ARTHUR SCHOPENHAUER – ANTOLOGIA

ARTHUR SCHOPENHAUER – ANTOLOGIA

IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE


Il fenomeno è parvenza, illusione, mentre il noumeno è una realtà che si “nasconde” dietro l’ingannevole trama del fenomeno:

«È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente».

(Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 3) L’atmosfera orientalistico-metafisica nella quale la filosofia di Schopenhauer immerge il lettore è ben diversa da quella gnoseologico-scientifica della Ragion pura.

IL MONDO COME VOLONTA’

«In realtà sarebbe impossibile trovare il significato di questo mondo che ci sta dinanzi come rappresentazione, oppure comprendere il suo passaggio da semplice rappresentazione del soggetto conoscente a qualcosa d’altro e di più, se il filosofo stesso non fosse qualcosa di più che un puro soggetto conoscente (una testa d’angelo alata, senza corpo). Ma il filosofo ha la sua radice nel mondo; ci si trova come individuo, e cioè la sua conoscenza, condizione e fulcro del mondo come rappresentazione, è necessariamente condizionata al corpo, le cui affezioni, come abbiam fatto vedere, porgono all’intelletto il suo punto di partenza per l’intuizione del mondo medesimo. Per il soggetto puramente conoscitivo il corpo è una rappresentazione come un’altra, un oggetto fra altri oggetti, i suoi movimenti e le sue azioni non sono per lui, sotto questo punto di vista, nulla di diverso dal le modificazioni di qualsiasi altro oggetto intuitivo, e gli resterebbero altrettanto estranei e incomprensibili, se il loro significato non gli venisse rivelato in modo del tutto speciale. Egli vedrebbe le sue azioni seguire con la costanza di una legge fisica i motivi che si presentano, proprio come le modificazioni degli altri oggetti seguono le cause, gli eccitamenti, i motivi. Però non potrebbe comprendere l’influenza dei motivi, più che non comprenda il collegamento degli altri effetti visibili con le loro cause. L’essenza intima e incomprensibile delle estrinsecazioni e delle azioni del suo corpo verrebbe da lui chiamata, come gli piacesse, piacere, forza, qualità o carattere; senza però che ne sapesse nulla di più positivo. Ora le cose non stanno punto così; anzi al contrario: è l’individuo, il soggetto conoscente, quello che dà la parola dell’enigma; e questa si chiama volontà. Questa parola, questa sola, offre al soggetto la chiave della propria esistenza fenomenica; gliene rivela il significato, e gli mostra il meccanismo interiore che anima il suo essere, il suo fare, i suoi movimenti. Al soggetto conoscente che deve la sua individuazione all’identità con il proprio corpo, esso corpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato come rappresentazione intuitiva dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma insieme dall’altro lato, è dato come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che vien designato col nome di volontà. Ogni atto reale della sua volontà è sempre infallibilmente anche un movimento del suo corpo; il soggetto non può voler effettivamente un atto, senza costatare che questo atto appare come movimento del suo corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due stati differenti, conosciuti in modo obiettivo, e collegati secondo il principio di causalità; non stanno tra loro nella relazione di causa ed

effetto: sono, al contrario, una sola e medesima cosa che ci

data in due maniere essenzialmente diverse: da un lato immediatamente, dall’altro come intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo non è che l’atto della volontà oggettivato, cioè divenuto visibile all’intuizione. »

 

(Il  mondo come volontà e rappresentazione,pp.39-41)

INSENSATEZZA DELLA VOLONTA’ DI VIVERE

«La volontà è sempre volontà di qualche cosa, dunque ha un oggetto, un fine. Ora: che cosa mai vuole, a che cosa mai tende quella volontà, che ci vien presentata come l’essenza in sé del mondo? La domanda proviene, al pari di tante altre, dal confondere la cosa in sé con il fenomeno. A questo unicamente, ma non a quella, si estende il principio di ragione, una delle cui modalità è anche la legge di motivazione. Non si può dare una ragione se non dei soli fenomeni come tali, di cose considerate isolatamente: non mai però della volontà, né dell’idea che n’è l’adeguata oggettivazione. […] Ogni fine conseguito non fa che segnare il punto di partenza di un nuovo fine da raggiungere, e così all’infinito. La pianta sviluppa in via ascensionale la sua manifestazione dalla gemma, dal tronco e dalle foglie, sino al fiore ed al frutto: il frutto a sua volta è il principio di una nuova gemma, di un nuovo individuo, destinato a ripercorrere la vecchia strada; e così via, per tutta l’eternità del tempo. Identico è il corso della via animale: la procreazione è il suo culmine: raggiunto questo fine, la vita del primo individuo si estingue più o meno rapidamente, mentre un essere nuovo garantisce alla natura la conservazione della specie e ricomincia lo stesso fenomeno. […] Di tal natura sono infine gli sforzi e i desideri umani, che ci fanno brillare innanzi la loro realizzazione come fosse il fine ultimo della volontà; ma non appena soddisfatti, cambiano fisionomia; dimenticati, o relegati tra le anticaglie, vengono sempre, lo si confessi o no, messi da parte come illusioni svanite. Fortunato abbastanza colui, al quale resti ancora da carezzare qualche desiderio, qualche aspirazione: potrà continuare a lungo il giuoco del perpetuo passaggio dal desiderio all’appagamento e dal-l’appagamento al nuovo desiderio, giuoco che lo renderà felice se il passaggio è rapido, infelice se lento; ma se non altro non cadrà in quella paralizzante stasi che è sorgente di stagnante e terribile noia, di desideri vaghi, senza oggetto preciso, e di languore mortale. In conclusione: la volontà, quando la conoscenza la illumina, sa sempre quello che vuole in un dato luogo e in un dato momento; ma non sa mai quello che voglia in generale: ogni atto singolo ha un fine; la volontà nel suo insieme non ne ha nessuno.

