Apollo et Hyacinthus

Apollo et Hyacinthus

di Wolfgang Amadeus Mozart


Era tradizione che l’anno scolastico del Ginnasio affiliato all’Università di Salisburgo si concludesse con una rappresentazione teatrale su un testo scritto dal comicus, il professore di Poesia o di Sintassi, e allestito dagli allievi. Di solito si trattava di una commedia o di una tragedia in lingua latina, su soggetto biblico o mitologico e di ampie dimensioni, alla quale si affiancava, a guisa di interludio musicale, un’opera lirica di contenute dimensioni che doveva richiamare temi, situazioni e soprattutto la morale del dramma principale, e di gusto barocco, quindi con una forte predilezione per il coup de théâtre. Nel 1767, il programma prevedeva la tragedia in cinque atti Clementia Croesi e l’intermezzo Apollo et Hyacynthus del padre benedettino Rufinus Widl; la musica dell’operina fu commissionata, invece, all’undicenne, ma già «famosissimus», come si legge nelle cronache coeve, W.A. Mozart.

 Come è noto, per evitare lo scabroso tema dell’amore omosessuale di Apollo per il giovinetto spartano Giacinto, Wild introdusse nel mito narrato da Ovidio nel Libro X delle Metamorfosi (vv. 162-219) tre nuovi personaggi, Ebalo, re di Sparta, Melia, sua figlia, e Zefiro, amico di Giacinto, e lo trasformò in una canonica storia d’amore contrastata, dove Zefiro, il villain di turno, volendo impedire che Melia, di cui è innamorato, si sposi con Apollo, uccide Giacinto, incolpando il dio. A parte la musica di Mozart, che potrebbe trasfigurare persino un elenco del telefono, il libretto di padre Widl è piuttosto monotono e si esaurisce in un’ottima prova di lingua latina.

 Tutt’altro discorso si deve fare per il mito ovidiano, il quale si impone più che per l’intreccio, in sé modesto, per le profonde riflessioni sull’amore e sulla funzione dell’arte, e segnatamente della poesia, che lo tramano.

 L’intreccio, prima di tutto. Febo Apollo arde d’amore per Giacinto, figlio del re di Sparta, e quanto più si prolunga la consuetudine con lui, tanto più si alimentano le sue «fiamme» d’amore («longa alit adsuetudine flammas»: il fuoco della passione che lo consuma crea un raffinato rimando ad sensum all’etimologia di Febo, dal greco Phoibós, ‘lo splendente’). Apollo è a tal punto invaghito del giovinetto da deporre i due strumenti che tradizionalmente sempre lo accompagnano, la lira e le frecce, e quindi, fuor di metafora, da tralasciare le sue due precipue attività: la poesia e l’arte mantica (le frecce, infatti, sono il simbolo degli enigmi attraverso i quali il dio parla agli uomini, simbolo ambiguo perché gli enigmi, se non interpretati correttamente, possono essere per l’interprete esiziali come un dardo). Un giorno Apollo e Giacinto si sfidano per gioco in una gara di lancio col disco. Febo lancia per primo: il disco «irrompe per il cielo e squarcia massiccio le nuvole sulla sua via», e poi ricadere, pesante, sulla terra. Giacinto, «cupidine lusus», spinto dalla pura passione del gioco, fa per prendere al volo il disco, ma questo rimbalza sulla terra e lo colpisce al volto, procurandogli una ferita mortale. Seguono versi di squisita fattura:  

«Tu sbianchi [Giacinto], e altrettanto sbianca il dio e sorregge il corpo afflosciato, e ora cerca di farti rinvenire, ora asciuga la brutta ferita, ora accostando delle erbe trattiene l’anima che vuole fuggirsene [animam fugientem]. Ma non c’è arte che giovi, non c’è medicina contro quella ferita [Nil prosunt artes; erat inmedicabile vulnus]. Come quando qualcuno, in un giardino irriguo, spezza viole, o papaveri e gigli tenuti su dai fulvi steli, subito quelli appassiscono e reclinano il capo divenuto greve, e non stanno più ritti e le corolle guardano il suolo: così il volto morente si abbandona e il collo privo di vigore è pesante a se stesso e ricade sull’omero».  

 Dopo la morte del giovinetto, Apollo intona una struggente trenodia: 

«Tu spiri, [o Giacinto], defraudato del fiore della giovinezza, […] e io vedo questa tua ferita che mi accusa. Crimine mio, pena mia! La mia mano è responsabile della tua morte, ad ucciderti sono stato io! E tuttavia, è una colpa la mia? Si può chiamare colpa aver giocato? Si può chiamare colpa aver amato? E almeno potessi pagare con la vita, morendo con te! Poiché la legge del destino me lo impedisce, io ti avrò sempre nel cuore e tu sempre sarai sulle mie labbra. Te celebrerà la lira percossa dalle dita, te celebreranno i miei canti e, nuovo fiore, tu porterai scritto su di te il mio lamento». 

 A queste parole, il sangue di Giacinto si trasforma in un fiore «più splendente della porpora di Tiro» e prende la forma che hanno i gigli, «solo che è rosso, mentre il giglio è argento».

 Il racconto di Ovidio, però, già lo si accennava, dietro la sontuosa tessitura letteraria nasconde suggestive considerazioni, prima di tutto sulla funzione della poesia.

