chi è questa che ven ch’ogn’om la mira analisi

chi è questa che ven ch’ogn’om la mira analisi

di Guido Cavalcanti


Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre1
e mena seco2 Amor, sì che parlare
null’omo pote3, ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira, 
dical’Amor, ch’i’ nol savria contare4:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira5.
Non si poria contar la sua piagenza6,
ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute7
e la beltate per sua dea la mostra8.
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza9.


Livello metrico

Sonetto con rime incrociate, secondo lo schema
ABBA, ABBA, CDE, EDC. In tale schema l’omofonia delle
rime è molto più serrata nelle quartine. Nelle terzine
restano libere da riprese foniche le prime tre rime, con
un incremento notevole dell’ariosità del dettato, affidato
solo alla simmetria degli endecasillabi; la retrogradatio
della seconda terzina, con perfetta dialettica,
crea una nuova simmetria nella nuova succesione di
rime. Le rime in C restano comunque distanziate da
quattro versi.


Livello lessicale, sintattico, stilistico

Sul piano lessicale, è da notare il frequente ricorso a
sostantivi astratti (il latinismo «chiaritate», «umiltà»,
«ira», il provenzalismo «piagenza», e poi «virtute»,
«beltate», «salute», «canoscenza»), che contribuiscono
a creare un’atmosfera rarefatta, nella quale il dato
sensibile tende a sfumare. Siamo all’opposto della teatralizzazione
dei moti dell’anima, osservata nel sonetto
Voi che per li occhi mi passaste ’l core mentre,
in quel caso, la precisione terminologica mirava a
dare concretezza a moti interiori ordinariamente non
rappresentabili in maniera visiva, qui un dato concreto
(il passaggio della donna amata) viene trasportato in
una dimensione trascendente (sottolineata sia dai
richiami scritturali, sia dalla esplicita invocazione a Dio
del v. 5).
Di grande rilevanza anche il ruolo delle negazioni:
«null’omo» (v. 4), «i’ nol savria contare» (v. 6), «Non si
poria contar» (v. 9), «Non fu sì alta» (v. 12), «non si
pose» (v. 13). I due ultimi periodi del sonetto (corrispondenti
alle due terzine) iniziano con l’avverbio
«non»; in due casi (ai vv. 6 e 9) la negazione si riferisce
al verbo «contare»: ne risulta una forte insistenza sull’impossibilità,
per la parola poetica, di descrivere adeguatamente
l’apparizione della donna. Con questa
enunciazione di una poetica dell’ineffabile, Cavalcanti
si colloca agli antipodi di Guinizzelli.
Sul piano sintattico sono frequenti le relative e le
consecutive. È presente un enjambement (vv. 3-4).


Livello tematico

Il tema di questo sonetto è quello, già guinizzelliano,
della lode della donna amata. Sono molti, sia sul piano
tematico che su quello formale — per esempio nelle
parole-rima —, i riferimenti a Io voglio del ver la mia
donna laudare. A prima vista dunque la rappresentazione
della figura femminile, di cui fin dalle
quartine si sottolinea la trascendenza (con l’attribuzione
addirittura di tratti mariani) sembrerebbe ricondurre
il componimento di Cavalcanti nell’alveo di uno stilnovismo
cristiano (molti tratti, tra cui la stessa poetica
dell’ineffabile, sembrano anticipare Dante). In realtà,
se è vero che la donna appare come una figura superiore

e inattingibile, non ci sembra che questo contraddica
i presupposti averroistici del pensiero-poesia di
Cavalcanti. Tutto sta a capire cosa debba intendersi per
“trascendenza” in questo contesto. Più che apparire
come un vero e proprio angelo, la donna è qui infatti
presentata come una manifestazione sensibile
dell’«umiltà» e della «beltate»: manifestazione dunque
di due «virtù», di altissimi ideali (o di forme, se vogliamo
usare la terminologia aristotelica) che possono essere
conosciuti solo dall’intelletto e per giungere ai quali
si deve andare oltre l’impressione lasciata sui nostri
sensi dal phantasma.
L’apparizione della donna ha, a ben vedere, conseguenze
paradossali. Da un lato essa è la manifestazione
sensibile di un mondo ideale e perfetto, che può essere
conosciuto solo intellettualmente. Dall’altro però proprio
la sua apparizione impedisce all’uomo di trascendere la
percezione sensibile, di elevarsi alla conoscenza intellettuale
della «umiltà» e della «beltate». È questa appunto
l’eterna sconfitta dell’uomo innamorato: egli deve confessarsi
incapace di conoscere queste “virtù” proprio nel
momento in cui, in qualche modo, le “vede”.
Appare chiaro che l’uomo sia destinato a questa sconfitta.
In primo luogo, ce lo dimostra l’insistenza sull’impossibilità
di rappresentare adeguatamente con la parola
l’apparizione della donna: dapprima (vv. 3-4) essa priva
della parola gli uomini che la vedono; poi (v. 6) il poeta
proclama la sua personale impossibilità di descrivere
(«contare») la sensazione prodotta dal suo sguardo; infine
(v. 9) l’impossibilità di «contare» non è più solo dell’io
lirico, ma diviene universale («Non si poria contar»).
Le ragioni di quest’insistenza sulla poetica dell’ineffabile
(un vero e proprio climax che parte dal v. 6) si
chiariscono nell’ultima terzina, dove l’impossibilità di
«contare» viene fatta discendere direttamente dall’impossibilità
di avere «canoscenza»: in altre parole, non
si può dire ciò che non si può sapere. La donna, abbiamo
detto, è manifestazione sensibile dell’«umiltà» e
della «beltate»; ma la compiuta conoscenza di queste
idee (non sensibili, ma universali e puramente intellettuali)
non può essere data all’uomo innamorato. La
«mente» infatti non può giungere a quell’altezza (v.
12), all’uomo non è data questa possibilità di salvezza
(«salute», v. 13)1. E ciò perché la mente (come abbiamo
chiarito nell’analisi di Voi che per li occhi mi passaste
’l core [E6]) non è l’intelletto, ma piuttosto
una parte dell’anima sensitiva, e precisamente il luogo
della memoria e dell’immaginazione. Secondo la filosofia
averroistica l’intelletto (che può conoscere le verità
universali senza il continuo supporto dei sensi) non è
dato ai singoli uomini. Esiste soltanto un intelletto
unico e universale, immortale, comune all’intera umanità
(l’anima del singolo uomo è invece destinata a
perire). È vero che per Averroè l’intelletto si congiunge
(copulatur) ai singoli uomini, i quali contribuiscono alla

conoscenza e possono, a loro volta, riceverla; ma per
far questo essi devono saper astrarre dalla visione sensibile,
andare oltre il phantasma che domina la memoria
e l’immaginazione: cosa, come sappiamo, impossibile
per l’uomo in preda alla passione amorosa.
Si spiega quindi perché la «mente» (che è appunto, lo
ripetiamo, il luogo della memoria e dell’immaginazione)
non porta l’uomo innamorato verso il luminoso

cammino della conoscenza, ma piuttosto lo allontana
da essa. Come si vede, ancora una volta, la terminologia
di Cavalcanti è rigorosissima. La trascendenza delle
verità intellettuali, di cui la donna è manifestazione
sensibile, lungi dal disegnare, come qualcuno ipotizza,
il ritratto di un Cavalcanti vicino all’ortodossia cattolica,
sembra confermare appieno le radici averroistiche
del pensiero di cui si nutre la sua poesia.