ADELCHI RIASSUNTO DETTAGLIATO

ADELCHI RIASSUNTO DETTAGLIATO

ADELCHI RIASSUNTO DETTAGLIATO


Introduzione all’opera
La seconda tragedia scritta da Manzoni è Adelchi (1822). La tragedia mette in scena il crollo del regno longobardo in Italia nell’VIII secolo, sotto l’urto dei Franci di Carlo Magno. Manzoni era stato affascinato da quel remoto periodo storico, e sopratttutto dalla sorte del popolo latino, oppresso dai Longobardi prima e dai Franchi poi. Le ricerche storiche da lui compiute in materia avevano dato luogo ad un vero e proprio saggio storico, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia.
La tragedia si incentra su quattro personaggi: Desiderio, animato dalla volontà di vendicarsi di Carlo e di riparare il torto fatto al suo onore, e al tempo stesso avido di potere e di conquiste; Adelchi, suo figlio, che sogna la gloria in nobili imprese e non riesce a realizzarle, in un mondo dominato solo dalla forza e dall’ingiustizia; Ermengarda, che vorrebbe distaccarsi dalle passioni, ma muor devastata dal suo “amor tremendo” per il marito; Carlo, che ha ripudiato Ermengarda e riesce a tacitare ogni rimorso nel nome della ragion di Stato, presentandosi come “campione di Dio” nella difesa del papa aggredito dai Longobardi.
Si fa qui più evidente e più ricca di forza tragica la contrapposizione tra i personaggi “politici”, Desiderio e Carlo, animati solo dall’interesse della ragion di Stato e dalla passione di dominio, e i personaggi ideali, Adelchi ed Ermengarda, che, nella loro purezza, sono inadatti a vivere nel mondo e sono destinati alla sconfitta, a trovare solo in un’altra vita la soluzione dei loro tormenti.

Il dissidio romantico di Adelchi
La gloria? Il mio destino è d’agognarla, e di morire senza averla gustata. […]
e il mio cor s’inaridisce, come il germe caduto in rio terreno, e balzato dal vento.

Il pessimisto cristiano
Dal colloquio con lo scudiero che Adelchi ha in questo frammento emerge il dissidio interiore che caratterizza il personaggio di Adelchi stesso. Egli aspira alla gloria conquistata in imprese magnanime, ed è costretto invece dai disegni politici del padre ad assalire gli indifesi territori della Chiesa, trasformandosi in un ladrone. Vi è un contrasto molto forte in questo testo, ovvero quello che avviene tra un’anima privilegiata, nobile e pura, e la realtà della politica, in cui domina solo l’interesse e la legge del più forte. Tale contrasto esprime il pessimismo cristiano della visione di Manzoni, che vede la storia umana condannata ad una degradazione non riscattabile. In essa gli individui che si ispirano ai valori più alti non possono trovar posto e ne sono irrimediabilmente espulsi.

Adelchi eroe romantico
Questo conflitto tra aspirazioni ideali e realtà colloca il personaggio di Adelchi in un clima decisamente romantico. L’eroe è condannato alla sofferenza e all’infelicità proprio dal suo privilegio spirituale. Si tratta di un tipo di eroe negativo che ha le sue radici negli eroi tragici alfieriani, in Werther, in Jacopo Ortis.
Ma a differenza di altri eroi romantici, Adelchi non è un ribelle. Egli non sfida il potere tirannico del padre e non si oppone alla realtà degradata della politica e della ragion di Stato con gesti di rivolta.
Il suo rifiuto del negativo si chiude nella sua interiorità e avviene nella pura contemplazione della propria sconfitta e del decadere delle proprie aspirazioni, della propria vita che si trascina oscura e senza scopo e del proprio animo che progressivamente si inaridisce.
Il senso della sua vita sprecata si vede nell’immagine del seme che, caduto in un terreno sterile, non può sviluppare la sua potenziale fecondità ed è portato via dal vento.
Piuttosto che alla categoria degli eroi ribelli, Adelchi appartiene dunque a quella degli eroi vittime.

