CALYPSO

CALYPSO

ANALISI

DI GIOVANNI PASCOLI


Poemi conviviali (1904): il loro titolo è tratto dalla rivista “Convivio” di Alfredo De Bosis, ma allude anche ai canti degli aedi ai conviti (Triste il convito senza canto). In endecasillabi sciolti, richiamano miti e figure del mondo classico, greco e romano (il mito dell’Ellade percorre come un filo rosso tutto l’Ottocento, da Foscolo a Leopardi, a Carducci, a D’Annunzio): ma la sensibilità decadente di Pascoli stravolge questi miti, fino a farne simboli della infelicità e del mistero, annullando -secondo un procedimento tipico che sottintende la fuga dalla realtà– i confini della storia, per assorbirla in una visione esistenziale: così Alessandro Magno, arrivato ai confini della terra, piange, perché non può più “guardare oltre, sognare” (Piange dall’occhio nero come morte / piange dall’occhio azzurro come il cielo, Alèxandros); così l’etera non è più la creatura splendente di bellezza e di vita della tradizione classica, ma è la donna affannata che, nell’Erebo, è circondata dalle larve dei figli non nati; e “l’odissea” di Ulisse conduce l’eroe non verso le fascinose plaghe del mito (Polifemo e le sirene sono illusorie costruzioni della fantasia), ma verso l’orrenda morte.


L’ultimo viaggio è il più ampio dei Poemi conviviali, un vero e proprio poemetto in ventiquattro canti brevi. «L’ordito è quello dell’Odissea: Ulisse ripercorre le varie tappe del suo lungo errare, a risognare il suo sogno giovanile, ma invano: a ogni tappa e Circe e il Ciclope e le Sirene si scoprono come illusioni dei sensi; col naufragio dinanzi all’isola di Calypso si spegne il suo sogno estremo».

Non dovrebbe essere difficile cogliere le differenze di risultati poetici fra le altre liriche di Pascoli dei Poemi conviviali, i quali, in gran parte, nascono dalla suggestione di memorie storiche e di realizzazioni poetiche del mondo classico. Nel caso specifico de L’ultimo viaggio, l’opera a cui il Pascoli guarda con ammirazione ed amore è l’Odissea (ne tradusse ampi stralci): il poema nasce quindi come un testo che ne sottintende uno precedente, come una operazione poetica riflessa, vale a dire poesia sulla poesia. Pascoli rifà Omero, con un endecasillabo cui la frequenza degli enjambements conferisce solennità epica, con la ricchezza dell’aggettivazione («pampinea vite», «odoriferi cipressi», «olezzante cedro»), col ricorso alla ripetizione di uno stilema fisso (le «garrule cornacchie» dei vv. 8 e 14), col gusto della descrizione particolareggiata (che ha talvolta, ci sembra, compiacimenti di gusto liberty: v. 38-39, « e sopra l’uomo un tralcio / pendea con lunghi grappoli delI’uve» ; v. 49-50, «Ed ella avvolse l’uomo nella nube / dei suoi capelli»).

Ha messo bene in luce la componente di scaltrita letteratura, di preziosismo, di alessandrinismo che domina i Poemi conviviali, Domenico Petrini (1902-31), che nel 1955 il Contini definiva «il miglior interprete del Pascoli». “Nient’altro nei Conviviali, oltre questa esteriorità preziosa. Per intenderli bisogna guardarli così: poesia raffinata di letterato che s’incanta dell’antico con l’illusione di riviverlo nella sua anima risentendone più d’avvicino le forme. Con un gusto che è schiettamente prezioso: il nome, la parola sono selezionati con cura, attraverso il realistico arrivandosi al raro.

Guardiamo L’Ultimo viaggio di Ulisse. Una piccola “Odissea” in cui continui sono gli echi della poesia omerica, della poesia omerica rifatta italiana da Pascoli. Minuziosa la ricerca del termine tecnico, e minuziosamente accertata: pedagna, scassa, mastra, righino, drizze, caviglie, briglie, scalmi, stroppo, bracci; timone, remo, alleggio, stiva, doghe, canapi, barra, vele, scotte, remi, scalmiere, sartie, stragli, pece, scalmi, stroppi, pale, carena, gomene…

Il particolare non sa sottomettersi in questa poesia, al motivo centrale, ma l’accompagna, come estraneo, con l’inevitabile conclusione di disperderlo in una serie di visioni frammentarie. Tutto il valore dell’opera è nella costruzione della parola: qui passa in secondo piano l’ispirazione volutamente morale, e si scopre nella sua verità e nella sua pienezza l’amore delle forme raffinate: lavoro su materia che preesiste alla creazione del poeta e in cui tutto è lasciato al travaglio formale dell’artista.”