Cavalcanti guido Tu m’hai sì piena di dolor la mente

Cavalcanti guido Tu m’hai sì piena di dolor la mente

Cavalcanti Guido

PARAFRASI E ANALISI



Tu m’hai sì piena di dolor la mente,
che l’anima si briga di partire,
e li sospir che manda ‘l core dolente
mostrano agli occhi che non può soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: “E’ mi duol che ti convien morire
per questa fiera donna, che niente
par che piatate di te voglia udire”.

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.

Parafrasi
Tu mi hai riempito la mente di tanto dolore, che l’anima si dà da fare per partire e i sospiri che emette il cuore dolente, rivelano alla vista che questo non può più sopportare oltre.
Amore che sente la tua grande forza dice: mi dispiace che tu debbba morire per questa donna crudele che sembra non volere avere pietà di te (non voglia neppure sentire parlare di te).
Io vado come chi sia privo di vita e che, a guardarlo sembra che l’uomo sia fatto di rame o di pietra o di legno, che si muova solo per l’ingegno di chi lo ha costruito e porti nel cuore una ferita, che è il segno evidente che egli è morto.

Livello metrico
Il sonetto è costituito da due quartine a rime alternate (che seguono la forma più antica), e due terzine a tre rime, secondo lo schema ABAB-ABAB; CDE-DCE.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Da un punto di vista lessicale, il sonetto presenta le principali parole chiave del pensiero-poesia di Cavalcanti. In evidenza, ad aprire le quartine e le terzine, è il pronome personale: di seconda persona singolare (rispetto al tradizionale «voi» già riscontrato in Guinizzelli e in altre opere del Guido fiorentino) e di prima persona («I’»), per sottolineare la drammaticità della situazione e insieme marcare la differente focalizzazione tra due delle tre partizioni del sonetto (la terza è introdotta dal terzo protagonista del dramma: «Amor»). Il lessico è specificamente cavalcantiano; ricorrono le parole «mente», «anima», «cor», ma si possono notare vocaboli tipici dello Stilnovo, come «pietade», «occhi». Colpiscono per la loro connotazione di materiale inerzia i termini «rame», «pietra», «legno», collocati accanto a «maestria» nel campo semantico del movimento artificioso. Le forme impersonali risentono della lingua francese.
L’andamento sintattico è semplice e piano; domina la paratassi, modulata agilmente, per sottolineare il livello dialogico del componimento, con brevi periodi ipotattici; il ritmo non si distanzia molto dalla sintassi. La punteggiatura corrisponde alla divisione in tre momenti individuata: il punto fermo compare alla fine della prima e della seconda quartina e alla fine delle terzine, che costituiscono un unico blocco tematico. Alla vivacità delle quartine, animate dall’andamento del doppio dialogo (dell’amante verso la donna, di Amore verso l’amante), dalla presenza e dall’azione delle personificazioni dell’organismo, nelle terzine si contrappone la muta e sorda presenza dell’io ridotto a meccanismo.

Livello tematico
Il sonetto, come si è accennato, può essere diviso in tre momenti, che costituiscono altrettanti quadri dell’esperienza amorosa.

L’apostrofe
La prima quartina contiene un’apostrofe diretta alla donna, che viene designata dal «tu» per sottolineare la mancanza di distanza tra l’uomo e la causa della sua sofferenza. Cavalcanti abbandona qui il classico «voi», più adatto a evidenziare il senso di estatica soggezione che genera un essere il quale col solo incedere nobilita l’uomo, per rivolgersi direttamente a colei che rappresenta la felicità irraggiungibile, cioè l’eterno dolore. In realtà non si tratta di una donna in carne ed ossa, bensì di un phantasma che ha colmato la mente, cioè l’immaginazione, del poeta, al punto che l’anima sensitiva (della quale, come già sappiamo, la «mente» fa parte) ha fretta di allontanarsi da lui. Il verbo «partire» indica l’allontanamento delle facoltà vitali, proprie appunto dell’anima sensitiva.
Attraverso un quasi-anagramma la descrizione passa quindi agli effetti che il phantasma provoca nel «cor dolente» (dopo avere, come sappiamo da Voi che per li occhi mi passaste ’l core [E6], destato la «mente» attraverso gli «occhi»). Gli occhi, in questo caso, non sono il semplice mezzo che permette all’immagine di arrivare alla «mente»; stavolta essi stessi sono personificati e, per mezzo delle lacrime, esprimono la sofferenza, conseguenza della battaglia che si sta compiendo tra l’Amore e gli spiriti di cui è costituita l’essenza dell’amante.

La «morte»
Nella seconda quartina la parola è data ad Amore che, percependo la grande potenza («valore») con cui il phantasma della donna sconvolge l’animo dell’amante, ne prevede, in un discorso diretto, l’inevitabile e doloroso destino. Amore si duole che l’uomo debba morire, sebbene si tratti di una morte metaforica, la morte del cuore innamorato a causa di una donna crudele, che sembra mostrare totale indifferenza nei confronti del poeta (il tema anticipa la durezza della donna Pietra dantesca e per alcuni versi anche quella della Laura di Petrarca). Non si deve cercare di identificare tale personaggio in una donna reale, né chiedersi perché sia così spietato: il suo atteggiamento appare assolutamente plausibile se si pensa che siamo di fronte ad una proiezione del tutto immaginaria della figura femminile, che si colloca esclusivamente della «mente» dell’uomo. Non è possibile che tale donna, ineffabile phantasma, possa interagire con il poeta.

L’automa
Nelle terzine si riprende la descrizione degli effetti della passione amorosa. In maniera simmetrica rispetto al «tu» della prima quartina, la prima terzina si apre con «io». La scena ora si sposta sull’uomo e sulle conseguenze che la fissazione sul phantasma della donna ha provocato. L’uomo si vede andare: situazione paradossale, perché è il poeta stesso che descrive il suo incedere, il suo atteggiamento, osservandosi da una posizione straniata rispetto al corpo. I movimenti non sono quelli di un essere vivente; ci troviamo di fronte a un vero e proprio automa, che si muove in virtù di un meccanismo artificiale. L’artefice di tutto ciò è ovviamente Amore. Nella prima terzina è interessante notare come Cavalcanti abbia superato l’artificio retorico della semplice similitudine per arrivare ad elaborare la figurazione oggettiva, plastica, del proprio mondo interiore, attraverso un oggetto che si muove in un modo del tutto particolare. Non siamo di fronte, come in Guinizzelli, ad una semplice statua: l’uomo stesso è fatto di rame, pietra o legno. L’immagine dell’automa condotto dalla «maestria» d’Amore può, per certi versi, ricordare la poetica novecentesca del «correlativo oggettivo1». Tale figurazione della desolazione e dell’alienazione del poeta va infatti ben oltre la tradizionale e razionale poetica guinizzelliana della similitudine; l’automa è una allucinata oggettivazione delle conseguenze della passione amorosa, che mostra e «porta» visibilmente nel cuore il segno evidente della causa della sua morte metaforica.