Il riscatto cristiano nella morte

A questo tipo di eroi non si prospetta altra alternativa che la morte. La morta dal punto di vista cristiano è in tal senso il riscatto in un’altra dimensione, immune dalla degradazione dell’esistenza storica. Il conflitto romantico ideale-reale, nella prospettiva religiosa di Manzoni, si risolve sul piano dell’eterno. Se l’erone non è fatto per la brutalità del reale, può trovare la sua vera patria nell’altra vita.

Morte di Adelchi: la visione pessimistica della storia
Cessa i lamenti, cessa, o padre, per Dio! Non era questo il tempo di morir? Ma tu, che preso vivrai, vissuto nella reggia, ascolta. […]
Ei t’ode: oh ciel! Tu manchi! Ed io… in servitude a piangerti rimango.

La morte cristiana e il pessimismo
Adelchi muore enunciando una visione della realtà radicalmente pessimistica. La storia è per lui dominata dalla violenza e dall’ingiustizia, che si perpetuano nelle generazioni in una caterna ininterrotta. Non esiste nel mondo il diritto, ma solo una forza feroce che si fa passare per diritto. Non vi è spazio per azioni magnanime: agire in un simile contesto significa compiere del male. E non vi è rimedio: chi agisce per contrastare il male è costretto a compiere altro male; perciò “non resta/che far torto o patirlo”.
La condizione del potente, colui che ha la responsabilità di fare la storia, è totalmente negativa: il meccanismo brutale della realtà lo costringe a seminare ingiustizie e sofferenze, e rende cupa e infelice la sua vita, circondandolo di odio e di ripudio. Non bisogna perciò farsi coinvolgere dall’ambizione del potere: solo l’ora della morte fa comprendere questo grande segreto. Nelle parole di Adelchi morente si delinea dunque una svalutazione totale della sfera politica. Il male del mondo è irrimediabile. L’unica alternativa al suo meccanismo feroce è la dimensione dell’eterno (“Vengo alla pace tua; l’anima stanca/accogli”)

Desiderio e Carlo
In queste scene finali il personaggio di Desiderio, che per tutta la tragedia vive esclusivamente nella dimensione della politica e della ragion di Stato, acquista una fisionomia più umana. Non è più il sovrano superbo e tirannico che vuole solo ampliare il proprio potere, ma è esclusivamente il padre, prostrato dal dolore inconsolabile di perdere il figlio. Anche Carlo, personaggio in precedenza tutto “politico”, mostra una faccia più magnanima, nel rispetto cavalleresco per il nemico morente e nella promessa di trattare miemente il vecchio Desiderio prigioniero.

L’”amor tremendo” di Ermengarda
Qui sotto il tiglio, qui. Come è soave questo raggio d’april! Come si posa sulle fronde nascenti! […]
L’estrema fatica è questa che vi do; ma tutte son contate lassù. – Moriamo in pace. Parlatemi di Dio: sento ch’Ei giunge.

La gradazione drammatica e psicologica
Nella tragedia, Ermengarda vive soprattutto in questa scena. Essa è costruita con calibrata gradazione drammatica e psicologica, dall’atmosfera di pace e serenità con cui ha inizio all’atmosfera cupa di delirio e di morte in cui culmina, per concludersi poi nuovamente con note di sperana. L’eroina compare in scena ormai distaccata da tutte le cose del mondo, protesa solo verso la liberazione che le verrà dalla morte. In questa “pace/stanca, foriera della tomba” appaiono sopiti tutti i tormenti suscitati in lei dal ripudio di Carlo. Essi però non sono cancellati, ma sono solo momentaneamente rimossi dalla conoscenza.
Infatti, durante il dialogo con la sorella, l’amore riaffiora attraverso numerosi indizi. Innanzitutto si presenta mascherato dal desiderio di far giungere a Carlo un ultimo messaggio di perdono. Poi dal desiderio di Ermengarda di essere sepolta con l’anello ricevuto all’altare, dal rifiuto di prendere il velo monacale, perchè si sente ancora sposa di Carlo (“Ma – d’altri io sono”) e infine dal sogno che Carlo sia assalito da pentimento e pietà dopo la sua morte e chieda di avere presso di sé la sua spoglia.
Il sogno di Ermengarda è dissolto dall’intervento di Ansberga che rileva che Carlo si è sposato, E’ per Ermengarda un nuovo trauma terribile, che la fa piombare nel delirio. Si rivela così come fosse fragile e apparente il suo equilibrio e come fosse illusorio il distacco con cui essa guardava alla vita. Solo ora l’eroina confessa apertamente quell’amore, che prima emergeva solo in forme mascherate. Essa rivela che si tratta di una passione dalla forza terribile (“Amor tremendo è il mio…”). Quella passione, che prima era sicura e fonte di gioia ed ora è ostacolata ed impossibile, diviene devastante e conduce l’eroina in punto di morte.

