CANTO QUINTO DEL PURGATORIO

CANTO QUINTO DEL PURGATORIO

BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio ;

introduzione al canto V.

Il canto inizia con il rimprovero di Virgilio perché Dante si è lasciato distrarre dall’ammirazione delle anime: l’evidente sproporzione tra l’occasione (un semplice rallentamento) e l’ampiezza (e asprezza) del rimprovero si spiega pensando che si sono appena lasciati i pigri, e quindi il monito è generale contro la pigrizia e la mancanza di determinazione verso la meta.

Sapegno nota come la nuova schiera si caratterizzi già all’apparire (vedi il paragone coi vapori accesi) per una sorta di affanno o di agitazione, che certo non c’era nei pigri (e nemmeno negli scomunicati): segno di un desiderio più intenso di comunicare con Dante, e segno della loro “morte per forza” che li ha lasciati più timorosi di essere dimenticati dai vivi (e quindi più vogliosi di essere ricordati).

E poi la narrazione dettagliata, concreta (sembra una sceneggiatura cinematografica), punteggiata da riferimenti al sangue (di Jacopo eBonconte) in un crescendo drammatico che ha il suo culmine nella descrizione della tempesta che travolge il corpo di Bonconte: quindi lo stacco, il mutamento di tono, appena quattro versi in cui la Pia non descrive, non dice chiaramente, ma allude.

Di lei niente sappiamo: uccisa perché infedele? Per una immotivata gelosia del marito? Perché questi voleva convolare a nuove nozze? Tutto può essere (e poeticamente può tornare). Ma quel che c’è nel testo è la pietà affettuosa con cui la figura è disegnata: anche le due anime precedenti erano state cortesi con Dante, ma quella di Pia è una cortesia tutta femminile, fatta di riferimenti alla fatica fisica, tutta umana, del viaggio (e non, una volta tanto, al suo valore salvifico); e il modo di riferirsi alla propria morte (dissolve la figura dell’assassino in quella dello sposo) fa contrasto con la maledizione di Francesca (“Caina attende chi a vita ci spense”, Inf. V, 107) e si collega al tono non accusatorio, pudico, di Piccarda (“Uomini, poi, a mal più ch’a bene usi…”, Pd. III, 106).