aurea mediocritas orazio Traduzione

aurea mediocritas orazio Traduzione


Rectius vives, Licini, neque altum

Rectius vives, Licini, neque altum
semper urgendo neque, dum procellas
cautus horrescis, nimium premendo
litus iniquum.
Auream quisquis mediocritatem
diligit, tutus caret obsoleti
sordibus tecti, caret invidenda
sobrius aula.
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
Sperat infestis, metuit secundis
alteram sortem bene praeparatum
pectus: informis hiemes reducit
Iuppiter, idem
submovet. Non, si male nunc, et olim
sic erit: quondam cithara tacentem
suscitat Musam neque semper arcum
tendit Apollo.
Rebus angustis animosus atque
fortis appare; sapienter idem
contrahes vento nimium secundo
turgida vela.

Carmina, II, 10 Aurea mediocritas traduzione

Vivrai meglio, o Licinio, non spingendoti
sempre in alto mare né rasentando troppo
la costa insidiosa mentre prudente temi
le tempeste.
Chiunque segue l’aureo principio del giusto mezzo,
sta lontano al sicuro dagli squallori
di una casa decadente, e sta lontano, sobrio,
da un palazzo che suscita invidia.
Più frequentemente i venti agitano il grande pino,
le alte torri crollano con maggior rovina
e i fulmini colpiscono le cime dei monti.
Un cuore opportunamente predisposto attende
situazioni minacciose, nelle situazioni felici ha paura
del destino avverso: Giove riporta gli inverni
che rendono brutte le cose,
ed egli stesso li allontana. Se ora le cose vanno male,
non saà così in futuro: Apollo sveglia con la cetra
la Musa silenziosa e non tende sempre l’arco.
Nei momenti difficili mostrati corraggioso
e forte; allo stesso tempo tu ammainerai
sapientemente la vela gonfiata da un vento
troppo vigoroso


ANALISI e COMMENTO:

L’ode fa parte del secondo libro della raccolta dei “ Carmina” oraziani, pubblicato nel 23 a.C. .Essa ha carattere sapienziale, intende cioè, tramite l’utilizzo di immagini e figure letterarie, esprimere concetti morali particolarmente cari al poeta.

Tali concetti hanno una derivazione filosofica tipicamente greca, con influssi particolarmente significativi di stoicismo ed epicureismo, ma sono arricchiti dalla particolare visione dell’autore, il quale, fin dalle opere della gioventù, una su tutte la raccolta degli “ Epodi”, non aveva mai smesso di fornire ai suoi lettori una sua propria concezione dell’esistenza umana e dei suoi valori, anche e direi soprattutto esemplificandone le deviazioni e i difetti.

Tornando all’ode, il concetto più importante che vi è esposto, l’anima stessa della composizione, è definibile tramite una espressione contenuta nel verso 5 della poesia stessa: “aurea mediocritas”, ossia “ dorata via di mezzo”.

La spiegazione di tale definizione non può prescindere dal concetto, tipicamente greco, della “metropάqeia”, ossia del “ giusto mezzo”, della “medietà”, tema che lo stesso Orazio poteva cogliere nella sua completa esplicazione nell’opera di Aristotele, pur trattandosi di un concetto ben più antico, e di assai larga fortuna.

Il procedimento con cui il poeta ci conduce alla completa definizione della “ mediocritas” è quanto meno mirabile e rappresenta il cardine della composizione: una serie articolata di metafore, ricavate da ambienti e situazioni differenti, ma volte tutte quante a dimostrare la validità “universale” che il giusto mezzo assume. Prima tra tutte l’immagine della nave, metafora della vita umana, e del marinaio, metafora dell’uomo: quest’ultimo deve vivere ”rectius” ( rettamente; da notare a proposito l’uso del comparativo, cioè del grado medio ), a indicare che nella vita, così come in mare, bisogna evitare di spingersi troppo a largo (altum….urgendo), cioè affrontare pericoli eccessivamente rischiosi, ma anche di costeggiare la riva ( premendo…iniquum),insidiosa in quanto contenente pericoli meno evidenti della fragorosa tempesta, ma non per questo meno terribili. L’uso della metafora si fa ancor più stringente nella strofa successiva, vero cuore di tutta la poesia: essa, infatti, contiene l’incitamento più forte e più sentito al raggiungimento di quella medietà, la “mediocritas” di cui sopra, tanto agognata. Interessante è notare l’accostamento dei due termini, assai originale: da una parte l’aggettivo “auream”, che ci richiama alla mente la lucentezza e lo splendore dell’oro, dall’altra, invece, il sostantivo “mediocritas” che , pur privo del significato corrente, dà l’idea di un elemento che “ sta in mezzo “, dunque, tra l’eccellenza e la bassezza.

Il risultato che ne deriva è che la medietà viene innalzata a un livello superiore, resa punto d’arrivo di qualsiasi esperienza umana volta alla serenità, superando così l’apparente antiteticità dei due termini in una voluta e mirabile esaltazione della “ mediocritas “ stessa.