La complessità della psiche
La scena è dunque impostata su un conflitto psicologico di grande forza drammatica: un contenuto respinto dalla coscienza, perchè turba e sconvolge, ma che raffiora prepotentemente in forme mascherate, e che infine emerge in tutta la sua potenza non appena i controlli della coscienza vengono a mancare. La drammaticità si fonda su una visiioen nuova, moderna e romantica della psiche.
La novità di Manzoni è di aver scoperto la tragicità che può essere insita anche in una passione normale e pienamente legittima, l’amore coniugale; la tragicità è scoperta nella realtà per così dire “quotidiana”. Anche per questo Ermengarda è un’eroina tragica molto moderna.

Morte di Ermengarda
Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto; lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, giace la pia, col tremo sguardo cercando il ciel. […]
Così dalle squarciate nuvole si svolge il sol cadente, e, dietro il monte, imporpora il trepido occidente: al pio colono augurio di più sereno dì.

Il personaggio di Ermengarda
Ermengarda, nel sistema dei personaggi della tragedia, è il “doppio” femminile di Adelchi. Anch’essa è un’anima pura ed elevata che si scontra con la brutalità del mondo. Ma se Adelchi esprime il rifiuto della realtà nel campo pubblico e politico, Ermengarda lo esprime esclusivamente nel campo privato dei rapporti amorosi.
Ella è la tipica figura della donna angelo, che, nella sua eterea purezza, non è fatta per reggere l’urto delle passioni terrene, e soprattutto della passione amorosa. Il suo è un amore coniugale, quindi lecito e castissimo, eppure la potenza dell’amore (un “amor tremendo”) è egualmente “empia” per lei, nel senso che non ha pietà della sua fragilità, e con i suoi “terrestri ardori” la sconvolge e la devasta.
Ermengarda è fatta per i “placidi gaudi” di un altro amore, quello celeste. Per questo rifugge dal contatto col mondo e si protende verso la sua vera patria che è il cielo. Anche per lei, come per Adelchi, la morte è l’unica soluzione al suo conflitto irriducibile con la realtà. E muore come il fratello, guardando al cielo, ansiosa di trovarvi la pace e la liberazione dai suoi tormenti.
In questo testo si capisce come la poesia manzoniana sia epica e drammatica: ha un taglio eminentemente narrativo, si fonda sulla costruzione di personaggi, sull’analisi di moti interiori non soggettivi, ma di individualità oggettivate, mette in scena conflitti drammatici. E’ una lirica in cui è presente già un grande narratore.

I piani temporali
La poesia è impostata su un complesso gioco di piani temporali e di simmetrie. Si parte dal presente, che vede Ermengarda sul letto di morte (strofe 1-4); poi con un flashback si risale al recente passato, ai tormenti dell’eroina chiusa nel convento, che cerca di soffocare il suo amore mentre il ricordo affiora irresistibilmente nella memoria (strofa 5); attraverso il ricordo di Ermengarda nel passato recente si inserisce, con un secondo flashback all’interno del precedente, il passato più lontano dei giorni felici trascorsi con Carlo, che prendono corpo nelle sue vivide scene della caccia e del ritorno del re dalla guerra (stroef 6-10). Si ritorna poi al passato recente e ai tormenti di Ermengarda con la similitudine dell’erba inaridita (strofe 11-14), e infine si ripresenta la situazione iniziale, al livello temporale del presente, con l’agonia di Ermengarda (strofe 15-20).
Ai tre livelli temporali si collegano rispettivamente tre motivi: con il presente valore purificatore e provvidenziale della sventura (“al Dio de’ santi ascendere/santa del suo patir”; “te collocò la provida/sventura in fra gli oppressi) e la pace ultraterrena. Con il passato recente l’”empia virtù d’amor” che fa soffrire Ermengarda; con il passato remoto la felice vita coniugale.