Carlo Goldoni IL MONDO E IL TEATRO

Carlo Goldoni IL MONDO E IL TEATRO


Prefazione

La Prefazione fu pubblicata nel I tomo dell’edizione Bettinelli a Venezia nel 1750; fu poi riproposta, con minime variazioni, nella edizione Paperini (Firenze, 1753) e nell’edizione Pasquali (Venezia, 1761).

(…)

Nell’anno adunque 1742, seguendo questo pensamento, diedi alle Scene la Donna di garbo, la qual io chiamo mia prima Commedia, e che prima delle altre comparirà in questa raccolta, giacché in fatti è la prima ch’io abbia interamente scritta. Ritrovò essa, dappertutto ove fu rappresentata, e principalmente in Venezia e in Firenze, ottimi giudici del buono, una gentilissima accoglienza; benché molte di quelle grazie per avventura le manchino, che a mio parere adornan le altre posteriormente fatte, dappoi che abbandonata affatto ogni altra professione, come quella di Avvocato Civile e Criminale, che in Pisa allora esercitava, mi son tutto consagrato alla Comica Poesia scrivendo a profitto dell’onoratissimo Girolamo Medebach, il quale alla testa di valorosi Comici va da’ più celebri Teatri d’Italia spargendo ne’ popoli, col mezzo di costumate Commedie, l’istruzione e il diletto. I due Gemelli Veneziani, l’Uomo Prudente, la Vedova Scaltra, furono in seguito tre fortunatissime Commedie, e dopo di esse la Putta Onorata, la Buona Moglie, il Cavaliere e la Dama, l’Avvocato, e la Suocera e la Nuora, replicate con indicibile applauso moltissime sere in varie Città, fecero molto ben l’interesse del benemerito sudetto Comico, e ricolmarono me di consolazione, dandomi a conoscere che non affatto inutili sono state le mie applicazioni, per ricondurre sul Teatro Italiano il buon costume e ‘l buon gusto della Commedia. Mi va poi di giorno in giorno raffermando in questa opinione la fortuna che incontrano comunemente le altre Opere mie, che in questo genere si van recitando, secondo ch’io le vo componendo.

Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno, qualunque ei si sia, di miglior senso, col mezzo di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive, o esemplari in questo genere de’ migliori antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte Nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’intruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ Saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa Persona i mezzi coi quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo in somma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ‘l ridicolo che trovasi in

chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo.

Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia all’occasione delle mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere, diverso in ben molte cose da quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio qualche critica, dalle quali non ordinario applauso io avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regolar talvolta il mio gusto su quello dell’universale, a cui deggio principalmente servire, senza darmi pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti e difficili, i quali pretendono di dar la legge al gusto di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi.

Per questo, quando alcuni adoratori d’ogni antichità esigono indiscretamente da me, sull’esempio de’ Greci e Romani Comici, o l’unità scrupolosa del luogo, o che più di quattro Personaggi non parlino in una medesima scena, o somiglianti stiticità, io loro in cose che così poco rilevano all’essenzial bellezza della Commedia, altro non oppongo che l’autorità del da tanti secoli approvato uso contrario. Moltissime son quelle cose nelle antiche Commedie, massimamente Greche, ed in particolare in quelle di Aristofane, quando elle recitavansi sopra Palchi mobili come le nostre Burlette, le quali assaissimo a que’ tempi, piacevano, e riuscirebbono intollerabili ai nostri e però io stimo che, più scrupolosamente che ad alcuni precetti di Aristotele o di Orazio, convenga servire alle leggi del Popolo in uno spettacolo destinato all’istruzion sua per mezzo del suo divertimento e diletto. Coloro che amano tutto all’antica, ed odiano le novità, assolutamente parmi che si potrebbono paragonare a que’ Medici, che non volessero nelle febbri periodiche far uso della chinchina per questa sola ragione, che Ippocrate o Galeno non l’hanno adoperata.

Ecco quanto ho io appreso da’ miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie Commedie sono principalmente regolate, o almeno ho creduto di regolarle, co’ precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest’Arte. La natura è una universale e sicura maestra a chi l’osserva. «Quanto si rappresenta sul Teatro» scrive un illustre Autore «non deve essere se non la copia di quanto accade nel Mondo. La Commedia» soggiunge «allora è quale esser deve, quando ci pare di essere in una compagnia del vicinato, o in una familiar conversazione, allorché siamo realmente al Teatro, e quando non vi si vede se non se ciò che si vede tutto giorno nel Mondo. Menandro» segue a dire «non è riuscito se non per questo tra i Greci, ed i Romani credevano di trovarsi in conversazione, quando ascoltavano le Commedie di Terenzio, perché non vi trovavano se non quel ch’eran soliti di trovare nelle ordinarie lor Compagnie.» Anche il gran Lopez di Vega, per testimonianza del medesimo Scrittore, non si consigliava, componendo le sue Commedie, con altri Maestri che col gusto de’ suoi Uditori.

