CESARE PAVESE VITA

CESARE PAVESE VITA

Cesare Pavese

Nacque a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe Cuneesi, il 9 settembre 1908. Era l’ultimo di cinque figli, tre dei quali prematuramente scomparsi; restava la sorella Maria, nata sei anni prima, presso la quale sarebbe andato più tardi a convivere, dopo la morte della madre (1903). La famiglia, di estrazione piccolo – borghese, si era da tempo trasferita a Torino. Al paese d’origine possedeva ancora, tuttavia, un podere e una casa, in cui si recava a trascorrere gran parte delle vacanze. Con suo grande dolore, la casa fu venduta nel 1916, per far fronte a difficoltà di natura economica. Due anni prima, per un tumore al cervello, gli era morto il padre, impiegato presso il tribunale del capoluogo piemontese. Da quel momento la sua educazione fu affidata esclusivamente alla madre, una donna dura ed energica, che non riuscì mai a stabilire col figlio, chiuso e scontroso, un rapporto di autentica comunicazione. Questa difficile situazione familiare è certo una delle ragioni che possono spiegare la fragilità psicologica dello scrittore, le difficoltà incontrate per imparare quello che egli stesso definirà “il mestiere di vivere”. A Torino Pavese frequentava le medie inferiori presso l’Istituto Sociale, una scuola d’èlite, alla quale venivano abitualmente iscritti i figli della nobiltà e della ricca borghesia. Cesare vi si trovava a disagio, per l’aspetto goffo e per i modi che egli, spesso volutamente, manteneva provinciali. Le difficoltà di inserirsi nella vita cittadina facevano sì che egli si rifugiasse, appena possibile, nell’ambiente contadino in cui era nato. La proiezione del dissidio campagna – città, apertosi fin dai primi anni, è divenuta fondamentale per la genesi dell’opera pavesiana. Tale struttura investiva un nodo di problemi esistenziali, destinato a costruire il nucleo centrale delle poesie e dei romanzi. Dopo il ginnasio, Pavese frequentò il Liceo “D’Azeglio” (1923 – 1926); come insegnante di italiano e latino ebbe Augusto Monti, che in piena età fascista sviluppava nella scuola media torinese gli insegnamenti di resistenza al regime propagandati, in diversa misura e con diversa incidenza sul piano ideologico, dal marxista Gramsci e dal liberale Godetti. Alla scuola di Monti Pavese approfondì i suoi orientamenti culturali e diede maggior ordine alle confuse aspirazioni letterarie. I rapporti con il professore non si limitavano, del resto, all’ambito strettamente scolastico e non cessarono neppure con l’ingresso di Pavese all’università. Per interessamento di Monti, Pavese entrò in contatto con un gruppo di giovani intellettuali, allievi ed ex allievi del “D’Azeglio”, uniti dai comuni interessi culturali e da una comune aspirazione di resistenza al fascismo. I loro nomi ( Leone Ginzburg, Franco Antonicelli, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giulio Carlo Argan, Federico Chabod) saranno destinati a formare la futura “intellighenzia” resistenziale nella sua versione laica. E’ questo uno dei periodi di maggiore apertura nella vita dello scrittore. Pavese era presente ai periodici incontri degli amici, si appassionava durante le discussioni letterarie, vi leggeva le prime prove poetiche e narrative. Iscrittosi nel 1927 alla facoltà di lettere, vi si laureò nel 1932, discutendo con Ferdinando Neri una tesi sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman; il lavoro aveva incontrato non poche resistenze e opposizioni in ambiente accademico. Nel frattempo aveva iniziato a tradurre autori americani e ad occuparsene come saggista. Comincia nel 1929 col Nostro signor Wrenn di Lewis, uscito nel 1931 presso l’editore Bemporad. Accanto alle traduzioni è pure da ricordare la collaborazione alla rivista fiorentina “La Cultura”(diretta dal grande maestro Cesare De Lollis), di cui diventerà direttore responsabile nel 1934, in seguito all’arresto di Leone Ginzburg. Anche dopo la rinuncia, nei primi mesi del 1935, all’incarico occupato presso la