CANTO SESTO PARADISO FIG RETORICHE SINTESI PARAFRASI

CANTO SESTO PARADISO FIG RETORICHE SINTESI PARAFRASI

DANTE ​Paradiso – Canto VI​


Secondo cielo: mercurio – Spiriti: Operanti (il bene per il desiderio di gloria) -Intelligenze motrici : Arcangeli.
Giustiniano narra la sua vita (1-27)
Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l’aquila imperiale (la capitale dell’Impero) a Costantinopoli erano passati più di duecento anni, durante i quali l’uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue. Egli si presenta dunque come imperatore romano e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riformò la legislazione romana. Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all’eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, ma poi papa Agapito lo aveva ricondotto alla vera fede e a quella verità che, adesso, egli legge nella mente di Dio. Non appena l’imperatore fu tornato in seno alla Chiesa, Dio gli ispirò l’alta opera legislativa e si dedicò tutto ad essa, affidando le spedizioni militari al generale Belisario che ebbe il favore del Cielo.
Ragioni della digressione sul’Impero (28-36)
Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far seguire un’aggiunta, affinché il poeta si renda conto quanto sbagliano coloro che si oppongono al simbolo sacro dell’aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per i loro fini (i Ghibellini). Il simbolo imperiale è degno del massimo rispetto, e ciò è iniziato dal primo momento in cui Pallante morì eroicamente per assicurare la vittoria di Enea.
Storia dell’aquila: dai re alla Repubblica (37-54)
Giustiniano ripercorre le vicende storiche dell’aquila imperiale, da quando dimorò per trecento anni in Alba Longa fino al momento in cui Orazi e Curiazi si batterono fra loro. Seguì il ratto delle Sabine, l’oltraggio a Lucrezia che causò la cacciata dei re e le prime vittorie contro i popoli vicini a Roma; in seguito i Romani portarono l’aquila contro i Galli di Brenno, contro Pirro, contro altri popoli italici, guerre che diedero gloria a Torquato, a Quinzio Cincinnato, ai Deci e ai Fabi. L’aquila sbaragliò i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, là dove nasce il fiume Po; sotto le insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo, e l’aquila parve amara al colle di Fiesole, sotto il quale nacque Dante.
Storia dell’aquila: l’età imperiale (55-96)
Nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l’aquila venne presa in mano da Cesare, che realizzò straordinarie imprese in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna, Rodano. Cesare passò poi il Rubicone e iniziò la guerra civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a Durazzo, vincendo infine la battaglia di Farsàlo e costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e Iuba, re della Mauritania, per poi tornare in Occidente dove erano gli ultimi pompeiani. Il suo successore Augusto sconfisse Bruto e Cassio, poi fece guerra a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi mordere da un serpente. Augusto portò l’aquila fino al Mar Rosso, garantendo a Roma la pace e facendo addirittura chiudere per sempre il tempio di Giano. Ma tutto ciò che l’aquila aveva fatto fino ad allora diventa poca cosa se si guarda al terzo imperatore (Tiberio), poiché la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato originale, con la crocifissione di Cristo. Successivamente con Tito punì la stessa vendetta, con la conquista di Gerusalemme; poi, quando la Chiesa di Roma fu minacciata dai Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno.
Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111)
Terminata la sua digressione, Giustiniano invita Dante a giudicare l’operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo imperiale dell’aquila appoggiandosi ai gigli d’oro della casa di Francia, i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo, poiché essi lo separano dalla giustizia; Carlo II d’Angiò, d’altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l’aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni più feroci di lui. I figli spesso pagano le colpe dei padri e Dio non cambierà certo il simbolo dell’aquila con quello dei gigli della monarchia francese.
Condizione degli spiriti nel II Cielo (112-126)
Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante e spiega che il Cielo di Mercurio ospita gli spiriti che in vita hanno perseguito onore e fama, per cui quando i desideri sono rivolti alla gloria terrena è inevitabile che si ricerchi in minor misura l’amor divino. Tuttavia, spiega Giustiniano, lui e gli altri beati sono lieti della loro condizione, in quanto i premi sono commisurati al loro merito e la giustizia divina è tale che non possono nutrire alcun pensiero negativo. Voci diverse producono dolci melodie, e così i vari gradi di beatitudine producono una dolcissima armonia nelle sfere celesti.
Romeo di Villanova (127-142)
Giustiniano indica a Dante l’anima di Romeo di Villanova, che splende in questo stesso Cielo e la cui grande opera fu sgradita ai Provenzali, che tuttavia hanno pagato cara la loro ingratitudine nei suoi confronti. Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, ebbe quattro figlie e grazie all’opera dell’umile Romeo tutte furono regine; poi le parole invidiose degli altri cortigiani lo indussero a chiedere conto del suo operato a Romeo, che aveva accresciuto le rendite statali. Egli se n’era andato via, vecchio e povero, e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a chieder l’elemosina, lo loderebbe assai più di quanto già non faccia.
