APPUNTI SCUOLA IL SOCIALISMO

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I FONDAMENTI DELO PENSIERO SOCIALISTA

La diffusione in Europa delle ideologie socialiste rappresentò una risposta al diffondersi del processo di industrializzazione, alla crescita del proletariato di fabbrica e alle nuove dimensioni assunte dalla questione sociale. Il nucleo centrale del pensiero socialista stava nella convinzione che, per superare i mali e le ingiustizie del capitalismo industriale (in particolare quelli inerenti alla condizione operaia) non era sufficiente la pratica delle riforme dall’alto, né tantomeno il ricorso alla carità. Era invece necessario colpire alla radice i principi informatori della società capitalistico-borghese (l’individualismo, la concorrenza, il profitto) e sostituirli con i valori della solidarietà e dell’uguaglianza, mettere sotto controllo i processi produttivi in modo da orientarli verso il soddisfacimento dei bisogni dell’intera collettività: costruire insomma una società completamente nuova nelle strutture economiche e politiche.
I due principali antesignani del socialismo moderno, che si differenzia con quello antico e fortemente utopistico (vedi “La città del Sole” di Campanella e “Utopia” di Tommaso Moro), sono il francese Saint-Simon e l’inglese Owen.

LA NASCITA DEL PENSIERO SOCIALISTA

Negli anni ’30 e ’40 del XIX secolo le idee socialiste conobbero una certa diffusione in Germania, dove trovarono sostenitori non tanto nell’ancora scarso proletariato industriale, quanto in piccoli gruppi di intellettuali e artigiani. In realtà, dato che le condizioni politiche della Confederazione germanica lasciavano poco spazio all’espressione del dissenso, i nuclei socialisti si organizzarono soprattutto all’estero, fra le comunità abbastanza numerose che operavano in Belgio, in Gran Bretagna e soprattutto in Francia. Nel 1847 uno di questi gruppi, denominatosi “Lega dei Comunisti”, affidò l’incarico di stendere il suo manifesto programmatico a due intellettuali: Karl Marx e Friedrich Engels. Nel “Manifesto dei Comunisti”, uscito a Londra all’inizio del ’48, Marx ed Engels si fecero assertori di un nuovo socialismo, da loro definito “scientifico”. Il nucleo fondamentale del “socialismo scientifico sta in una concezione materialistica e dialettica della storia, vista essenzialmente come un susseguirsi di lotte di classe, di scontri fra interessi economici. I rapporti economici, per i due filosofi, rappresentano la base portante, la “struttura” di ogni società. Le ideologie e le istituzioni politiche, a cominciare dallo Stato, rappresentano le “sovrastrutture” che servono a organizzare e a legittimare il dominio di una classe sulle altre. Ad esempio i regimi liberari e democratici sono l’espressione di un dominio di classe, quello della borghesia giunta alla fase matura del suo sviluppo. Secondo Marx ed Engels, la stessa borghesia ha svolto, nella fase della sua ascesa, una funzione rivoluzionaria. Infatti, dando vita al capitalismo industriale, ha accresciuto enormemente le capacità produttive dell’umanità ed ha abbattuto le disuguaglianze giuridiche della società feudale. Ma, al tempo stesso, ha suscitato contraddizioni che non riesce più a risolvere (da qui le ricorrenti crisi economiche) e ha prodotto il suo antagonista storico, il nuovo soggetto sociale che la soppianterà: il proletariato. E? infatti la logica stessa del sistema capitalistico-industriale che fa crescere continuamente il numero dei proletari e, contemporaneamente, li riduce a una massa indifferenziata, dequalificata, e destinata a diventare sempre più misera e propensa alla rivolta.
Ribellandosi al sistema capitalistico, il proletariato non ha da perdere nulla “se non le proprie catene”: è dunque una classe naturalmente rivoluzionaria, tanto più in quanto rappresenta gli interessi dell’enorme maggioranza della popolazione. Per far valere i suoi interessi, il proletariato deve organizzarsi non solo all’interno dei singoli Stati, ma anche su scala “sopranazionale”, rifiutando la logica dei nazionalismi (infatti il celebre appello con cui si conclude “Il Manifesto” è “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”). Una volta organizzata, la classe operaia profitterà dell’inevitabile crisi del capitalismo (che colpirà per primo i paesi non industrializzati) e assumerà il potere. In una prima fase, questo potere assumerà le forme della dittatura, necessaria per contrastare i prevedibili tentativi di reazione della borghesia e per assicurare il passaggio alla vera società comunista: la società senza privilegi, senza classi e senza Stato, in cui le enormi possibilità produttive di cui la tecnica umana è capace saranno messe al servizio dell’intera collettività.