Così come l’alto pino ( ingens pinus ) è più soggetto alla furia dei venti o le alte torri e le cime montuose sono più esposte ai rischi dei crolli e dei fulmini, così anche l’uomo deve guardarsi dall’ergersi troppo in alto; il vero saggio è colui che teme non solo gli “ obsoleti tecti “, le case in rovina, ma anche il suo opposto, la “ aula invidenda “.

La seconda parte dell’ode, invece, che comincia al verso 13, passa all’osservazione degli effetti che l’ “ aurea mediocritas “ può avere sull’uomo, se da lui è applicata alla sua quotidiana esperienza.

Il poeta, dopo aver sancito la validità della sua affermazione, ora la considera in relazione alla “ sortem “ dell’uomo, al suo destino.

E per fare ciò ricorre a immagini prese dalla lirica greca arcaica, in particolare da Archiloco.

Per la verità, nei “ Carmina “, il modello prediletto da Orazio era Alceo, ma in quest’ode, il poeta latino sente la sua affinità strettissima col poeta di Paro, affinità già sperimentata negli “ Epodi “, che lo porta a ispirarsi ad alcune delle sue composizioni; ad esempio, osserviamo il seguente brano tratto dal fr.13 west o “ elegia a Pericle “:

[…]allά qeoί gάr anhkέstoisi kakoίsin

v filʹepί kraterήn tlhmosύnhn έqesan

fάrmakon. άllote άllos έcei tόde; nύn mέn es hmέas

etrάphqʹ, aimatόen dʹ έlkos anastέnomen,

exaύtis dʹetέrous epamέiyetai[…]

Anche Orazio, come Archiloco, invita il suo destinatario, probabilmente in un periodo di difficoltà, a non disperarsi, poiché la sofferenza va e viene ( straordinari i versi “non, si male nunc, et olim sic erit.” ) e solo seguendo la via della “ mediocritas “ l’uomo può parare i colpi dell’ avversa fortuna. Ancora più esaustivi sono i versi dell’ultima strofa, dove la conclusione dell’ode è simbolicamente riaffidata, come nella prima, ad una immagine marinaresca, determinando così una struttura circolare. Qui il ricordo di Archiloco si fa ancora più forte, in particolare quello della famosa “ allocuzione al cuore “ ( fr. 128 West):
[…]kάi mήte nikέwn amfάdhn ayάlleo,

mhdέ nikhqeίs en oίkw katapesvn odύreo,

allά cartoίsin te caίre kai kakoίsin ascάla

mή lίhn; gίnwske dʹoίos rusmόs anqrvpous έcei.

Come per il poeta greco, anche per Orazio l’uomo non deve mai cessare di comportarsi secondo un’ “aequus animus “, ovvero con un cuore equilibrato, che sa comportarsi saggiamente ( sapienter ) sia nelle avversità che nella buona sorte: solo in questo modo l’ “aurea mediocritas” può giungere al suo compimento e consentire all’uomo di distaccarsi, con egualmente sentita decisione, sia dalla rovinosa sfortuna, sia dalla più seducente, ma non per questo meno temibile, troppa fortuna.

Orazio, inoltre, può rivolgere lo sguardo anche a un altro grande della letteratura greca che, come lui, aveva ammonito a non lasciarsi sedurre dalla buona sorte e a comportarsi sempre col medesimo equilibrio: Erodoto.

Per quest’ultimo, infatti, …

oudέn έih tvn en anqrvpoisi asfalέws έcon…

che possa consentire all’uomo di credersi sicuro nella sua felicità e in grado di rinunciare alla sua ricerca della “mediocritas”, unica garanzia per l‘ umanità di sicurezza e serenità.

Per concludere, ritengo che quest’ode sia una delle più belle di tutta la raccolta, sicuramente una delle più significative, in quanto portatrice d’ un messaggio quanto mai moderno, in una società che tende sempre più a mostrarci solo gli aspetti favorevoli della vita, quelli più belli e più coinvolgenti, dipingendoli come sufficienti di per sé a garantire all’uomo la felicità e nel contempo nascondendo, evitando gli aspetti più spiacevoli, quelli negativi, come se non facessero parte della nostra esperienza. Dunque leggere queste pagine può consentirci di riflettere su quanto illusoria e controproducente sia questa pratica e quanto, al contrario, possa ancora oggi avere un senso parlare di “giusto mezzo”. Personalmente, ho sempre guardato all’idea di medietà come a un comportamento saggio, pur se difficile da mantenere, non solo intendendolo come saper affrontare equamente la buona e la cattiva sorte, ma anche come pensare alla propria esistenza fatta di vicende alterne, le cui dinamiche spesso sono e restano misteriose e come tali è necessario porsi nell’atteggiamento di umiltà di fronte ai misteri dell’esistenza, senza rinunciare alla sana sete di conoscenza dell’uomo e tuttavia senza slanci di delirante onnipotenza, purtroppo sempre più dilagante.

Vorrei terminare con una frase di Seneca, altra straordinaria voce che tanto può ancora dirci, che riprende, decenni dopo Orazio, il tema della fortuna e della “medietà”, regalandoci una sentenza memorabile e valida per l’uomo di ogni nazionalità e in ogni età:

“ Fortuna gravis est quibus repentina est, ille sustinet qui semper exspectavit”.

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