 Come abbiamo letto, Apollo dismette la lira per stare con Giacinto: così tanto l’attrae il giovinetto, così forte sente la necessità di accompagnarlo nelle lunghe passeggiate che questi compie lungo il fiume Eurota e per le impervie balze della Laconia, da tralasciare del tutto la musica e la poesia (nulla è detto e quindi nulla è stato tramandato delle ore d’incanto trascorse insieme a Giacinto). Alla lira ritorna soltanto dopo la morte del fanciullo, dopo aver esperito tutte le arti pur di salvarlo. «Nil prosunt artes», scrive Ovidio: frase terribile, presa in sé, perché riconosce il fatale scacco di tutte le arti umane dinanzi a quel «inmedicabile vulnus» che è la morte, a tal punto immedicabile che neppure un dio può porvi rimedio (Apollo vorrebbe morire a sua volta, ma è condannato all’immortalità).

 Questo assunto, tuttavia, è sconfessato subito dopo dal canto che Febo intona sul corpo di Giacinto: «Te celebrerà la lira percossa dalle dita» («te lyra pulsa manu, te carmina nostra sonabunt»). Commenta Ovidio: «Tu ora sei eterno [Giacinto], e ogni volta che la primavera ricaccia l’inverno e l’Ariete succede ai Pesci acquosi, ogni volta risorgi e fiorisci sulla verde zolla». Dunque tra tutte le artes ve ne è almeno una capace non solo di competere con la morte, ma addirittura di vincerla, vale a dire l’ars poetica. Giacinto non è «aeternus» perché è stato metamorfizzato nell’omonimo fiore che rispunta di bel nuovo ogni primavera, ma perché è stato celebrato dal canto di Febo e quindi di Ovidio.

 Qui, però, non vi è solamente l’abusato discorso per il quale la poesia rende immortali sia il poeta sia gli uomini e le res gestae esaltate nel suo canto («arma virumque cano…»). Qui a imporsi è la visione che la classicità aveva dell’esistenza. Una delle etimologie della parola ‘classico’ deriva da classicum, la tromba che si suonava per chiamare a raccolta il popolo nei momenti di pericolo. Il classico, dunque, è un potente squillo di tromba che spezza il silenzio, fatto di indifferenza, di neghittosità, di vigliaccheria, del tempo presente. Il classico è resistenza contro le forze oscure che sempre minacciano l’uomo: il mondo potrà pure essere sconciato dalla prematura morte di un giovane, ma questa morte trova nella poesia almeno un argine capace di contenerne la forza distruttiva. Il sangue di Giacinto macchia di rosso vermiglio la terra – paradigma del sangue innocente che non v’è giorno dalla fondazione del mondo che non sia versato –, ma senza il racconto di un poeta di esso si sarebbe perduta la memoria: non è un caso che Apollo, nelle vesti di Musagete, conducesse il canto e la danza delle Muse, figlie di Mnemosyne, la Memoria. Attendiamoci, dunque, le peggiori sciagure se Apollo depone la lira e non suscita più il canto nei poeti.

 Il discorso di Ovidio, però, è ancora più sottile, perché investiga pure il lato cavo della poesia, la tentazione a cui essa potrebbe soccombere. Insieme alla lira, il dio mette da parte l’arco («nec citharae nec sunt in honore sagittae»), con il quale spesso è ritratto (uno dei suoi epiteti più ricorrenti è ‘il lungisaettante’). Apollo, infatti, è un dio obliquo, sommamente ambiguo, addirittura tenebroso, dotato di una forza che potrebbe rivelarsi funesta, come dice l’etimologia del suo nome, dal verbo greco apóllymi, ‘distruggere’, ‘devastare’. Le corde della cetra possono trasformarsi nella corda dell’arco, come avviene nel Libro I dell’Iliade, dove il dio si manifesta come un arciere che miete vite nel campo acheo. Ecco, quello che abbiamo chiamato il ‘lato cavo’ della poesia è l’estetizzante, il compiacimento per la parola ricercata, per l’immagine d’effetto, per la similitudine raffinata, per l’efficace figura retorica, per la sontuosa pennellata stilistica. «L’estetico» scrive George Steiner «rende sopportabile». Il lamento di Apollo sul corpo esanime di Giacinto è ‘bello’, anzi è bello al punto da farci dimenticare per alcuni istanti che un giovane nel fiore dell’età («prima fraudate iuventa») è morto. Questa terribile verità è come pacificata dall’ordine degli esametri: da qui l’impressione di una certa irrealtà. Da qui anche il rischio che il poeta perda la sua poesia, che scivoli senza avvedersene nell’inumano; il rischio, insomma, che la parola sia cercata non per lenire il dolore, ma per se stessa, per la sua musicalità, per l’effetto che essa può produrre: Apollo è un dio a tal segno luminoso da accecare.

 Dall’epicedio di Apollo si può trarre un’ultima considerazione, che riguarda un tema che oggi si è soliti chiamare ‘di civiltà’, quello, cioè, dell’omosessualità, tema scabroso che nel libretto di padre Widl è stata aggirato con l’introduzione del personaggio di Melia. Il legame omoerotico che lega Apollo a Giacinto (e viceversa, come è lecito dedurre dai versi ovidiani) non è espressione di un amore diverso, bensì di un altro modo di amare. Il primo (diverso) è un aggettivo qualificativo, che, appunto, esprime una qualità che non di rado diviene giudizio morale (giudizio che nel caso di specie ha una innegabile connotazione negativa); il secondo, invece (altro), è un aggettivo inde-finito, che non qualifica, che non crea gerarchie di valore, che non imprigiona le persone dentro de-finizioni. Dinanzi alla passione, alla tenerezza, alla gioia che legano Apollo e Giacinto non si può far altro che ritrarsi in silenzio: ogni parola sarebbe sconveniente. Come sconveniente, soltanto perché pronunciata da un uomo a un altro uomo, sarebbe un commento a quella che è una delle più alte, commoventi dichiarazioni d’amore della letteratura di sempre: «Si può chiamare colpa aver amato? E almeno potessi pagare con la vita, morendo con te!»