Il fallimento dei moti del ’48 e la lunga stasi delle lotte sociali che ne seguì costrinsero Marx, in esilio a Londra, a ripensare modi e tempi del processo rivoluzionario. Lontano per molti anni da ogni possibilità di azione, Marx dedicò gran parte del suo tempo allo studio dell’economia politica: l’analisi economica divenne sempre più la base fondamentale del suo “socialismo scientifico”. Il frutto più maturo di questa fase del pensiero marxiano fu “Il Capitale”, il cui primo e più importante volume uscì nel 1867. Il Capitale è innanzitutto una minuziosa descrizione delle leggi e dei meccanismi su cui si fonda il modo di produzione capitalistico. Ma al tempo stesso contiene anche una storia del capitalismo, una previsione circa i suoi futuri sviluppi e un’indicazione dei compiti che, in vista di tali sviluppi, spettano al nuovo soggetto rivoluzionario: il proletariato industriale.
Fondamento principale della costruzione di Marx è la “teoria del valore-lavoro”: la teoria cioè per cui il valore di scambio di una merce è dato dalla quantità di lavoro mediamente impiegato per produrla. Il lavoro stesso è una merce e come tale viene comprato e venduto sulla base del valore-lavoro che esso contiene (ossia dei costi relativi alla formazione e al sostentamento dell’operaio). Ma la caratteristica della merce-lavoro è di produrre un valore superiore ai propri costi di produzione, di rendere più di quanto non costi. La differenza fra il valore del lavoro e il valore del prodotto, differenza di cui il capitalista se ne appropria, è detta da Marx “plusvalore”. L’imprenditore che, assumendo salariati, acquista sulla mercato del lavoro (la forza-lavoro, così come viene definita da Marx) e vende il prodotto di questo lavoro, realizza così un profitto. Da esso si forma il capitale, che si accumula e cresce su se stesso mediante l’impiego di nuova forza-lavoro. Nel formulare la sua teoria del valore-lavoro, Marx si basa in larga parte sulle elaborazioni degli economisti “classici”, ma capovolge il senso delle loro analisi e ne ribalta le conclusioni. Smith e Ricardo consideravano il modo di produzione capitalistico come un dato naturale e scontato. Per Marx il capitalismo rappresenta solo una fase ben definita nello sviluppo storico dei rapporti di produzione. Una fase iniziata alle soglie dell’età moderna e destinata a concludersi in un tempo non precisato, quando il sistema avrà espresso appieno le sue potenzialità e sarà distrutto dalle sue stesse contraddizioni.
Man mano che si sviluppa, infatti, il capitalismo produce, secondo Marx, i germi della sua dissoluzione. La concentrazione del capitale in poche mani si accompagna alla formazione di una massa proletaria sempre più numerosa e sempre più misera; alla tendenza espansiva insita nello sviluppo capitalistico (più macchine, più investimenti, maggiore produzione) fa riscontro l’incapacità del sistema di allargare in proporzione l’area di assorbimento dei suoi prodotti (di qui le periodiche crisi di sovrapproduzione); alle forme sempre più organizzate della produzione industriale si contrappone il carattere “anarchico” della concorrenza. Sono dunque le stesse leggi della produzione capitalistica a determinare la crisi finale del sistema.
La pubblicazione del Capitale segnò una data fondamentale nella storia del movimento operaio e della cultura occidentale. Per la prima volta il socialismo non era presentato come il sogno di un mondo migliore, che era legata alla riuscita del movimento insurrezionale, ma veniva fatto scaturire dalle leggi stesse dello sviluppo economico, oltre che dall’azione consapevole del proletariato organizzato. Per i militanti socialisti, per i lavoratori impegnati nelle lotte sociali, Marx non era soltanto colui che aveva individuato nel proletariato di fabbrica il protagonista del processo rivoluzionario, ma anche il grande economista che aveva in fondo i meccanismi dell’economia capitalistica e ne aveva svelato le sue contraddizioni, fece nelle scienze sociali quello che Darwin fece nelle scienze naturali.
Di tutto il complesso insegnamento marxiano, fu questo l’aspetto che più profondamente penetrò nella cultura del movimento operaio e che permise al marxismo di affermarsi gradualmente sulle altre teorie socialiste, fino a diventare, alla fine del secolo, la dottrina “ufficiale” del movimento operaio.