Interpretazione complessiva
Riassunto generale
Lo spirito, rispondendo alla prima domanda del poeta, dichiara di essere Giustiniano, portatore dell’Aquila romana dopo più di duecento anni che Costantino ne aveva trasferito la sede in Oriente. Parla poi della sua conversione alla fede vera e della sua opera legislativa.
Data risposta alla prima domanda del poeta, Giustiniano afferma che la natura stessa di tale risposta, con l’accenno all’aquila romana, lo obbliga ad indicare come erroneamente agiscano i Guelfi e i Ghibellini, gli uni combattendo “il sacrosanto segno”, gli altri indebitamente appropriandoselo. Si tratta della lunga storia dell’Impero che lo rende degno di riverenza.
Giustiniano comincia il racconto della storia del “sacrosanto segno”: fatta dimora in Alba per più di trecento anni, esso passò nelle mani di Roma con la lotta fra Orazi e Curiazi. Vinse i nemici vicini durante il periodo dei sette re e successivamente debellò i Galli e i Tarentini, che avevano chiamato in aiuto Pirro, e atterrò l’orgoglio dei Cartaginesi, che pure, dietro ad Annibale, erano giunti sino in Italia. Trionfarono sotto di lui, ancor giovani, Scipione e Pompeo, come prima erano rifulse le gesta di Torquato, di Cincinnato, dei Deci e dei Fabi.
Giustiniano sintetizza poi le gesta dell’aquila affermando che quando il Cielo stabilì che tutto il mondo fosse in pace, Cesare prese in mano il sacrosanto segno. Però la massima gloria toccò al terzo cesare, Tiberio, sotto il cui regno avvenne la Redenzione. Anche la vendetta dell’uccisione di Gesù fu opera del “sacrosanto segno”, tenuto allora da Tito e infine protesse la Chiesa, attaccata dai Longobardi, col concorso di Carlo Magno.
Giustiniano conclude la digressione, ribadendo il suo rimprovero contro Guelfi e Ghibellini: i primi contrappongono al “sacrosanto segno” i gigli gialli di Francia, i secondi si appropriano di quel “segno”, simbolo di giustizia, per ingiusti interessi di parte.
Rispondendo alla seconda domanda, Giustiniano afferma che nel cielo di Mercurio sono apparse a Dante le anime di coloro che operarono il bene, ma per ambizione di gloria e fama. Questa diminuisce i loro meriti, ma del grado della loro beatitudine essi sono contenti, perché vedono che la ricompensa è perfettamente pari a ciò che hanno meritato.
Giustiniano conclude dicendo che in questo cielo vi è anche l’anima di Romeo di Villanova che, giunto alla corte di Raimondo Berengario, seppe giovare grandemente al suo signore. Ma poi l’invidia dei cortigiani lo rese sospetto a Raimondo, per cui, partito vecchio e povero dalla corte, dovette andar mendicando, ma con animo saldo e dignitoso.
Note
I vv. 1-3 alludono al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio compiuto da Costantino, che portò l’aquila simbolo dell’Impero da occidente a oriente: il percorso è contrario rispetto a quello da Troia al Lazio seguito da Enea (l’antico che Lavina tolse, cioè prese che in moglie Lavinia), nel che alcuni studiosi hanno visto una critica a Costantino. Da quel momento all’incoronazione di Giustiniano passarono meno di duecento anni (v. 4), ma Dante segue probabilmente la cronologia di Brunetto Latini che nel Trésor indica le date del 333 e del 539, quindi con un intervallo di 206 anni.
I monti citati al v. 6 sono quelli della Troade.
Al v. 10 l’imperatore si presenta con un elegante chiasmo (Cesare fui… son Iustiniano) e con i diversi tempi verbali relativi al ruolo di imperatore in vita e all’identità personale (cfr. Purg., V, 88: Io fui di Montefeltro, io son Bonconte).
Il primo amor (v. 11) che ispirò a Giustiniano l’opera legislativa è lo Spirito Santo.
Agapito (v. 16) fu papa nel 533-536: si recò a Costantinopoli per trattare la pace coi Goti e il basileus bizantino, e in quell’occasione avrebbe convinto Giustiniano del suo errore quanto al monofisismo (la fonte è il Trésor).