Io però, violentato da un Genio oso dir somigliante a quello di questo celebre Spagnuolo Poeta, e a un dipresso seguendo la medesima scorta, ho scritte le mie Commedie. Trattati di Poetica, Tragedie, Drammi, Commedie d’ogni sorta ne ho lette anch’io in quantità, ma dopo d’avermi già formato il mio particolare sistema, o mentre me lo andava formando dietro ai lumi che mi somministravano i miei due sovrallodati gran libri, Mondo e Teatro; e solamente dopo mi sono avveduto d’essermi in gran parte confermato a’ più essenziali precetti dell’Arte raccomandati dai gran Maestri, ed eseguiti dagli eccellenti Poeti, senza aver di proposito studiati né gli uni, né gli altri; a guisa di quel Medico, che trovata talora dal caso e dalla sperienza una salutevole medicina, applicandovi poi la ragione dell’Arte, la conosce regolare e metodica.

Non pensi alcuno però ch’io abbia la temerità di creder le mie Commedie esenti da ogni difetto. Tanto son io lontano da una tal presunzione, quanto mi vo ogni giorno affaticando per migliorar in esse il mio gusto. Parmi solamente di esser giunto a segno di non aver da vergognarmi d’averle fatte, e di poter arrischiarmi di darle alle stampe con isperanza di qualche compatimento.

Io le lascio correre candidamente quali esse furono dapprima scritte e rappresentate. Non voglio che si dica ch’io correggendole abbia cercato di accrescere il merito delle mie prime fatiche oltre alla verità; anzi desidero che il mondo conosca nella differenza che si ravvisa tra le prime e le ultime, come gradatamente, a forza di osservazione e di sperienza, mi sono andato avanzando. A questo fine, stampandole nell’ordine stesso con cui furon composte, rinunzio anche al maggior credito che potrei procurar al mio libro, se io facessi preceder alle prime più deboli, le ultime a mio parere manco imperfette, e specialmente Il cavaliere e La dama, che superò le altre tutte in aver applauso, e nella quale veramente ho posto più studio e fatica.

Per altro, come io ho sempre, egualmente volentieri che gli stessi applausi, ascoltate le varie critiche che furon fatte alle mie Commedie, mentre si recitavano, poiché se quelli animavano a comporre, queste m’insegnavano a compor meglio; così senza cruccio son apparecchiato ad accogliere anche quelle che lor venissero fatte all’occasion ch’escon da’ torchi, collo stesso unico oggetto di profittarmi de’ buoni lumi che potessi indi trarne, ora per sempre disobbligandomi per altro dal far loro la minima risposta. Le composizioni di niun valore non sono nemmeno oggetto degno di critica. Che se alle mie Commedie ne sono state fatte, o se ne faran tuttavia in avvenire, io trarrò quindi un sicuro argomento che degne sieno di osservazione, e però fornite di qualche merito. In fatti, se quelli che o due o tre anni fa sofferivano sul Teatro improprietà, inezie, Arlicchinate da mover nausea agli stomachi più grossolani, son divenuti al presente così dilicati, che ogn’ombra d’inverisimile, ogni picciolo neo, ogni frase o parola men che toscana li turba e travaglia, io posso senza arroganza attribuirmi il merito d’aver il primo loro ispirata una tal dilicatezza col mezzo di quelle stesse Commedie che alcuni di essi indiscretamente, ingratamente, e fors’anche talvolta senza ragione si sono messi, o si metteranno a lacerare.

Quanto alla Lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni idiotismi Veneziani, ed a quelle di esse che ho scritte apposta per Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche noterella, per far sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla in Lingua Bolognese, parla qui nella volgare Italiana.

Lo stile poi l’ho voluto qual si conviene alla Commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od elevato. Questa è la grand’Arte del Comico Poeta, di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene giammai. I sentimenti debbon esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di tutti; conciossiaché, osserva a questo proposito il da me tante volte nominato Padre Rapin, «bisogna mettersi bene in capo, che i più grossolani tratti della natura piacciono sempre più che i più delicati fuori del naturale».

Io mi accorgo d’essere uscito dal mio primo proponimento, e di aver già fatta alle mie Commedie, senza avvedermene e senza volerlo, una Prefazione, se non erudita, certamente lunga. Finisco però senza più dilungarmi, pregando i miei Leggitori di volere ne’ Tomi che seguiran questo primo, attendere Commedie meno imperfette, e ad usar verso di esse tanto maggior discretezza, quanto in loro coscienza si sentissero minor forza di farne delle migliori.

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