Cavalcante de Cavalcanti 52-72

Cavalcante de Cavalcanti 52-72


Con taglio netto e drammatico al v. 52 si alza al fianco si Farinata un’ombra che, avendo riconosciuto Dante, si guarda attorno “come talento│avesse di vedere s’altri era meco” (v. 55-56). Nel momento in cui il suo dubbio timoroso trova conferma nell’assenza di chi egli credeva di trovare, prorompe in due interrogativi carichi di angoscia. Si chiede infatti Cavalcante, come mai suo figlio Guido non sia li, presupponendo che Dante abbia tentato da solo e in virtù della sua “altezza d’ingegno” (v. 59) la terribile impresa del viaggio. Cavalcante dimostra così di ignorare valori che non siano umani e la premessa da cui parte è in stretto accordo con l’atteggiamento mentale dell’epicureo, disposto ad attribuire eccessivo alle virtù terrene.

I vv. 61-63 sono fondamentali alla piena comprensione dell’intero poema: “Da me stesso non vegno:│colui ch’attende là, per qui mi mena│forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”. Il viaggio di salvezza compiuto da Dante è voluto dall’alto in virtù della Grazia: occorre quindi deporre l’orgoglio intellettuale e la convinzione dell’autosufficienza dell’ingegno, che da soli non bastano al raggiungimento della beatitudine.

Grande dibattito hanno suscitato i vv. 62-63; l’interpretazione oggi più accreditata sembra essere: “colui che attende là (Virgilio) mi conduce, attraverso l’inferno, a colei (Beatrice, la Teologia) a cui Giudo si rifiutò d’esser condotto”. L’interpretazione tradizionale, che in apparenza sembra più ovvia dal punto di vista sintattico, vuole il disdegno di Guido rivolto a Virgilio, ma la cosa pare strana. A proposito di Guido Cavalcanti, Benvenuto da Imola ricorda che “errorem quem pater habebat ex ignorantia, ipse conabatur difendere per scientiam”; pare quindi fondata l’interpretazione che vuole Guido sdegnoso del trascendente.

Il “forse” (v. 63) è da alcuni riferito al “mena” del verso precedente, in quanto il viaggio non è ancora compiuto e lecito rimane il dubbio circa la sua riuscita. Secondo altri, fra cui la Chiavacci Leonardi, l’avverbio è da riferire all’ “ebbe” , essendo il passo incentrato sulla figura di Guido, e rappresenterebbe un’apertura lasciata alla sorte del “primo amico”.

Rimane da spiegare il passato remoto; il Pagliaro parte dal preciso significato di “ebbe a disdegno”, che non indica un aspetto duraturo, ma momentaneo dell’azione (“si rifiutò di”, sottintendendo il verbo menare, venire). Così il passato remoto è giustificato, sebbene Giudo a quel tempo fosse ancora vivo (morirà qualche mese dopo; il verso può risuonare come triste annuncio della sua prossima morte). Tale integrazione di significato non viene ritenuta necessaria dalla Chaiavacci Leonardi, secondo la quale essa «diminuisce la forza del verso, impedendo che il disdegno investa direttamente colei che rappresenta il divino». Prosegue la studiosa: «la parola “disdegno” ritrae la personalità di Guido quale viene descritta dagli antichi e insieme il suo atteggiamento intellettuale verso il divino che lo contrassegnava e da cui Dante si distingue».

Al di là di ogni lettura, rimane saldo il fatto che il passo sia un omaggio all’amico, dedicatario della Vita Nuova, con il quale Dante ha condiviso esperienze di vita e indirizzo poetico, dal quale ora sembra volersi distanziare.

All’udire la “piena” (v. 64, chiara, esplicita) risposta di Dante, Cavalcante, equivocando le parole udite, pensa di aver trovato conferma al timore che aveva accompagnato la sua stessa apparizione. Gli interrogativi incalzanti dei vv. 67-69, ben sottolineano la disperazione di un padre che non vuol credere a ciò che pensa di aver saputo sulla sorte del figlio e fanno culminare l’intensa drammaticità della scena, resa ancor più concitata dallo stridente contrasto fra questa figura e la fierezza statuaria di Farinata. E così carico del suo dolore, Cavalcante “supin ricadde e più non pare fora” (v. 72).