Il v. 21 indica che Giustiniano vede le verità di fede chiaramente, come Dante vede che in un giudizio contraddittorio una frase è falsa e una è vera (è il principio aristotelico di «non contraddizione»: se si dice che Socrate o è vivo o è morto, vuol dire che una delle due frasi è vera, l’altra per forza falsa, in quanto tertium non datur). La parola «fede» è ripetuta tre volte da Giustiniano, ai vv. 15, 17, 19.
Nella lunga digressione sull’Impero (vv. 34-96) il soggetto è quasi sempre l’aquila, simbolo dell’autorità imperiale.
Il v. 39 allude alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, che secondo il racconto di Livio (Ab Urbe condita, I, 24 ss.) lottarono a tre a tre per decidere le sorti della guerra tra Roma e Alba Longa.
I vv. 43-45 accennano alla guerra di Roma contro i Galli di Brenno (387 a.C.), contro Pirro (282-272 a.C.) e contro altri monarchi e repubbliche dell’Italia centrale.
Torquato e Quinzio (v. 46) sono rispettivamente T. Manlio Torquato, vincitore di Galli e Latini, e L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi, così chiamato perché era ricciuto e non per la chioma arruffata (cirro negletto); l’errore, presente anche in Petrarca, nasce forse da una chiosa errata di Uguccione da Pisa.
Al v. 49 i Cartaginesi di Annibale sono detti anacronisticamente Aràbi, come i genitori di Virgilio erano detti Lombardi (Inf., I, 68).
Il colle citato al v. 53 è Fiesole, distrutta secondo la leggenda dai Romani (fra cui si pensava fosse anche Pompeo, che in realtà era in Oriente) dopo la guerra con Catilina.
I fiumi citati ai vv. 58-60 sono tutti della Gallia e videro le imprese di Cesare: Varo e Reno costituiscono i confini occidentale e settentrionale, l’Isara è l’Isère, l’Era è prob. la Loira (ma potrebbe essere la Saône, detta Arar in latino).
I vv. 67-39 alludono alla deviazione che Cesare avrebbe fatto nella Troade per visitare il sepolcro di Ettore, mentre inseguiva Pompeo in Egitto: Antandro e Simeonta (Simoenta nella grafia latina) sono rispettivamente il porto della Frigia da cui salpò Enea e il fiume che scorreva accanto a Troia.
Al v. 73 bàiulo indica «portatore» ed è latinismo.
Il lito rubro (v. 79) è il Mar Rosso, con cui si allude alla conquista da parte di Ottaviano dell’Egitto.
Il terzo Cesare (v. 86) è Tiberio, che per Dante era il terzo imperatore (dopo Cesare e Augusto).
I vv. 91-93 alludono alla distruzione del Tempio di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d.C., giusta punizione secondo la dottrina medievale per la crocifissione di Cristo: in realtà Tito non era ancora succeduto al padre Vespasiano.
Al v. 106 Carlo novello è Carlo II d’Angiò, figlio e successiore di Carlo I.
I vv. 109-110 non sono chiarissimi, poiché Dante apprezzava i figli di Carlo II (specie Carlo Martello, che fu suo amico) e non sembra verosimile che qui profetizzi le loro sventure come punizione divina del padre; forse la massima è generale.
Al v. 118 gaggi vuol dire «premi», «riconoscimenti» (è francesismo).
Le quattro figlie (v. 133) di Raimondo Berengario IV furono Margherita, moglie di Luigi IX il Santo re di Francia; Eleonora, moglie di Enrico III d’Inghilterra; Sancia, moglie di Riccardo conte di Cornovaglia e re dei Romani nel 1257; Beatrice, moglie di Carlo I d’Angiò. Secondo la tradizione cui si rifà Dante, questi quattro matrimoni regali furono tutti organizzati da Romeo di Villanova.
L’espressione a frusto a frusto (v. 141) significa «a tozzo a tozzo» e allude al fatto che Romeo dovette mendicare il pane.
principali figure retoriche
enjambement:
vv.1-2: volse / contr’al corso del ciel…
vv.16-17: che fue / sommo pastore…..
vv.20-21: come tu vedi / ogni contradizione…
vv.28-29: s’appunta / la mia risposta …
vv.52-53: triunfaro / Cesare e Pompeo
vv.55-56: ‘l ciel volle / redur lo mondo….
vv.122-123: non si puote / torcer…..
metafore:
v.4: l’uccel di Dio
v.17: sommo pastore…
v.94: E quando il dente longobardo morse
v.127: la presente margarita
metonimia:
v.25: e al mio Belisar commendai l’armi
v.63: che non seguiteria lingua né penna
v.72: ove sentia la pompeiana tuba
similitudini:
v.20-21: come tu vedi / ogne contradizione
chiasmo
v.10: Cesare fui e son Giustiniano
anastrofe:
v.78: la morte prese…
v 83 : fatto avea…

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