rivista, continua la collaborazione di Pavese alla casa editrice che G. Einaudi aveva nel frattempo fondato; collaborazione che diventerà, nel tempo, il centro dei maggiori interessi culturali dello scrittore. La situazione politica internazionale in quegli anni si andava evolvendo drammaticamente, con l’esplosione dell’imperialismo fascista; anche Pavese, per quanto non si fosse mai esposto apertamente, non riuscì a evitare lo scontro diretto con la brutale realtà del regime. Nel corso di una nuova operazione condotta contro gli intellettuali raccolti intorno alla “Cultura” e legati a “Giustizia e Libertà”, il 13 maggio 1935, venne trovato in possesso di alcune lettere compromettenti e condannato a tre anni di confino, da scontarsi in un piccolo paese della costa ionica, Brancaleone Calabro. Debilitato da una salute precaria, e dopo molte incertezze, si piegò a sottoscrivere la domanda di grazia, che gli valse una riduzione della pena. Nel 1936, al suo ritorno a Torino, venne a sapere che la donna cui era sentimentalmente legato, e che aveva involontariamente causato la sua carcerazione ( a lei erano indirizzate le lettere che avevano incriminato Pavese), si era sposata. Né la pubblicazione del primo libro, la raccolta di poesie Lavorare stanca, divenne motivo di consolazione, non avendo destato reazioni critiche importanti. Ritornò comunque, lentamente, alle traduzioni e agli impegni editoriali, ma, soprattutto, portava a maturazione il passaggio dalla poesia alla prosa. Scrisse allora gran parte dei racconti (1936- 1938), pubblicati postumi nel volume Notte di festa (1953), e compose i primi “romanzi brevi”: Il carcere, Paesi tuoi, La bella estate e La spiaggia. Di questi solo Paesi tuoi venne subito pubblicato (1941), suscitando reazioni contrastanti, ma imponendo finalmente lo scrittore all’attenzione della critica. Nel 1943, a Roma, dove si era recato per organizzare la sede locale dell’Einaudi, lo colse l’armistizio dell’8 settembre. Durante l’infuriare delle guerra civile tra partigiani e fascisti, egli si rifugiò con la famiglia della sorella in un paesino del Monferrato, spettatore inerte dell’epica Resistenza. L’esperienza passivamente vissuta e subita della guerra, il nuovo appuntamento mancato con la storia, gli ispireranno più tardi il racconto La casa in collina (1947 – 1948), fondamentale per intendere le ragioni segrete del suo dissenso esistenziale nei confronti degli ideali e dei valori della maggior parte dei suoi amici. Dopo la liberazione, riprese la routine del lavoro e delle occupazioni letterarie, e si iscrisse al Partito Comunista. Per “L’Unità”, giornale del partito, compose i Dialoghi del compagno, oltre a una serie di articoli che affrontavano i problemi del ruolo dell’intellettuale e del rapporto letteratura – società. Presso la redazione del giornale conobbe, Davide Lajolo e il giovane Calvino, di cui compose l’esordio letterario (sua è la recensione a Il sentiero dei nidi di ragno, il primo romanzo di Calvino, di argomento resistenziale, pubblicato nel 1947). Pavese, nel frattempo, si era accostato anche al mondo del cinema, dove era in pieno svolgimento la stagione “neorealista” di Rossellini ( Roma città aperta), De Sica ( Ladri di biciclette), Visconti ( Il Gattopardo). Lavorò pure lui ad alcuni soggetti cinematografici, che non vennero però mai realizzati. Nel 1950 ottenne il Premio Strega per la trilogia narrativa di La bella estate, che riuniva racconti scritti in periodi diversi: oltre a quello già ricordato che dà il titolo al volume (1940), Il diavolo sulle colline (1948) e Tra donne sole (1949). Dal settembre al novembre del 1949, Pavese aveva ripercorso, nel romanzo La luna e i falò, le tappe della sua tormentata ricerca narrativa, ritrovandone i simboli nell’ambiente originario delle colline e delle Langhe; anche se si trattava di simboli di distruzione e di morte. Il 27 agosto 1950 Pavese muore suicida in una camera d’albergo a Torino

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