APPUNTI LE ARPIE

APPUNTI LE ARPIE


-La parola “arpia”deriva dal greco αρπαζο, ovvero “rapisco”.
Le Arpie sono demoni femminili, variamente concepiti da poeti e mitografi dell’antichità. Regna incertezza sulla loro genealogia (figlie di
Taumante e di Elettra, o di Tifone ed Echidna), come sul loro numero, indeterminato in Omero, fissato a due in Esiodo (Theog., 267), quindi
ordinariamente fissato a tre (Virgilio, Aen., III, 209). I loro nomi erano: Aello, che significa “Burrasca”, Ocipete “Vola svelta” e Celeno
(quest’ultima, secondo Omero, si sarebbe chiamata Podarge) “Oscura” (come il cielo per un temporale). Inizialmente esse rappresentavano i venti
marini tempestosi, ed era proprio durante alle burrasche che entravano in azione rapendo i naufraghi. L’idea della alleanza fra venti e spiriti era
molto diffusa nei tempi antichi, fu quindi inevitabile arrivare a credere all’esistenza di un genio cattivo del vento.
Successivamente acquistarono carattere di divinità infernali, che rapivano le anime dei morenti e le trasportavano nell’aldilà. Loro aspetto originario
è quello di donne alate, poi di più fantastici esseri femminili, con testa, busto e braccia umane, il resto da uccello. Iconograficamente regna una
stretta somiglianza tra le Arpie e le sirene, per cui in età ellenistico-romana se ne fece una contaminatio, come Arpie-sirene. Favolosa è dapprima la
loro residenza: nei giardini delle Esperidi, e comunque nell’estremo Occidente, in direzione del mondo infero; quindi nelle Iole Plotae o Strofadi,
isole dapprima indeterminate che si vollero poi identificare geograficamente nel Mar Egeo o nello Ionio, a sud di Zante. Versione questa mantenuta
da Virgilio, ripresa poi efficacemente in Dante (Inf., XIII, 10 segg.) , insieme con le abitudini ripugnanti che le arpie manifestano, in uno stadio
avanzato del mito, nella persecuzione di Fineo. Lo stesso Virgilio (Aen., VI, 289) pone, con gli altri mostri, le arpie alle porte d’Averno, sotto
l’influsso di Omero, che descrive le Arpie appunto come dee della morte (Odyss., I, 241; XIV, 371; XX, 77). Anche la fine leggendaria delle Arpie
si collega col mito di Fineo, poiché, secondo una delle versioni del mito, esse sarebbero state uccise, nell’impresa degli Argonauti di liberare Fineo,
da Càlai e Zete, figli di Borea (Boreadi); secondo un’altra versione, le arpie, inseguite dai Boreadi, si sarebbero rifugiate nelle Isole Strofadi. In
Esiodo, Iris, figlia di Taumante e di Elettra, appare sorella delle Arpie, quando evidentemente era escluso da queste qualsiasi carattere ripugnante.
Nel mito come nella poesia greca, specialmente nella tragedia (Eschilo, Sofocle), la fortuna delle Arpie è inscindibile da quella del mito di Fineo.
La loro maggiore popolarità è forse però dovuta alla loro natura di demoni alati infernali, di aspetto più o meno ibrido, ma non ripugnante, addetti al
trasporto delle anime a volo nell’aldilà. In tale funzione di rapitrici di esseri mortali, le arpie sarebbero da identificare, al pari dei Boreadi, con le
divinità del turbine. Perché un essere mortale sia rapito dalle arpie, non occorre che esso sia morto. Al contrario rimane in vita anche nell’al di là,
come avvenne delle figlie di Pandareo (Odyss., XX, 66 segg.). Il che potrebbe riflettere una prima rudimentale aspirazione all’immortalità
dell’anima. In tale funzione funebre sono rappresentate le Arpie con un essere umano tra le braccia nei rilievi di un monumento sepolcrale di
Xanthos (Licia), detto appunto “delle Arpie” (fine sec. VI).


L’EPISODIO DELLE ARPIE NELLA “DIVINA COMMEDIA”

Nell’Inferno della Divina Commedia la visione di Dante delle Arpie è tutta ispirata all’Eneide. Esse vivono e nidificano, infatti, nella selva dei
suicidi, che avendo fatto violenza su se stessi in modo innaturale “sradicandosi” dalla vita, nell’inferno dantesco, sono condannati a sopportare la
condizione innaturale di uomini-albero. Condizione, questa, che Virgilio aveva invece riservato a Polidoro, per non aver ricevuto degna sepoltura
dopo essere stato ucciso.
Anche la descrizione è molto simile a quella dell’Eneide:
“Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:
non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennúto ‘l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.” (Inferno, XIII canto, 4-15)
Da segnalare:
– L’aggettivo “brutte”riferito non alla bruttezza delle Arpie, ma alla bruttura di cui sono sozze e del bruttare che fanno, è reminiscenza del
racconto virgiliano.
– “… con tristo nunzio di futuro danno…”: si accenna qui alla profezia presente nell’Eneide, fatta da Celeno ai troiani, annunziando loro la
fame crudele che doveva travagliarli.
– “Ali hanno late…”: Dante riprende qui qualche spunto della descrizione virgiliana.
– “… alberi strani.”: ricordando i clamori delle Arpie virgiliane (vox dira), l’aggettivo “strani”è da intendersi con ogni probabilità riferito
non agli alberi, ma ai lamenti, con il significato di “terrificanti”.

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