NASCITA DEI PARTITI SOCIALISTI

Fino agli anni ’70,’80 dell’800, i movimenti socialisti costituivano dappertutto delle piccole minoranze emarginate e per lo più puntavano le loro carte sulla prospettiva di un radicale sconvolgimento rivoluzionario. La situazione cambiò completamente alla fine dell’800. In tutti i più importanti paesi europei sorsero partiti socialisti che cercavano di organizzarsi sul piano nazionale, che affiancavano, e gradualmente sostituivano, al proselitismo rivoluzionario un’azione legale all’interno delle istituzioni, che partecipavano alle elezioni inviando, dove possibile, i loro rappresentanti nei parlamenti. Furono proprio i partiti socialisti a proporre per primi il modello di quel “partito di massa” che si sarebbe affermato come la forma di organizzazione politica più diffusa nelle democrazie europee.

NASCITA DEL PROLETARIATO DI FABBRICA

Con lo sviluppo della grande industria e la decadenza della piccola impresa artigiana, il proletariato di fabbrica venne però assumendo sempre maggiore consistenza. Da un punto di vista economico, gli operai godevano di un certo vantaggio rispetto ai lavoratori della terra. I salari nell’industria erano mediamente superiori a quelli del settore agricolo e crebbero lentamente negli anni ’50 e ’60, pur senza mai elevarsi molto al di sopra dei livelli di sussistenza. Ma per altri aspetti, orari di lavoro, condizioni abitative, assenza di sicurezza circa il proprio futuro, la vita dell’operaio non era migliore di quella del lavoratore agricolo. La precarietà della condizione operaia contrastava fortemente col quadro di sicurezza e di crescente prosperità offerto dall’alta borghesia. E il contrasto era avvertito tanto più nettamente in quanto era la stessa vita nella città a evidenziarlo e a esaltarlo. Nella città, infatti, l’operaio era a contatto quotidiano con le manifestazioni esteriori del modo di vita borghese (le case, i vestiti, le carrozze, i negozi). Oltretutto in città il lavoratore smarriva i tradizionali punti di riferimento culturali e religiosi: sempre più spesso alla parrocchia si sostituiva la taverna, luogo di perdizione agli occhi dei moralisti borghesi, ma anche luogo di incontri, di discussione, di scambi di esperienze. Cominciò così a maturare, all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro, una nuova coscienza di classe, ossia la consapevolezza di una condizione comune, unita alla spinta ad associarsi per mutare questa condizione.
Le prime forme di associazioni operaie che avevano cominciato a svilupparsi in Europa già prima del ’48 si rivolgevano soprattutto ai lavoratori più evoluti e meglio pagati, si collegavano spesso alla tradizione delle antiche corporazioni artigiane e si dedicavano più alla cooperazione e al mutuo soccorso fra i soci che non alle lotte rivendicative contro i datori di lavoro. Dopo le repressioni del ’48-’49, che avevano colpito i nuclei operai più combattivi, il movimento associativo fra i lavoratori appariva ovunque indebolito e per lo più lontano da nuove iniziative rivoluzionarie.

