica con il suo orco monocolo e si può supporre che possa esserci stata una sovrapposizione tra questo personaggio e i Ciclopi pre-ellenici, fabbri famosi, la cui associazione aveva affiliati anche in Sicilia e che forse avevano un occhio tatuato al centro della fronte come simbolo del clan.


I CICLOPI NELL’ENEIDE (III, vv. 568-683) 

Nel lungo racconto di Enea, durante il banchetto nella reggia di Didone, delle varie peregrinazioni cui è costretto dai fati insieme con i suoi compagni, scampati alla distruzione di Troia, emergono numerosissimi riferimenti alle vicende omeriche di un altro celebre esule, Odisseo. Di tutti gli episodi che riecheggiano i momenti salienti del poema di Omero, l’arrivo in Sicilia, l’isola dei Ciclopi, è il riferimento che maggiormente si distacca dal tentativo di Virgilio di creare una sistematica affinità con l’Odissea. Il poeta, infatti si è spinto fino ad intrecciare le vicende di Enea con quelle di Odisseo, ricreando scene tipiche dell’episodio corrispondente al poema omerico. Elemento d’incontro tra la tradizione greca e latina è la figura di Achemenide, frutto della fantasia dell’autore, che fu compagno di Ulisse e qui abbandonato. E’ possibile confrontare questo personaggio con Linone, colui che, secondo il racconto omerico convinse i Troiani a far entrare il cavallo nella città con un discorso ingannevole; le sue parole infatti riprendono il discorso di Linone nel libro II, vv. 78, ma a differenza di quelle, non sono menzognere. Egli ha riconosciuto i Troiani, e seppur diffidente, vinto dal terrore del Ciclope si getta ai loro piedi. Da parte loro i Troiani, apparentemente dimentichi dell’inganno di Linone e della perfidia greca, accolgono questo greco sconosciuto con pietà e umanità interessandosi di lui e condividendo la stessa condizione di esuli in una terra straniera e piena di insidie. Il dolore accomuna gli uomini, la diffidenza e la paura cessano e rimane soltanto la pietas di Enea. Dal racconto di questo episodio emergono particolari nuovi: su tutti spicca la minuziosa descrizione dell’orrido pasto del Ciclope. Dal fondo dell’antro, egli, infatti, ha potuto più agevolmente contemplare le efferatezze di Polifemo, tra cui spiccano alcuni tocchi prettamente virgiliani, come il tremare delle membra addentate, o il rigurgito nel sonno del confuso mescolamento di carne, sangue e vino che escono dalla sua bocca, mentre resta solo accennata la descrizione dell’atroce configgersi del palo nell’occhio del gigante monocolo. Nel racconto di Achemenide, dunque, emergono particolari nuovi che mettono ancor più in risalto la ferocia e la bestialità di Polifemo. Per il resto, nulla cambia dalla descrizione di Omero, che torna nei ricordi del lettore attraverso le parole del compagno di Odisseo. 
La vicenda dell’esule sovrano di Itaca si intreccia con quella di Enea nel momento in cui il terribile Ciclope fa la sua comparsa sulla scena: i troiani lo vedono comparire in cima al monte, da dove, con l’occhio accecato e sorretto da ” un pino tronco” che “ne guida la mano e sostiene i passi” (v. 659) si dirige con il suo lanoso gregge alla spiaggia a detergere “il liquido umore sanguigno dell’occhio cavato” (v. 663). La fuga precipitosa dei troiani è la stessa di Odisseo e de suoi compagni: e medesimo è il clamorem immensum di Polifemo che si accorge di loro ma che, non potendoli rincorrere ed afferrare, richiama il genus Cyclopum. Richiamato dai boschi e dagli alti monti, si precipita verso la spiaggia e il porto: Enea scorge “eretti invano con il torvo occhio i fratelli etnei, orrendo concilio”. Ma le vele sono già state alzate e le navi dei troiani sono ora sospinte da venti favorevoli.
Resta aperta la discussione sul valore di fratres, vv.678, dato che Polifemo era considerato figlio di Nettuno. Si è pensato che Virgilio abbia seguito Esiodo, il quale affermava che i Ciclopi erano figli di Urano e Gaia, ma ne abbia enfaticamente moltiplicato il numero, che era di soli tre in Esiodo. Ma già Omero nei 399-401 del libro IX dell’Odissea fa pensare che anche per lui fossero una moltitudine. 

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