 

(Il mondo come volontà e rappresentazione, pp.201-103)

IL PESSIMISMO

Volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione e di mancanza: ossia dolore

«Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito; l’appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole […] bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per

 

continuare domani il suo tormento » (Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 38).

CARATTERE NEGATIVO DELLA FELICITA’ UMANA «Che ogni felicità sia di natura negativa soltanto, e non positiva […] ne abbiamo una prova anche in quello specchio fedele dell’essenza del mondo e della vita che è l’arte, soprattutto nella poesia. Ogni poesia epica o drammatica può in ogni caso rappresentare soltanto uno sforzo, un’aspirazione attiva, una lotta per la conquista della felicità, e non mai la felicità stessa durevole e compiuta. Essa conduce il suo eroe attraverso mille difficoltà e pericoli sino alla meta: non appena questa è raggiunta, subito lascia cadere il sipario. Null’altro, infatti, le resterebbe, se non mostrare che la luminosa meta, nella quale l’eroe sognava di trovare la felicità, ha beffato anche lui, di modo che, quando l’ha raggiunta, egli non si trova meglio di prima».

(Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 58)

L’ILLUSIONE DELL’AMORE

Il fatto che alla natura interessi solo la sopravvivenza della specie trova una sua manifestazione emblematica nell’amore. Infatti l’amore, che «si impadronisce della metà delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane», è uno dei più forti stimoli dell’esistenza:

«non esita a penetrare, disturbando, tra gli accordi degli uomini di stato e tra le ricerche dei dotti, è capace di introdurre le sue letterine amorose e le ciocche dei capelli nei portafogli ministeriali e nei manoscritti filosofici, ordisce ogni giorno le trame più complicate e cattive, scioglie i vincoli più stretti, conduce a sacrificare a volte la vita o la salute, la ricchezza, il rango e la felicità, anzi priva di coscienza l’onesto e rende traditore il fedele».

(Supplementi al “Mondo come volontà e rappresentazione”, cap. XLIV)

«Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale».

«Se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito».

CRITICA DELL’OTTIMISMO

«Se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l’occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch’egli con l’intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo reale? E nondimeno n’è venuto un inferno bell’e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per un’impresa siffatta»

(Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 59)

IL RIFIUTO DELL’OTTIMISMO COSMICO (la religione cristiana, l’hegelismo)

«A diciassette anni, ancora privo di ogni cultura, fui colpito dalla miseria della vita così profondamente come Buddha nella sua gioventù, quando vide per la prima volta la malattia, la vecchiaia, il dolore e la morte. La verità che del mondo mi parlava chiaro e tondo ebbe presto il sopravvento sui dogmi ebraici che mi erano stati inculcati; e la mia conclusione fu che questo mondo non poteva essere l’opera di un ente assolutamente buono».

«Se un Dio ha creato questo mondo, io non vorrei essere Dio; l’estrema miseria del mondo mi strazierebbe il cuore». «Verrà un tempo in cui la dottrina di un Dio come creatore sarà considerata in metafisica, come ora, in astronomia, si considera la dottrina degli epicicli».

IL RIFIUTO DELL’OTTIMISMO SOCIALE Aristotele, Rousseau, Feuerbach, Marx)

«Vi è dunque, nel cuore di ogni uomo, una belva, che attende solo il momento propizio per scatenarsi e infuriare contro gli altri» (Parerga, n, 114).

«Nel suo libro Des Races humaines, Gobineau ha definito l’uomo come l’animal méchant, par excellence [l’animale cattivo per eccellenza], e questo è stato male accolto dagli uomini […] egli però ha ragione: l’uomo è, infatti, l’unico animale che faccia soffrire gli altri al solo scopo di far soffrire. Gli altri animali lo fanno unicamente per soddisfare la loro fame o nel furore della lotta» (ivi).

«Come l’uomo si comporti con l’uomo, è mostrato, ad esempio, dalla schiavitù dei negri […] Ma non v’è bisogno di andare così lontani: entrare nelle filande o in altre fabbriche all’età di cinque anni, e d’allora in poi sedervi prima per dieci, poi per dodici, infine per quattordici ore al giorno, ed eseguire lo stesso lavoro meccanico, significa pagar caro il piacere di respirare. Eppure questo è il destino di milioni, e molti altri milioni ne hanno uno analogo» (ivi).

IL RIFIUTO DELL’OTTIMISMO STORICO

«Mentre la storia ci insegna che in ogni tempo avviene qualcosa di diverso, la filosofia si sforza di innalzarci alla concezione che in ogni tempo fu, è e sarà sempre la stessa cosa».

(Supplementi al “Mondo come volontà e rappresentazione”, cap. XXXVIII)

LA LIBERAZIONE: L’ASCESI

«Con la soppressione della volontà, vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere senza posa, per tutti i gradi dell’oggettività, nel quale e mediante il quale il mondo consiste. […] Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch’essa nient’altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L’aver noi tanto orrore del nulla, non è se non la manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Allora, in luogo dell’incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passare dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond’è formato il sogno di vita di ogni uomo ancor volente, ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell’assoluta quiete dell’animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo. La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita e con la volontà vediamo dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla (il Nirvana dei buddisti) rimanere innanzi a noi. […] Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è certamente, per tutti quelli che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla».

(Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 71)