LA GRAN BRETAGNA

Il movimento operaio inglese delegò agli uomini della sinistra liberale la rappresentanza parlamentare ei propri interessi. L’attività dei dirigenti operai si concentrò in compenso sul rafforzamento delle organizzazioni sindacali di mestiere, le “Trade Unions”, che conobbero un notevole sviluppo negli anni ‘50-’60. Questo sviluppo fu coronato, nel 1868, dalla costituzione del “Trade Unions Congress” che riuniva i delegati di tutti i maggiori sindacati e rappresentò da allora il nucleo basilare del movimento operaio britannico. Comunque in Gran Bretagna i gruppi marxisti non riuscirono a imporre la loro egemonia sul grosso dei lavoratori organizzati nelle Trade Unions. Maggiore influenza sulle vicende del movimento operaio britannico ebbe la “Società Fabiana”, una piccola associazione formata soprattutto da intellettuali, fautori di una strategia gradualista e “temporeggiatrice”. Furono comunque gli stessi dirigenti delle Trade Unions, all’inizio del ‘900, a prendere l’iniziativa di creare una formazione politica che fosse espressione del movimento operaio. Nacque così, nel 1906, il “Partito laburista” (Labour Party), che si fondava sull’adesione collettiva delle organizzazioni sindacali.

LA FRANCIA
Molto più grave era la situazione del movimento operaio francese, decimato nei suoi quadri più attivi dalle sconfitte del ’48 e del ’51. I pochi nuclei organizzati su base locale dividevano le loro simpatie fra il comunismo insurrezionalista di Auguste Blanqui e il federalismo a sfondo anarchico di Pierre Joseph Proudhon. Le teorie proudhoniane non potevano dirsi socialiste in senso stretto, basate com’erano sull’avversione a ogni tipo di collettivismo; ma si inserivano in un filone libertario e autonomistico della democrazia francese e si adattavano bene alla struttura sociale di un paese in cui la maggioranza dei contadini erano piccoli proprietari e in cui l’artigianato e il commercio minuto conservavano un peso notevole anche nelle città. Successivamente, però, un partito di ispirazione marxista (il “Parti ouvrier français”) si formò nel 1882, ma subito si scisse in diversi tronconi, cjhe si fecero accanita concorrenza fino alla riunificazione in un nuovo partito: la “Sfio”, ossia “Sezione francese dell’Internazionale operaia” avvenuta nel 1905.

L’ITALIA

Per motivi analoghi a quelli francesi, le dottrine di Proudhon ebbero una certa fortuna anche in Italia e influenzarono in modo significativo le elaborazioni dei primi teorici socialisti nel nostro paese (vedi Pisacane e Ferrari). In Italia, peraltro, il proletariato di fabbrica era ancora pressoché inesistente e i pochi nuclei di operai e di artigiani organizzati in città di mutuo soccorso subivano soprattutto l’influenza di Mazzini, fautore della cooperazione e avverso alla lotta di classe e a ogni forma di collettivismo. La nascita del primo partito socialista avvenne nell’agosto del 1892 a Genova, dove si riunirono i delegati di circa 300 fra società operaie, leghe contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò la frattura tra una maggioranza, guidata da Filippo Turati, favorevole all’immediata costituzione di un partito e di una minoranza contraria, formata dagli anarchici e da una parte degli aderenti al Partito operaio. Vista l’impossibilità di trovare un accordo, i delegati della maggioranza, guidati dallo stesso Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitasi in altra sede, dichiararono sostituito il “Partito dei lavoratori italiani”, che nel 1895 assunse il nome di “Partito socialista italiano”. 

LA GERMANIA

Molto diversa era la situazione in Germania, dove si stava formando rapidamente una forte classe operaia e dove un movimento socialista esisteva già prima del ’48. Alla fine degli anni ’50, questo movimento trovò un leader abile ed autorevole in Ferdinand Lassalle. Lassalle basava le sue concezioni socialiste su una teoria dello sfruttamento capitalistico molto simile a quella marxista, ma diversamente da Marx, credeva nella possibilità per i lavoratori di conquistare lo Stato borghese e di trasformarlo dall’interno attraverso il suffragio universale. Per dare concreta attuazione al suo programma, Lassalle, svolse nel suo paese, la Prussica, un’intensa attività politica e riuscì a fondare, nel 1863, una “Associazione generale dei lavoratori tedeschi”, che raccolse vaste adesioni negli stati della Confederazione germanica, sopravvisse alla scomparsa prematura del suo fondatore, avvenuta nel 1864, e rappresentò il primo importante esempio di partito operaio organizzato su scala nazionale. Il primo partito socialista tedesco, ed anche europeo, fu il “Partito socialdemocratico tedesco” (Spd) nato nel 1875 al congresso di Gotha dall’accordo fra la corrente marxista e quella che si ispirava all’insegnamento di Lassalle.

INGLESE

CHARLES DICKENS: HARD TIMES

Hard Times is a novel by Charles Dickens, first published in 1854. The book is a state-of-the-nation novel, which aimed to hilight the social and economic pressure thath some people were experiencing. Unlike other such writings at the time, the novel is unusual in that is not set il London (as was also Dickens’ usual wont), but in the fictitous Victorian industrial town of Coketown, often claimd to be based on Preston.
Dickens wished to educate readers about the working condition of some of the factories in the industrial towns of Preston. The poor people, the worker of the miners and of the factory occupied up to 50% of the avaible land. They lived in the workhouses where the risk of epidemics was frequent caused by the overcrowning and by the very bad igenic condition.
In particular Dickens accuses: 
1)The social and economic system of the time
2)The mentality
3)The social injustices and the factory owners because they forced the children of poor people to work.

ITALIANO

GIOVANNI VERGA: ROSSO MALPELO

Questa novella, pubblicata nel 1880, è considerata uno dei capolavori del Verismo, raccolta in Vita dei Campi. In essa si descrive la realtà di povertà e di sfruttamento delle classi disagiate in Sicilia alla fine del XIX secolo, realtà che egli conosceva ma che emergeva altresì dalle inchieste del Regno d’Italia da poco formatosi, in particolare emergevano quelle effettuate da Fianchetti e Sonnino fra il 1876 ed il 1877.
In una cava di sabbia siciliana, dove l’umile e dura vita delle persone che vi lavorano è regolata dallo sfruttamento, dalla crudeltà dei rapporti umani, dal dominio della legge della sopraffazione, si svolge la vicenda di Rosso, giovane protagonista vittima della violenza e dell’oppressione di questo ambiente, ma a differenza dei compagni, più consapevole dei crudeli meccanismi economici che sono alla base dello sfruttamento. Rosso Malpelo appare diverso dagli altri operai della cava, non solo perché, come dimostra il suo comportamento dopo la morte del padre, ucciso da una frana nel medesimo luogo di lavoro, è in grado di provare sentimenti di pietà filiale, ma anche perché proprio la sua rabbia di orfano gli consente di essere una sorta di coscienza critica capace di cogliere le responsabilità storiche e sociali della violenza che domina la collettività in cui vive. Eppure, la sua consapevolezza non approda ad alcuna azione di riscatto, ma si traduce nell’assimilazione cosciente e spregiudicata della legge del più forte.

STORIA DELL’ARTE

REALISMO

Il realismo è una tendenza artistica sviluppatasi in Francia nel clima politico e culturale della rivoluzione del 1848 e dopo la pubblicazione del “Manifesto del Partito Comunista” della quale i principali esponenti oltre a Gustave Courbet che utilizzò per primo il termine nella sua esposizione “Pavillon du Realisme” del 1855, furono Daumier e Millet. 
Per Courbet la parola realismo viene usata nel senso stretto di riproduzione oggettiva della realtà, senza aggiunte da parte del pittore, senza alcuna interpretazione. Tutti questi autori, comunque, esercitano un severo giudizio morale sulla società.
Ad esempio vediamo:
1)”Il seppellimento a Ornans” di Courbet
2)”L’Angelus” di Millet
3)”Lo scompartimento di terza classe” di Daumier.